Sul Corriere del Ticino del 29 novembre scorso è apparsa l’opinione di Nicola Pini, vicepresidente cantonale del Partito Liberale Radicale, che sostiene la causa delle scuole professionali come valida alternativa alla scuola media superiore, liceo in testa (l’opinione di Nicola Pini è visibile qui).
Il tema non è nuovo, ci mancherebbe. Anch’io me ne sono occupato tante volte; pescando un po’ alla rinfusa nell’archivio di questo sito, cito alcuni scritti pubblicati nella rubrica «Fuori dall’aula» del Corriere del Ticino:
- Scelte scolastiche, liceali e muratori (24 settembre 2003);
- Urge una chiara definizione delle finalità della scuola obbligatoria (2 ottobre 2007);
- Ma la nostra scuola media è davvero unica? (13 aprile 2012);
- Scuola obbligatoria: si può mirare a risultati elevati per tutti? (26 settembre 2012);
- Non accorciamo il liceo, ma cinquemila studenti son troppi (18 settembre 2013).
Ma ce ne sono naturalmente altri, che toccano il tema più o meno direttamente.
Sia chiaro: l’affermazione, di per sé, è addirittura lapalissiana nella sua enunciazione. Non c’è solo il liceo per i giovani, sottintendendo, come scrive lo stesso Pini, che «La conoscenza è una virtù fondamentale e una premessa di libertà, un bene che è a prova di furto. Ma i percorsi formativi sono percorribili e di qualità anche in campo professionale». Ma la soluzione non può essere ridotta a un’operazione di marketing.
Fino a quanto la scuola dell’obbligo non sarà in grado di sbarazzarsi una volta per tutte dei suoi compiti di selezione – una selezione che si vorrebbe basata su meriti e competenze, ma che in realtà, con l’alibi delle pari opportunità, si limita quasi sempre a sancire e legittimare le precedenti differenze socio-culturali – non sarà possibile venirne a una seriamente e una volta per tutte. A un convegno di qualche anno fa sul futuro dell’apprendistato si erano sentite affermazioni quali «Il livello dei ragazzi che escono dalla scuola media si abbassa ogni anno sempre di più» oppure «Oggi gli allievi che escono dalla scuola obbligatoria hanno sì un’infarinatura su molti argomenti, ma molto superficiale». Così il danno continuerà a essere doppio: da una parte una percentuale significativa di giovani, con famiglie al seguito, si imbarcheranno in avventure scolastiche frustranti; dall’altra non si farà nulla per accrescere il livello culturale di tutti gli allievi che terminano la scuola media.
È contro questo inaccettabile darwinismo educativo che è necessario schierarsi con coraggio e perseveranza, lasciando perdere le strategie di mercato e le manovre di persuasione utilitaristica, che alimentano solo il populismo e la dabbenaggine.
Adolfo! Ma io la penso esattamente nello stesso modo e guardo pure un po’ più in là. Ma se vogliamo cambiare le regole, allora bisogna cambiarle tutte: non che poi alla fine uno resta con un diploma in mano e l’altro no.
Detto questo, sono anni che punto sul cercare di far capire che è spesso inutile (come disse qualcuno ben prima di me) tentare di far volare una talpa e al contrario cercare di far scavare la terra a un uccello: otterremo solo che entrambi – facendo più fatica nelle “materie” che non li competono – dovranno esercitarsi molto a fare ciò che non sono portati a fare per soddisfare la richiesta del maestro. Alla fine l’uccello avrà rovinato le sue ali, o quanto meno non avrà imparato a volare più in alto, mentre la talpa si sarà schiantata a terra così tante volte che non avrà più nemmeno la forza di scavare una piccola tana…
Purtroppo però i pezzi di carta contano ancora e – fino a quando non accadrà il miracolo – dovremo giocoforza cercare di portare tutti almeno alla licenza, se non vogliamo penalizzarli per tutta la vita e magari solo per un “click”. O no?
D’accordo. E allora dimmi: chi decide, entro i quindici anni, chi è talpa e chi uccello? Insegnare a scrivere bene nella scuola dell’obbligo con ha come obiettivo la formazione di futuri Alessandri Manzoni, così come lo studio della matematica non si prefigge schiere di Euclidi, pronti domani a seppellire di risate economisti maldestri e politici truffaldini. La scuola dell’obbligo del «famoso» sistema scolastico finlandese è definita come Basic Education; nel sito ufficiale del Finnish National Board of Education una frasetta fa da premessa all’enunciazione della finalità: Basic education is non-selective. Poi: The objective of basic education is to support pupils’ growth towards humanity and ethically responsible membership of society and to provide them with the knowledge and skills needed in life.
Tutto qui.
Quanto ai celebri «pezzi di carta», viviamo ormai in un’epoca affetta da diplomite acuta, con caratteristiche epidemiche a rischio di pandemia. Già il commento di Marco a questo articolo lascia ben capire qual è, a volte, il valore del «pezzo di carta». Capita poi che, se si ha la pazienza di grattare i timbri e le firme che troneggiano in calce ai diplomi, ci si imbatte nel vuoto pneumatico, o poco più (e non penso solo alle licenze attribuite dalla scuola dell’obbligo).
