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Spegnere i telefonini in aula?

Sull’edizione uscita domenica 26 maggio, il settimanale ilCaffè ha dedicato il suo confronto al tema dei telefonini in mano ad allievi della e nella scuola dell’obbligo. Col titolo Spegnere i telefonini in aula? I diritti e doveri non bastano, Clemente Mazzetta ha così introdotto il confronto.

Telefonini a scuola, sì o no? Una questione che da scolastica, educativa, comportamentale, si è fatta politica. Ed è uscita dall’ambito stretto delle discussioni familiari per sbarcare in parlamento, che dovrà decidere sulla mozione presentata da tre deputati che hanno posto la questione in termini ultimativi: proibire lo smartphone nelle scuole dell’obbligo, così come si è fatto in Francia e nel Canton Vaud. Quella del divieto totale è un’ opzione che il governo reputa eccessiva, perché “proibirne [l’uso] in modo assoluto significherebbe venire meno a un indispensabile compito educativo”.

Il Dipartimento educazione, cultura e sport ha comunque fornito alcune indicazioni: ovvero che i telefonini possono essere portati a scuola, ma devono restare spenti o in “modalità aereo”. Ovvero non connessi. Va da sé che non devono essere utilizzati durante le lezioni, che possono essere ritirati se usati in modo inappropriato, e il loro uso nel corso delle uscite didattiche deve essere stabilito dalla direzione scolastica.

Il tema dei telefonini, e delle valutazioni che seguiranno, evidenziano però ancora una volta come sulla scuola vengono scaricati nuovi compiti “educativi” a base di norme e regolamenti. Si confrontano sul tema un insegnante di oggi, Daniele Dell’Agnola, e un direttore didattico di ieri, Adolfo Tomasini.

Avevo già parlato di questa iniziativa giusto due anni fa (Vietare non serve a nulla, ma è un bell’alibi quando l’adulto non sa più che pesci pigliare), quando tre parlamentari – il popolare democratico Giorgio Fonio, il socialista Henrik Bang e la liberale Maristella Polli – avevano presentato la loro interrogazione.

Ora è giunto al Parlamento il parere del Consiglio di Stato. Ecco quindi le osservazioni che abbiamo messo a confronto, ognuno non sapendo chi fosse l’altro sottoposto a confronto.

L’analisi/1 – Ma non c’è bisogno di un divieto di Stato, basta quello scolastico

di Adolfo Tomasini

Capisco che il tema delle nuove tecnologie, e in particolare l’uso degli smartphone, interroghi e coinvolga anche il mondo della scuola, che fra i suoi compiti non ha solo quello di insegnare a leggere, scrivere e far di conto, ma, prima di tutto, quello di educare. Da qui a coinvolgere il Consiglio di Stato per stilare un regolamento che proibisca agli studenti l’uso del telefonino, o di altre diavolerie elettroniche, ce ne passa.

È la questione politica in sé che mi pare strana. Essere a scuola significa costruire delle competenze disciplinari assieme ad altre persone presenti in queste piccole comunità. Non si tratta dunque di decidere se vietare o consentire lo smartphone. A scuola si va per imparare e crescere culturalmente e socialmente. Ciò che ostacola il lavoro del maestro o dell’alunno va rimosso, senza se e senza ma. Il telefonino, per restare a questo esempio, deve restare muto durante il lavoro perché intralcia l’attività, non perché è proibito.

Tocca all’insegnante richiamare all’attenzione l’alunno che si distrae, che non sta attento, che non segue. È implicito nella sua funzione: non c’è bisogno del Consiglio di Stato. Come in passato non si potevano leggere giornaletti di nascosto, non si doveva usare il bigino, non si doveva disturbare, così oggi non si deve chattare, sbirciare le risposte sul telefonino, lasciarlo squillare. Basta l’autorevolezza del docente, che è più educativa di ogni regolamento. Analogamente, a chi i vuole proibire il telefonino per evitare forme di bullismo di ogni specie, dico che o i docenti hanno l’autorevolezza per impedire qualsiasi forma di prevaricazione, fisica o psicologica, oppure non sanno fare il loro lavoro. Se due ragazzi si picchiano nell’intervallo, per dirne una, non c’è bisogno di un regolamento per chiedere che il docente interrompa la zuffa. Così se si assiste all’uso improprio di un telefonino si intervenga. Tutto lì. L’educazione a scuola non può passare attraverso una serie sempre più affollata di norme sollecitate all’autorità superiore – un modo di fare, tra l’altro, che delegittima la scuola e gli insegnanti. Passa piuttosto da un dialogo fra la scuola e la famiglia, fra i docenti e i genitori, fra i maestri e gli allievi, anche per concordare in modo pragmatico l’uso del cellulare. In questo senso condivido l’indirizzo del Consiglio di Stato, che non vuole allinearsi a nuovi regolamenti, come in Francia o nel Canton Vaud, preferendo che siano i singoli istituti a regolare come meglio credono la libertà di decidere come comportarsi e di comunicare con chiarezza i diritti e i doveri di ognuno: allievi, genitori e insegnanti.

