Com’è un lettore efficace e competente? E, soprattutto, come lo si diventa? A scuola capita di sentirsi dire che bisogna leggere – tanto, anzi di più – per migliorare le proprie capacità di scrittura. Il bravo lettore non si confronta solo con la letteratura e coi suoi classici – quei libri che, secondo Italo Calvino, continuano a parlare anche alle nuove generazioni, perché non hanno finito di dire ciò che hanno da dire. Ma il lettore è efficace quando ha automatizzato la comprensione dei codici linguistici e competente quando padroneggia la lingua, sa distinguere un romanzo da un saggio, un articolo di cronaca da un commento editoriale, un testo di divulgazione da un libercolo pubblicitario. Così quel lettore sarà facilitato sull’arco della scolarità e della vita, perché capace di studiare, di risolvere nuovi problemi e imparare altre lingue. Significherà pure poter leggere per il puro piacere di farlo.
Lo ha detto di recente anche il ministro francese dell’economia e delle finanze, Bruno Le Maire, che si è rivolto ai liceali della République con un messaggio sul web, ripreso subito da diverse testate: «Leggete, staccatevi dagli schermi. Gli schermi vi divorano, la lettura vi nutre. Gli schermi vi svuotano, i libri vi riempiono. Fa tutta la differenza. La letteratura e i libri vi permetteranno di scoprire quanto siete unici e fino a che punto non assomigliate a nessun altro. È quello che fa l’umanità. Ogni persona è unica. Ed è la letteratura che ce lo insegna».
Bisogna capire se la scuola è in grado di puntare a simili traguardi, sapendo che la crescita rigogliosa della nostra lingua non dipende solamente da ciò che si riesce a fare nelle aule scolastiche, in cui confluiscono allievi abituati sin da piccoli a maneggiare, guardare e leggere libri, e allievi che crescono a stento su terreni del tutto aridi. Per prima cosa occorre creare gli spazi e i tempi per favorire lo sviluppo linguistico di ognuno. Come ha annotato su queste pagine Renato Martinoni giusto una settimana fa, «complice la mancanza di letture, l’abuso dei “sòscial”, e soprattutto la pigrizia e un peso troppo limitato dato, nelle scuole, alla lingua madre, stiamo formando generazioni di gente che si illude di possedere una lingua senza purtroppo averla per davvero. Regaliamo pertanto all’italiano più ore a scuola. Non solo in quelle di italiano, ma anche in tutte le materie. Perché abbiamo urgente bisogno di una lingua. Di una lingua davvero solida».
Quando leggere diventa un noioso compito a casa o un riempitivo tra due cose reputate più importanti, si sparge l’idea di qualcosa di scarso valore. La lettura, in primo luogo, deve ritrovare il suo peso specifico dentro la scuola, nelle ore in cui l’allievo è lì. Toccherà poi all’insegnante accompagnare, guidare e sostenere le scelte di lettura, in modo congruo alle capacità di ognuno. Anche il lavoro sui libri dovrà essere rilevante e sensato: ad esempio favorendo la condivisione, la creazione di schede critiche, la presentazione ai compagni, la discussione e il commento critico.
Capita invece che, avanzando nella scolarità, il tempo per la lettura e per i libri anneghi nei troppi impegni extrascolastici, che sono dominati dallo studio supplementare per far fronte alle reiterate valutazioni di materie ritenute più utili o spendibili, soprattutto in termini di valutazioni scolastiche: le lingue due e tre, la matematica, le scienze. Mentre la lettura di un libro può attendere.
Citazioni
Le parole del ministro francese dell’Economia, delle Finanze e della Ripresa Bruno Le Mair sono tratte dal sito di Repubblica del 7 febbraio 2021. Il messaggio del ministro è in YouTube: Arrachez-vous de vos écrans ! Lisez !
L’articolo di Renato Martinoni è invece apparso sul Caffè del 14 marzo 2021, nella sua rubrica settimanale «Fogli in libertà»: Più ore di italiano per imparare l’italiano.
Caro Adolfo,
Mi diverto sempre a chiedere ai miei tirocinanti: ma dimmi un po’ qual è il testo o l’autore che più ti ha colpito nei tuoi studi accademici? Ti lascio indovinare la risposta degna di un film muto alla Stan Laurel e Oliver Hardy.
Questi sono poi i colleghi che dovranno insegnare e promuovere il gusto alla lettura.
Un caro saluto
Luca
E no, non vale: la domanda ha troppe risposte. E forse doveva pure essere posta al plurale: quali sono i testi e gli autori…?
