Mi è capitato di incappare due volte di fila in conversazioni sull’insuccesso. Andrea Fazioli, l’autore del bel romanzo L’arte del fallimento, edito da Guanda, ha un blog che presenta regolarmente delle riflessioni sempre molto argute. A fine aprile ha proposto ai suoi lettori alcune considerazioni sul tema del fallimento e ha richiamato un altro pezzo pubblicato nel sito «Il Libraio», intitolato Sette lezioni di fallimento, ispirate da altrettanti autori: come fallire in maniera grandiosa; come accettare il fallimento; come rialzarsi dopo i fallimenti; come fare del fallimento un’arte; come fallire un’indagine; come trasformare il fallimento in eroismo; come ridere del fallimento. Per finire Fazioli ha aggiunto un’ottava lezione, ispirata a Butcher’s Crossing, romanzo dello scrittore statunitense John E. Williams.
Passano un paio di giorni ed ecco, sul Corriere della sera, un bel pezzo di Paolo Di Stefano, Il prof di Princeton pubblica il curriculum dei suoi migliori flop (se non si riesce ad accedere al corriere.it si trova l’articolo qui). Si parte dallo strillo di autore anonimo, che sarà svelato a fine articolo: «Il successo è il solo metro di giudizio di ciò che è buono o cattivo». Poi si passa a una frase di James Joyce, «il grande scrittore irlandese che non si preoccupò certo di essere letto da un gran numero di persone, visto che scrisse uno dei romanzi più ostici della letteratura, Ulisse, per non parlare di Finnegans Wake, esempio massimo di libro intraducibile». Il professor McHugh, personaggio joyciano, sentenziò: «Fummo sempre fedeli alle cause perse: il successo per noi è la morte dell’intelletto e della fantasia».
Ecco allora che Di Stefano racconta del professor Johannes Haushofer, un prof reale, stavolta, docente di psicologia e neurobiologia alla prestigiosa università di Princeton, già ricercatore a Oxford, a Harvard e a Zurigo: che ha narrato su Twitter il curriculum vitae dei suoi fallimenti.
Ho già detto troppo: i due interventi, quello di Andrea Fazioli e quell’altro di Paolo Di Stefano, meritano di essere letti, senza altre mediazioni pericolosamente di parte. Per certi versi ricordano il famoso Sbagliando s’impara, nonché le storielle di Giuseppe Verdi, scartato dal conservatorio milanese che avrebbe poi preso il suo nome, o di Albert Einstein, rifiutato dal politecnico di Zurigo perché non riuscì a superare gli esami di ammissione.
Le valutazioni e gli esami incessanti sono bestiacce. Come diceva Don Lorenzo Milani «Bocciare è come sparare in un cespuglio. Forse era un ragazzo, forse una lepre. Si vedrà a comodo». E aggiungeva: «La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde». In effetti la scuola, quella dell’obbligo e quella che segue subito dopo, è campione nel dividere i bianchi dai neri, il loglio dal grano, la lumaca dal ghepardo. Tanto per fare un esempio che non invecchierà mai, non è chiaro perché un bambino debba imparare a leggere e scrivere secondo l’età decretata dalla scienza statistica, così che se fai parte di quel 15% di statisticamente immaturi – immaturi al momento della valutazione – rischi il pollice verso: bocciato!
La storia delle pari opportunità andava bene giusto giusto 48 anni fa. Oggi è grottesco che quell’enunciato, che certo funzionava in quegli anni, sia cavalcato da chi le pari opportunità le osteggiò più che poté e da chi, invece, ne fece uno slogan senza aver capito bene di cosa si stesse parlando. Pari opportunità, mezzo secolo dopo, significa anche opporsi con fermezza all’inveterata indifferenza alle differenze.
Ai nostri giorni, sciaguratamente, è molto di moda il pensiero riferito da Di Stefano come incipit del suo articolo. Che osserva: Potrebbe essere il motto di un dirigente marketing dei nostri giorni.
Mi vien da completare: un uomo qualunque, un politico di destra di sinistra o di centro, un insegnante, un dirigente scolastico o un sindacalista. Invece, sapete chi l’ha scritto?, ha chiesto Di Stefano in conclusione.