L’analisi/2 – La scuola è chiamata a evitare gli eccessi delle nuove tecnologie

di Daniele Dell’Agnola

Non è facile né scontato prendere posizione fra il divieto assoluto agli smartphone a scuola e l’apertura ad un suo uso fra le mura scolastiche, anche se regolamentato. Sarei contrario ad una proibizione totale, come è stato deciso in Francia. Ma osservare decine di ragazzi nei cortili, fermi, incollati ad uno schermo, mette tristezza: la scuola deve restare un luogo di socializzazione, di formazione della persona e non uno spazio per un uso inconsapevole di oggetti tecnologici. Dovrebbe fare una “resistenza” intelligente all’abuso.

Le nuove tecnologie, i telefonini fanno parte della vita degli adolescenti. E, considerato che la scuola ha anche una importante finalità educativa, occorre prenderne atto, occorre farci i conti. Magari, integrandoli nell’ambito didattico, per un uso critico, ragionato, di queste nuove tecnologie. Nel contempo dobbiamo essere consapevoli che permetterne un uso senza vincoli nel contesto scolastico significa ancora una volta far ricadere sui docenti una sfida altissima a cui non tutti sono pronti e preparati. Alla norma generale del DECS sull’uso dei cellulari, bisogna affiancare la sensibilizzazione, la formazione, il dialogo. Non bastano un quadro normativo e delle regole di comportamento: occorre che gli insegnanti siano anche rassicurati. Ovviamente siamo tutti favorevoli ad un’educazione verso le nuove tecnologie, perché i ragazzi devono essere capaci di orientarsi in quest’ambito, devono riuscire a distinguere il vero dal falso, le news autorevoli e le fakes, le bufale, devono essere consapevoli di cosa significa divulgare un’informazione.

Però attenti, perché gli insegnati hanno già tanti altri compiti: devono prestare attenzione alle forme di disagio, devono curare la disciplina che insegnano, osservare gli atteggiamenti in classe, entrare in relazione con gli alunni. Gli smartphone sono entrati nella “dimensione scuola” negli ultimi dieci anni, quindi non possiamo essere pronti a improvvisare. Che fare dunque? Penso che sarebbe opportuno mettere dei limiti. Fare un po’ di “resistenza”. Pensando ad esempio ad uscite senza l’uso del cellulare. Un’esperienza anche solo di una giornata per far capire ai ragazzi che si può vivere, camminare, comunicare anche senza telefonini. Ciò non esclude una riflessione su un loro utilizzo più consapevole, anche attraverso esperienze a contatto con le tecnologie: il cellulare potrebbe entrare anche nell’aula all’interno di un percorso intelligente di sensibilizzazione all’uso. E con una formazione adeguata degli insegnanti. Ricordiamoci che con le regole si fa esperienza. E si cresce.


Qui finisce il servizio “comparativo” de ilCaffè. Sono contento di aver scoperto stamattina che il mio “avversario” di idee era Daniele Dell’Agnola, insegnante e scrittore che stimo molto.

Copia della pagina del domenicale può essere scaricata qui.

La formazione professionale tra il dire e il fare

Sono tanti anni, ormai, che, a scadenze regolari, i nostri politici propagandano la formazione professionale come alternativa al liceo. Ho trovato qualche esempio nei miei appunti, ma ve ne sono naturalmente tanti altri.