Più invecchio e più penso che uno dei grandi mali della scuola sia il “giudizio”. Cioè ragionare in termini di valutazione finale, come obiettivo. Che siano faccine sorridenti o tristi, o voti alti o bassi. La frustrazione, l’essere giudicati, il “dover dimostrare”. Ci fosse uno spazio senza voti. Anzi. Ci fossero più spazi senza voti. So che inizialmente creerebbe un vuoto di interesse, una fuga di attenzioni: perché studiare se non sono obbligato a farlo per poter passare alla classe successiva e togliermi dalle scatole la scuola?, pur di riuscirci copio, mi faccio bigini, basta andare oltre. E imparare? Boh, chissenefrega, lo scopo è superare gli esami non imparare. Io credo però che senza competizione, senza l’obbligo di dimostrare quanto si impari, probabilmente scomparirebbero tante frustrazioni, e tornerebbe il desiderio di scoprire cose nuove, che non si sanno, di sapere, di conoscere, in estrema sintesi di imparare, anche solo per occupare il tempo, per stare con altri. Credo che se gli esami venissero tradotti in esercizi (da correggere, non da giudicare; nei quali suggerire migliorie, non da barrare in rosso), ad esempio, di produzione di bigini (si sa: il novanta per cento degli studenti fanno con piacere solo i bigini, ed è proprio grazie alla compilazione di questi che poi imparano davvero qualcosa) sarebbero costretti a: concentrarsi davvero su quello che leggono, individuare le cose più importanti, imparare a riassumere e dunque la sintesi e la precisione, crearsi compendi utili, ma soprattutto imparare a farli in vista di studi più avanzati. Inserirei i voti solo dal liceo in poi. Nelle scuole dell’obbligo li cancellerei. Punto. Tra le lezioni sono certa che quelle dedicate alla narrazione che sia di scrittura o di lettura sarebbero tra le più belle. Uno se sa di non ricevere un voto ogni volta che alza la mano potrebbe pure rischiare di imparare a confrontarsi con gli altri. Il giudizio è il male della scuola. E ora, sì, lo so, stroncherai questa mia visione, ma ti avviso che ne ho maturate anche altre. Ad esempio, negli ultimi due anni mi è parso evidente che il sistema scolastico di base italiano (quello che concede l’accesso al liceo a tutti; ma che ha solo tre medie e non quattro) sarebbe di gran lunga più efficace e meno penalizzante. Quando capiterà che qualcuno inizi a ragionare, ad esempio, sul fatto che in Ticino un giovane viene “segnato” per sempre a tredici anni (cioè alla fine della seconda media) a causa dei livelli, che oggi pesano tantissimo anche nella ricerca di un apprendistato? E che una volta che entri nei livelli due, mi potete dire tutto quello che volete, ma le alternative di recupero sono pari a zero!, dicevo, quando si capirà quanti sono i penalizzati in Ticino che non possono proseguire negli studi, manco quando poi raggiunta una certa età di maturazione potrebbero avere potenzialità interessanti? Quando ci sarà qualcuno che a fronte della “necessità di personale specializzato” che arriva dall’estero perché qua non ce n’è abbastanza, si renderà conto che all’estero l’accesso alla formazione è assai più facile e meno penalizzato e che tanti ruoli di “esperti”, di “specialisti” potrebbero venir assunti da giovani che si ritrovano a dover scegliere un apprendistato “comune” perché l’accesso a una formazione specialistica (che inizia dal liceo per poter proseguire con le varie altre possibilità di studi) gli viene negata a 13 anni? Quando si capisce che non è normale che – se uno studente di quelli “intelligenti” a 18 anni ha il diritto ancora di non sapere che strada seguire. E decide solo dopo il terzo anno di Uni, almeno a 21 anni, che cosa fare da grande – si pretenda da un ragazzino “stupido” di 15 anni che deve “saperle già tutte” su di sé e scegliere il lavoro della sua vita?
Cara Ma. Ma., non vedo perché dovrei stroncare; tutt’al più sono d’accordo o no. Comincio dalla fine, che è la parte meno interessante. Lascerei perdere l’enfasi sulla scuola italiana, che conosco poco. E non scorderei neanche che in Svizzera non esiste un’unica scuola pubblica, ma ventitré, in barba all’ormai celeberrimo Accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria, più noto come HarmoS. Si sa, nell’ambiente, che nelle aule vigono le interpretazioni più fantasiose di programmi finalità e obiettivi.
Mi viene in mente l’affermazione di un vecchio insegnante nell’ultimo romanzo di Håkan Nesser (Gli occhi dell’assassino, Guanda, 2020): «Non bisogna cominciare un nuovo anno scolastico lamentandosi, e io naturalmente mi atterrò ai metodi d’insegnamento che ho affinato nel corso di una lunga e – credo di poter dire – fruttuosa vita in cattedra. Al diavolo tutte le nuove scoperte e tutti i fanfaroni pedagoghi. Un insegnante è un insegnante, un allievo è un allievo, un’aula è un’aula; così è sempre stato e così sarà ancora. Perché cambiare rotta quando la barca avanza tanto bene nella giusta direzione?». Si noti il sarcasmo dell’autore scandinavo, proprio quando “lassù” funzionano benissimo sistemi scolastici ben diversi dai nostri.
Quanto alla tua tirata sui «giudizi», come li chiami tu, ti devo un richiamo da cartellino giallo: sei una lettrice molto disattenta, visto che ti aspetti la stroncatura – che sarebbe poi l’elogio delle note e della scolastica. Prova a cliccare in questo sito il tag Valutazione…