Chi è d’accordo con l’enunciato, soprattutto se poi scrive proclami, rilascia dichiarazioni ai massmedia e/o inoltra atti parlamentari per raddrizzare la scuola, vada a scoprire chi ne è l’autore.
Grazie per questo articolo. Sono riflessioni che creano altre riflessioni e che, soprattutto, suscitano domande. È interessante affrontare il fallimento dal punto di vista scolastico: ancora non ho approfondito il tema, se non vivendolo (ho qualche sconfitta scolastica nel mio curriculum…). Penso che le frasi di Milani esprimano molto con poche parole. Di sicuro, se s’interpretano le “pari opportunità” come il diritto al successo per tutti, si rischia di finire nei guai (in questo caso, fra l’altro, avere successo davvero sarebbe soltanto l’emblema di un colossale fallimento). Io credo che sia giusto educare anche alla prospettiva del fallimento, dell’inevitabile sconfitta, mostrando come essa non sia definitiva e non rappresenti un giudizio totale sulla persona. Siamo fatti delle nostre sconfitte, dopotutto, e queste ci rendono autentici, nella nostra imperfezione. C’è chi è scartato dal conservatorio o dal politecnico e poi non diventa né Verdi né Einstein… È un fallimento? Inutile nasconderlo: lo è. È un giudizio di valore sulla persona? No. Anzi, magari una persona trova il modo di essere più compiuta proprio grazie ai suoi fallimenti, grazie ai suoi limiti. In epigrafe al mio romanzo metto una frase di Lester Young: “Every style is the result of a handicap”. Ogni stile è il risultato di una mancanza. Sarebbe bello riuscire a insegnare anche questo.
Naturalmente ci sono fallimenti e fallimenti. Ho l’impressione che la scuola di venti o trent’anni fa perdonava di più – o, forse e più correttamente, la scuola e il mondo del lavoro erano meglio disposti all’assoluzione, almeno fino alla prima crisi energetica del 1973. Ricordo un tempo in cui si era disposti a considerare le scemenze dell’infanzia e dell’adolescenza per quel che erano: ragazzate, appunto, commesse in un ambito di cui, comunque, si conoscevano bene i confini: è il bello delle sfide. Oggi i confini, le regole, sono più confusi, instabili, flessibili. Bella fregatura se poi, neanche maggiorenne, ti senti dire che «Il successo è il solo metro di giudizio di ciò che è buono o cattivo», che se manchi il bersaglio è meglio se vai a fare l’idraulico.
Senza scomodare i protagonisti degli aneddoti più noti, dipende anche da chi fallisce. È un fatto, ad esempio, che la ghigliottina che sancisce il fallimento scolastico – fatto di insuccessi, di frustrazioni, di incomprensioni, a volte di bocciature ed esclusioni senza appello – non colpisce quasi mai alla cieca: anzi, ci vede benissimo, e conosce a menadito le differenze socioculturali ed economiche.
Il problema di fondo – e sono curioso di capire fino a che punto «La scuola che verrà» sarà in grado di sciogliere concretamente qualche nodo – è che la scuola pubblica e obbligatoria dovrebbe preoccuparsi di portare ognuno al suo massimo livello di sviluppo, invece di accontentarsi di legittimare le varie ignoranze e le diverse incompetenze. A questo livello l’invito del sociologo ginevrino Walo Hurtmacher è molto stimolante: «Réclamer l’égalité des chances, c’est s’empêcher de viser l’égalité des résultats a un niveau élevé». Non si tratta di sdoganare l’imbecillissimo diritto al successo per tutti, quel che nel Sessantotto e dintorni si chiamava sufficienza politica: ma di garantire il diritto di ognuno di imparare tutto ciò che è alla sua portata. Ed è proprio qui che da Aristotele a Pestalozzi a Don Milani e oltre si trovano tante risposte etiche.
Anch’io ho alle spalle una lunga storia di disagio scolastico, culminato con la sonora e dovuta bocciatura della III magistrale. Ne avevo parlato nell’ambito di un servizio di «Falò» andato in onda il 21 giugno dal 2013 (Tutti promossi, il mio intervento è attorno al minuto 31 e qualcosa). Oggi posso parlarne senza vergognarmene. Poi ho potuto fare il maestro, frequentare l’università e diventare direttore di scuola. Se fossi nato anche solo quattro o cinque anni più tardi, non so con quale professione sarei andato in pensione.