  • [Ci si può chiedere] «se non occorra sostenere maggiormente la via di una formazione professionale ancora troppo spesso (e a torto!) ritenuta di serie B» (Gabriele Gendotti, direttore del DECS, su ilCaffè del 30 agosto 2003).
  • «La conoscenza è una virtù fondamentale e una premessa di libertà, un bene che è a prova di furto. Ma i percorsi formativi sono percorribili e di qualità anche in campo professionale». (Nicola Pini, vicepresidente del PLR, sul Corriere del Ticino del 29 novembre 2014).
  • «È tempo  di sottolineare  in  modo  forte  e  chiaro  che il  percorso  formativo  professionale  è  di  pari dignità  rispetto  alla  formazione  liceale». (PLRT, Risposta alla consultazione sul documento “La scuola che verrà” del 31 marzo 2017).
  • «Chi ha una licenza con i livelli B, dopo la scuola dell’obbligo, si trova di fronte molte porte chiuse, fra cui anche quelle dell’apprendistato. A essere colpiti maggiormente sono i giovani con origine sociale bassa, che per esempio non possono permettersi i corsi di recupero per potersi assicurare il passaggio ai livelli A. Inoltre sono centinaia i ragazzi che sono a casa “a far nulla”, che hanno smesso di studiare e di cercare un impiego». (Presentazione del servizio del settimanale d’informazione “Falò” della Rsi Livelli da stress, 21 febbraio 2019).
  • Per terminare, un’opinione dall’attualità: «Non tutti devono per forza andare al liceo in particolare in un paese dove il sistema formativo, grazie a tutta una serie di passerelle, permette, con impegno e capacità, di non arrivare mai in un vicolo cieco ma di avere sempre la possibilità di proseguire i propri studi». (Alex Farinelli su Opinione liberale dell’8 marzo 2019).

Intendiamoci: il nostro modello di formazione professionale – industriale, agraria, artigianale, artistica, commerciale… – è giustamente invidiato e ammirevole. Negli anni ho seguito la formazione professionale a volte un po’ per caso, altre per interesse o dovere di servizio. Ho sempre incontrato scuole e insegnanti competenti, sensibili e attenti. È un settore che, fors’anche per il contesto socio-economico in cui è immerso, ha saputo rinnovarsi costantemente, assai spesso senza troppi clamori.

Su laRegione del 2 e 3 marzo è apparso un articolo di grande interesse: Il peccato originale della scuola ticinese, di Gianni Ghisla, pedagogista a tutto tondo, grande conoscitore della formazione professionale in Ticino.

Quel è il peccato originale di cui parla?

Nella storia del nostro Cantone – scrive – e in particolare della sua scuola c’è una sorta di peccato originale. Un peccato, forse tra altri, che a partire dalla fine dell’Ottocento ha dato luogo ad una crescente contaminazione del sistema formativo e, per certi versi, anche dell’economia e della cultura ticinesi. E quale sarebbe questo peccato originale? Alludiamo alla negligenza continua e costante di tutto ciò che ha riguardato la formazione professionale e quindi la preparazione dei giovani al mondo del lavoro. Parole forti? Può darsi. Ma la realtà storica parla un linguaggio che non lascia adito a dubbi.

E continua: Con sorprendente regolarità e continuità [ci] si imbatte in fatti significativi così come in messaggi, denunce e richiami di persone autorevoli che testimoniano inequivocabilmente del disinteresse e della trascuratezza nei confronti delle scuole professionali. Un terreno fertile su cui sono facilmente cresciuti tanti pregiudizi e una diffusa mentalità di diffidenza passiva e attiva che hanno prevalso di fronte agli sforzi di chi avrebbe voluto far crescere la formazione professionale. Occorre onestamente chiedersi: che ne sarebbe stato della formazione dei giovani al mondo del lavoro se non ci fosse stata una permanente e forte pressione da parte della Confederazione? Fermo restando che le dinamiche socioculturali hanno sempre un carattere di reciprocità, la noncuranza nei confronti del settore professionale della scuola non ha mancato di avere degli effetti negativi sullo sviluppo della nostra economia e sulla cultura ticinesi, da sempre propense a snobbare la formazione professionale considerandola o un impegno non redditizio o una scelta di second’ordine rispetto alle vie cosiddette accademiche.

Gianni Ghisla porta esempi storici, che confermano senza equivoci la presenza quasi innata del peccato, che è originale solo per una questione retorica.

Amara, ma non arrendevole, la sua conclusione: Non sarebbe forse maturo il tempo per un progetto di scuola ticinese che finalmente prenda sul serio l’insieme della società e delle sue esigenze, quelle sociali, quelle culturali e quelle del lavoro? Magari in questo modo si potrebbe riprendere il filo di una scuola del futuro di tutti e lasciarsi alle spalle il peccato originale.

Quei politici che predicano l’assoluta dignità della formazione professionale rispetto a quell’altra, solo apparentemente più “intellettuale”, hanno manifestamente ragione. Purtroppo, tuttavia, anche per tutto l’ultimo mezzo secolo nessuno ha dato segnali di voler creare un nuovo e diverso progetto di scuola ticinese. Lo sanno anche i più sprovveduti che il nodo gordiano del sistema è la scuola media, oggetto, sin dalla nascita, di continui aggiustamenti che non sanno in alcun modo prendere di petto un nuovo, diverso e indispensabile progetto di scuola dell’obbligo.

La scuola media – una riforma sacrosanta votata dal parlamento nel 1974 – era stata fortemente voluta dalle forze progressiste del Cantone, in primis socialisti e liberali-radicali. Nacque con tante buone scelte, ma anche con alcuni inevitabili compromessi, che avrebbero potuto restare transitori, mentre sono ancora lì. Per dirne una, gli ormai famigerati livelli, che hanno subito alcune mutazioni in questi 45 anni: ma sono sempre lì, irrinunciabili per troppi insegnanti e tantissimi politici, reperto vivente di ciò che si era voluto sopprimere con la riforma: il ginnasio, per chi si sarebbe iscritto al liceo o alla scuola magistrale, e la scuola maggiore per tutti gli altri.

C’è poi quell’altro peccato, di ben maggiore gravità.

Avevo scritto qualche anno fa: «L’insofferenza di taluni accademici nei confronti della formazione pedagogica è ormai una storia vecchia (…). Nel 1974 il nostro Parlamento, dopo una battaglia lunga e, in parte, estenuante, votò le Legge sulla scuola media, che cancellava le scuole precedenti, vale a dire la scuola maggiore e il ginnasio. La prima era una buona scuola, nella quale i maestri insegnavano; la seconda era una scuola selettiva, il cui obiettivo dichiarato era quello di selezionare i migliori (o i figli dei notabili) per mandarli alla scuola superiore e, poi, all’università. Nella prima c’erano i Maestri, preoccupati di insegnare; nella seconda i professori, che venivano dritti dritti dall’università – fatta eccezione per gli ultimi anni del boom demografico, dove si reclutava il personale come viene viene. In quell’ormai lontano 1974 il parlamento fu costretto ad accettare un pesante compromesso affinché la rivoluzionaria legge passasse: la scuola media unificata, che sarebbe diventata una realtà qualche anno dopo, prevedeva, dopo un primo biennio identico per tutti, i famigerati livelli A e B, poi confluiti in forme di selezione meno appariscenti, quali i corsi di base o quelli attitudinali in alcune discipline. Il guaio fu che, dopo aver ingoiato il compromesso, la nuova scuola fu presidiata da una moltitudine di insegnanti e direttori provenienti dal vecchio ginnasio: così che si finì per riconvertire i maestri della scuola maggiore in professori, invece che fare il contrario – e poco poté fare Franco Lepori, all’epoca capo dell’ufficio cantonale della neonata scuola, per fronteggiare i guasti dei politici, perpetrati con le loro nomine disinvolte» [Ma chi gliel’ha detto, a certa gente, di fare il professore?, Corriere del Ticino del 16.02.2011].

Prendiamo le scelte dei nostri quindicenni al termine della scuola dell’obbligo. La realtà, stringi stringi, è che al termine della scuola media solo poco più della metà degli allievi ha in mano i requisiti scolastici per scegliere la scuola media superiore (liceo o scuola di commercio) o una formazione professionale. A ciò si aggiunga che la SMS ha elevanti tassi di bocciatura, soprattutto nei primi due anni, e che La ripetizione dell’anno scolastico è consentita una sola volta nei primi tre anni (Regolamento delle scuole medie superiori, 2016).

Per uscire dal peccato originale, insomma, occorrerebbe ripensare da cima a fondo la scuola dell’obbligo, a partire da nuovi piani di studio, pensati per tutti gli allievi che dovranno ottenere la licenza della scuola dell’obbligo, una riforma che consenta a ognuno di conoscere a menadito i propri pregi e i propri difetti: serve cioè con urgenza una scuola che offra la possibilità di scegliere con la massima consapevolezza possibile come continuare la propria formazione di base.

L’obiettivo più nobile della scuola dell’obbligo è quello di gettare le basi per educare i cittadini di domani (L’unico e fondamentale senso della scuola dell’obbligo, Corriere del Ticino del 22.01.2019). A questa eccellenza appartiene pure l’esortazione socratica «Conosci te stesso», che può e deve iniziare già nell’età più tenera, per rafforzarsi e crescere nel corso di tutta la vita.

Così ci vogliono programmi scolastici che si nutrono di matematica, scienze naturali e discipline umanistiche. Ci vuole una scuola che tenda a formare e a educare, senza livelli e selezioni arbitrarie, ma con l’obbligo di dare a tutti gli allievi la più solida base culturale che ognuno può raggiungere a quell’età, ritenuto che c’è un’età anagrafica che coincide solo in parte con la vera età di sviluppo. Serve un nuovo paradigma del sistema scolastico, con insegnanti che sappiano lavorare insieme e uscire dalle pareti protettive (difensive) delle proprie aule, affinché gli allievi possano usufruire delle migliori capacità di ogni maestro. E servono delle équipe di docenti che siano in grado di dar vita a una differenziazione autorevole dell’attività quotidiana della e nella scuola. Serve dunque un istituto di formazione dei docenti in grado di garantire il rispetto delle finalità istituzionali, le competenze disciplinari e le capacità pedagogiche e didattiche.

Serve – senza nostalgia per un mondo che non c’è più – che la si smetta, tutti insieme, di pensare che una struttura nata due secoli fa possa continuare a stare in piedi solo con riformette che non toccano l’essenza della scuola dell’obbligo di oggi: come s’è fatto fin qui.

P. S.: alla fine bisognerà difendersi dai famosi Fachidioten, gli idioti specializzati, evitando che si riproducano, culturalmente, come topi. Con la scuola in salsa bolognese, quella del 3+2 (riservata quindi a chi abbraccerà una formazione terziaria), il liceo è diventato un coperchio per troppe padelle. Forse dopo la scuola media ci potrebbe essere qualcosa di diverso dal liceo e dalla scuola professionale. Forse si potrebbe inventare una terza via, fuori dalla logica dei politecnici e di talune facoltà universitarie di eccezionale livello scientifico.


Gianni Ghisla è autore, tra tante cose, del bel volumetto Un dialogo immaginario ma non troppo: breve storia della formazione professionale in Ticino attraverso i suoi protagonisti, vale a dire Luigi Brentani, Francesco Bertola e Vincenzo Nembrini,  (2016, Bellinzona: Edizioni Casagrande). Dall’«Avvertenza» (p. 7): Questo libro sulla formazione professionale in Ticino ha uno statuto particolare: esso è infatti la versione ridotta di un corposo volume sulla formazione professionale in Svizzera di Emil Wettstein, Evi Schmid e Philipp Gonon tradotto e curato nell’edizione italiana da Gianni Ghisla. Ha quindi obiettivi di divulgazione e di sensibilizzazione verso un mondo scolastico sconosciuto a molti.

EMIL WETTSTEIN, EVI SCHMID, PHILIPP GONON, La formazione professionale in Svizzera Tipologie, strutture, protagonisti, Edizione italiana a cura di Gianni Ghisla, © 2016 IUFFP Lugano / www.iuffp.swiss (disponibile in formato elettronico sul sito internet dell’Istituto Universitario Federale per la Formazione Professionale e del Centro per la didattica universitaria).

Serenità, tempo, diritto: le parole perdute della scuola

Non è, di per sé, che mi spiaccia fare gli auguri, e nemmeno lo sento come un dovere più o meno conveniente. Però ci sono date con un sapore simbolico più gradevole di altre. Il passaggio da un anno al successivo è una di queste.


Nei giorni sotto Natale è circolata nei media l’originale iniziativa didattica di un’insegnante di lettere di una scuola secondaria dalle parti di Lodi. Per i suoi allievi ha avuto un’idea insolita: la rubrica delle parole perdute. Gli ultimi cinque minuti di lezione – racconta – ho deciso di impiegarli ricordando termini di scrittori del passato (da Dante ad Alessandro Manzoni) o andati ormai in disuso. Chiedo loro di memorizzarli e contestualizzarli. Il massimo per i miei alunni era citare i versi dei rapper del momento; io, invece, batto sull’antico. All’inizio erano perplessi, poi hanno iniziato a incuriosirsi, a divertirsi e a creare frasi, fino a quando una mattina un alunno si è “dichiarato” a una sua compagna affermando: “La tua presenza è alcinesca”. L’aggettivo alcinesco vuol dire attraente. In quel momento ho capito che la mia iniziativa stava funzionando.

Ne ha scritto Paolo Di Stefano sul Corriere della Sera del 23 dicembre (“Le parole che fanno crescere”):

In un tempo in cui il vocabolario viene sfregiato dalle volgarità e dalle sciatterie di politici cialtroni e volgari nonché dall’esibizionismo anglofilo, quello della prof. De Luca è un gesto quasi eroico. Proporre ai ragazzi di aggiungere al loro repertorio lessicale parole inconsuete e strane, significa opporsi a quella che Pasolini, sin dagli anni 70, intravedeva profeticamente come omologazione culturale da civiltà totalitaria. E non è facile, visto che spessò l’educazione «sentimentale» giovanile è improntata al turpiloquio finto trasgressivo e finto maledetto di tanto rap o trap commerciale […]. La lingua ha un’infinità di risorse: è un deposito di storie (le etimologie sono intrecci straordinari come i migliori romanzi), un patrimonio di potenzialità creative con cui si può anche giocare, ed è il più ricco arsenale di armi (non da fuoco!) con cui farsi valere. La Prof. De Luca ha capito, probabilmente, che con l’aria che tira la prima educazione civica è quella linguistica.

ALFRED SISLEY – «Le Chemin de Montbuisson à Louveciennes», 1875, Huile sur toile (cm 46 x 61), Paris: Musée de l’Orangerie

Anche la scuola ha il suo elenco di parole perdute. Di alcune non si sente la mancanza, anche se il mondo è pieno di nostalgici – Si stava meglio quando si stava peggio!, e quattro scapaccioni erano più pedagogici di tante manfrine. No, grazie.

Ci sono invece parole che si dovrebbero recuperare, parole che arrivano da tanto tempo fa. Una, ad esempio, è tempo, una parola che ci riporta a Jean-Jacques Rousseau.

Émile ou de l’éducation, par Jean-Jacques Rousseau, citoyen de Genève, 1762: Amsterdam, chez Lean Néaulme, Libraire | Tome premier, Livre second, pp. 191-2

Così la filosofa Lina Bertola:

(…) se l’educarsi è un divenire ciò che si è, un viaggio verso sé stessi, la scuola per educare deve anche saper resistere. Resistere alle esigenze sempre più pressanti di un mercato che richiede prestazioni, inducendo a sacrificare la pienezza dell’essere allo sviluppo delle capacità di funzionare bene. Ma per educarsi occorre tempo (…). Nell’educazione di Emilio bisogna in un certo senso perdere tempo, non essere impazienti di vedere nel fanciullo l’uomo. Grande idea: perdere tempo, lasciarlo scorrere il tempo, attraversarlo con calma, come richiede l’ascolto di un sentimento, il filo di un ragionamento, la trama di un pensiero e di un racconto che sappia diventare esperienza di sé nell’ordine del senso. Bella idea per contrastare una scuola che senza il tempo non può educare. Per contrastare una scuola frettolosa e un po’ disorientata che rincorrendo performances di ogni genere arriva perfino a pensare di anticipare le scelte per migliorare la sua qualità.[Rousseau e l’educazione, RSI Rete 2, giugno 2012].

Sì, tempo è una parola da togliere dalla soffitta, perché suggerisce altre parole da rimettere in piena forma, come serenità, affinché la scuola sia un ambiente protetto, dove si possa crescere e imparare perché si percepiscono la fiducia e il rispetto. O come diritto, altra parola che ha radici millenarie, perché la vita nell’aula deve offrire a tutti la certezza del diritto, al riparo da ogni vessazione, contro l’indifferenza alle differenze, e con la scelta precisa di «passare dal mito delle pari opportunità al diritto all’educazione per tutti».

Anche nella scuola ci sono le parole perdute e sarebbe bello se qualcuno cominciasse a riportarle in vita, dentro le aule della scuola dell’obbligo e negli spazi di formazione degli insegnanti.

È il mio augurio per il 2019.

La radici cristiane dei ticinesi

Circola dall’8 settembre l’iniziativa popolare denominata «Ticino laico». Si vogliono raccogliere 10 mila firme per una modifica della Costituzione cantonale, che, attualmente, all’art. 24 recita: (1) La Chiesa cattolica apostolica romana e la Chiesa evangelica riformata hanno la personalità di diritto pubblico e si organizzano liberamente. (2) La legge può conferire la personalità di diritto pubblico ad altre comunità religiose.

L’iniziativa propone quest’altra versione: (1) Lo Stato è laico e osserva la neutralità religiosa. (2) Al fine di proteggere le libertà di coscienza e di credenza, il Cantone e i Comuni non promuovono né sovvenzionano alcuna attività legata ad un culto.

C’entra qualcosa con la Scuola e l’educazione? Direi proprio di sì. Basterebbe pensare a tutta la storia dell’insegnamento della religione a scuola, di cui ho scritto più volte; qualche esempio, per limitarmi ad alcuni articoli apparsi nella mia rubrica Fuori dall’aula:

L’articolo del 2007 l’avevo concluso con un po’ di amarezza:

Si propone quindi che in tutte le scuole obbligatorie e post obbligatorie a tempo pieno sia impartito per tutti gli allievi un corso di cultura religiosa, per capire la cultura e la tradizione europea e per avvicinare i giovani alla comprensione dell’universalità del fenomeno religioso.

Non mi interessa, in questo momento, discutere se occorra insegnare la religione a scuola, né a chi, in tal caso, si debba attribuire il mandato. Dietro l’ora di religione a scuola covano altri e ben più prosaici interessi. Ma cosa c’entra questa discussione con il nulla che sta «a monte»? Se, come scrivono i parlamentari, «l’ignoranza dei sia pur minimi elementi di cultura cristiana (…) è sempre più generalizzata ed evidente», si crede davvero che sostituendo un’ora con un’altra si risistemerà l’intero sistema? Sciaguratamente c’è da supporre che dopo ’sto gran scompiglio la cultura umanistica della società ticinese sarà rimasta al palo. Con buona pace di tutti.

Ancor prima che circolassero i formulari per la raccolta delle firme, Fiorenzo Dadò, presidente del Partito Popolare Democratico, si era espresso in termini sconvolgenti, neanche stessero per arrivare i Mori guidati dal feroce Saladino:

«Se volete cancellare la nostra identità, fatelo tra le vostre mura domestiche! Non in Ticino né in Svizzera. Ci risiamo, e non poteva essere altrimenti, visto che questi tentativi di rimozione identitaria si manifestano con una certa ciclicità. Un gruppo di ticinesi, tra i quali due ex Consiglieri di Stato radical chic dalle robuste pensioni per l’occasione riemersi dalle nebbie di un passato dimenticato, ha pensato bene di lanciare un’iniziativa per proporre il divorzio dalle nostre tradizioni. Un’iniziativa che ha come preciso obiettivo quello di annullare ogni possibile collegamento con la nostra storia e le nostre – innegabili! – radici cristiane. Un pericoloso tentativo quello in atto, proprio oggi che sempre più persone – confrontate con la frenesia, la superficialità e l’egoismo di questo mondo globalizzato nel quale viviamo – si sentono vulnerabili e disorientate. C’è al contrario un gran bisogno di certezze, di saldi legami con le nostre origini e di valori comuni attorno ai quali ritrovarsi e riunirsi. Non una cancellazione di secoli di tradizioni e di libertà portate avanti e soprattutto ottenute, con sudore e sangue, da coloro che ci hanno preceduti. Né tantomeno di guerre di religione, montate ad arte, dal sapore ottocentesco. Basta con questi tentativi di boicottaggio della nostra identità in nome di un’uguaglianza dei diritti di tutte le comunità religiose. Così facendo saremmo sì tutti uguali, ma nel vagare senza meta e punti di riferimento».

Insomma, un sacco di sciocchezze, mentre le chiese sono sempre più vuote e la politica ci regala il Salmo svizzero da imparare obbligatoriamente a scuola, il corso di educazione alla cittadinanza, il divieto dei telefonini – e chissà cosa ci riserveranno i paladini di questa scuola tutta utilitarismo, profitto e selezione precoce. Però l’indifferenza, l’ignoranza e le menzogne che circondano questa iniziativa preoccupano ben più dei toni da Grande Inquisitore del presidente del PPD, un partito col referente cristiano (ahé!).

Non so voi, ma io tutto questo fervore identitario, questo amore per la nostra storia e le nostre radici cristiane, non lo vedo. Mi imbatto invece ogni giorno in atteggiamenti di intolleranza, razzismo, ignoranza, imbecillità, falsità, disprezzo, egoismo.

La magia del Natale – Vetrina di un grande magazzino sotto i portici di Locarno, mercoledì 24 ottobre 2018 (mancano 61 giorni a Natale).

Io, comunque, l’iniziativa l’ho firmata, anche perché tutti i capolavori che fanno la nostra cultura – dal canto gregoriano ad Arvo Pärt, da Giotto a Chagall, dal Brunelleschi a Botta, da Dante Alighieri a Manzoni, e via elencando – non c’entrano un fico secco con gli anatemi di qualche politico e col silenzio assordante di un partito, uno a caso…

All’indirizzo https://ticinolaico.com/ si trovano tutte le informazioni al riguardo, nonché il formulario per la raccolta delle firme, ma bisogna affrettarsi, perché il termine scade il 6 novembre.

Tra la bellezza che rimane ancora e la scuola che verrà

Mi scuso coi miei lettori più assidui. Non vorrei sbagliarmi, ma credo che sia la prima volta che infilo due articoli in due giorni.

Come sanno i ticinesi, domenica 23 settembre si è votato sul credito per la sperimentazione del progetto «La scuola che verrà». I risultati sono giunti nel primissimo pomeriggio. Il verdetto è chiaro: la richiesta di poter testare l’ampia riforma proposta da Manuele Bertoli, direttore del Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport, è stata bocciata dal 56.7% dei votanti, con una partecipazione del 40%.

Chi mi segue sa che ho votato a favore, anche se preferivo la prima versione del progetto, quella ancora incontaminata di quattro anni fa (versione che, lo so bene, non avrebbe neanche lontanamente convinto un’esigua minoranza del Parlamento).

Il mio sito, domenica pomeriggio, si è animato. Un inusuale numero di curiosi cercava probabilmente un mio commento, che non c’era e non ci sarà. Ero convinto che i contrari (a questa riforma, a Bertoli, ai socialisti, ai progressisti, ai pedagogisti, …) avrebbero vinto facilmente. Conservare è facile, si rischia poco e, se necessario, si trovano sempre dei colpevoli.

Domenica, invece, ho pubblicato La bellezza che rimane ancora: echi dal diario di Anne Frank, un mio personale ricordo dell’edizione di Piazzaparola del 20 settembre scorso.

In tarda mattinata Luca Del Notaro ha inviato un commento, che non ho pubblicato:

Ha ha… tutti i tuoi lettori, io compreso, si aspettavano una bella analisi del risultato della votazione sulla scuola che non verrà più… e invece…  beccatevi questa!!

Non è stato un sotterfugio, il mio, o una fuga fifona. Le proposte di Piazzaparola, così come i concerti o il teatro per le scuole, sono più vicini alla scuola dei miei sogni dei tanti efficientismi di quella che in tanti vagheggiano, una scuola che vorrebbe preparare alla vita – anche se lorsignori confondono la vita con l’economia e il mondo del lavoro. Cittadini e lavoratori non sono la stessa cosa.

Gabriel Lemmonnier (1743-1824), Une soirée chez Madame Geoffrin (1812)

Quindi non commenterò un bel niente, i commenti dell’esito referendario sono affare di politici e politologi.

Il partito liberale (che si ostina a dirsi anche radicale) ha già comunicato che la colpa della sconfitta è del ministro Bertoli: ha voluto una riforma – si pensi un po’! – ideologica. Si vede che i liberali fanno politica senza ideologia. Commento inutile per dire di chi, senz’ideologia per ammissione a mezzo stampa, continua a menarla con le pari opportunità di partenza, ma non di arrivo: scienza pura, ovvio, nessuna idea di scuola.

Però bisogna ammettere che almeno loro, i liberali, si sono fatti sentire subito, anche se poi, come ha scritto il Corriere del Ticino, «In casa PLR c’è maretta: i commissari liberali radicali in Scolastica prendono le distanze dal comunicato dell’Ufficio presidenziale dopo il no popolare alla sperimentazione». Altri, nelle medesime ore, non si sa dove fossero e a cosa pensassero.

Io continuerò a parlare di ciò in cui credo. In questo sito, tanto per dire, ci sono tantissimi articoli che parlano del progetto di riforma Scuola che verrà, di etica della scuola, di pari opportunità, di finalità della scuola dell’obbligo e di tanti argomenti analoghi, naturalmente privi di ogni parvenza ideologica.

Una scuola verrà, questo è sicuro. Magari sarà la stessa che c’era fino a venerdì scorso e ci sarà ancora domani; oppure un’altra, una tutta diversa. Il Paese, fin qua, ha scelto.

Auguri.