Eccomi! Andando per ordine: nessuno deve decidere a priori. Ed è proprio nella “non“ decisione che risiede il segreto, perché coincide al “non giudizio“, alla “non nota“. L’insegnante offre tutte le materie ma se un allievo non riesce a fare qualcosa, seppur stimolato positivamente (e quindi senza farlo sentire un incapace!), allora si lascerà correre un po’, mentre se dall’altra parte spicca per capacità, lo si incentiverà a fare sempre di meglio. È altrettanto vero che – nella media – dalle elementari escono tutti abbastanza bene (la ragazza di cui parlavo nel mio post precedente aveva una media superiore al 5! in quinta elementare). È nelle medie che ho notato – fra l’altro con grandi differenze tra sezione e sezione – che se da una parte alcuni fanno poco o nulla, dall’altra li cercano di preparare a tutti i costi al Liceo e quelli che non ce la fanno, non sono un problema a carico delle scuole medie. Infatti, non si spiegherebbe altrimenti il motivo per cui quando nelle classi di prima liceo fanno i classici test di valutazione iniziale per vedere a che punto si trovano i ragazzi, si nota spesso (la mia casistica si basa solo su tre esperienze, ma il fatto che coincidano tutte e tre senza eccezioni, mi fa pensare che sia quasi la regola) dicevo, si nota spesso degli sbalzi non tra ragazzo e ragazzo ma tra “appartenenze di sede“: ovvero, tutti quelli di Locarno (ad esempio) sono sulla media di 2,5 su 6, mentre quelli di Losone sono sul 4,5.
Quindi la domanda è: quando finisce la cosiddetta “formazione di base“? Alle elementari oppure alla fine delle scuole medie?
Per il resto: perfettamente d’accordo!
Tento di usarmi violenza e di rispondere con la massima brevità che trova posto nelle mie corde.
– L’insegnante non è chiamato a offrire, bensì a fare tutto il possibile per insegnare ciò che si ritiene importante o essenziale. Vale fino all’università, ovvio.
– Quando finisce la cosiddetta formazione di base? Da noi a 15 anni. In Finlandia, visto che l’avevo citata, «Basic education encompasses nine years and caters for all those between 7 and 16 years».
– Per il resto: più dissensi che intese.
…e poi ancora.
È una mia impressione oppure, proprio sulla base di questo tipo di selezione, si tende persino a non bocciare più nessuno? Tanto, se non ce la fa ad alti livelli, chissenefrega: alla fine farà un percorso alternativo… senza nemmeno ottenere la licenza.
Non lo dico a caso. Conosco una ragazza (la più piccola della classe) che in Prima media ebbe grandi difficoltà (tre o quattro insufficienze) e i docenti dissero che doveva ancora fare il click… Ci pensarono e poi decisero che poteva comunque passare alla seconda, erano certi che avrebbe poi fatto questo click (ma intanto aveva già delle grosse lacune irrecuperabili). La seconda la finì con sei insufficienze, ma i docenti dissero che di certo la terza sarebbe stata più facile, anche grazie ai livelli (!) e quindi non serviva bocciare. La terza fu conclusa con quasi tutte le materie insufficienti, a quel punto fu ovvio a tutti che la ragazza c’aveva ormai rinunciato. In quarta decisero che avrebbe seguito il “percorso alternativo” o come cavolo si chiama poi… ma la ragazza ha iniziato di nuovo a lottare cercando di risalire un minimo la china per non farsi togliere alcune materie, anche grazie al fatto che finalmente si ritrova davanti ad altri docenti, i quali non hanno pregiudizi. Ci sta riuscendo, con mooooolta fatica, ma i familiari sono speranzosi: forse riuscirà a ottenere la licenza. Il paradosso? Vorrebbe continuare a studiare…
Non era più semplice farle ripetere un anno?
Cara MaMa,
proprio tu che sei una creativa mi vieni a raccontare ’sta storiella così convenzionale? La tua domanda – È una mia impressione oppure si tende persino a non bocciare più nessuno? – tradisce proprio il sentimento opposto a quel che penso io. A che serve la bocciatura in quanto tale? E a chi giova? Di certo, almeno per ora, fa parte delle regole del gioco, quelle basate sull’appartenenza a una classe (determinata più o meno dall’età) e sulla decisione di fine anno: promosso o no? Fuor d’ipocrisia: se le regole del gioco fossero applicate alla lettera, ogni anno risulterebbe bocciato da ¼ a ⅓ degli allievi della scuola dell’obbligo. Ma, naturalmente, ciò non conviene a chi gli insuccessi li semina, li coltiva e, infine, li raccoglie.
La bocciatura giova soprattutto a chi la decreta. I fortunati che ricavano un profitto significativo da una bocciatura sono rari (e, solitamente, devono ringraziare i loro genitori che li hanno aiutati a non trasformare le loro personalità in carta straccia).
Potrei andare avanti per ore scrivere peste e corna dell’istituto della certificazione annuale nella scuola dell’obbligo, un retaggio di altri tempi e di altri contesti sociali e politici. Una volta un musicista mi aveva spiegato che suonare il violino è facilissimo: basta mettere il dito giusto nel posto giusto nel momento giusto. A scuola è la stessa cosa: basterebbe insegnare la cosa giusta nel momento giusto, senza preoccuparsi troppo se le competenze del gruppo procedono in ordine sparso, con ritmi diversi. Va da sé che, in tutto questo discorso, la parola chiave è insegnare, che è diversa da valutare.
Nel momento in cui lo Stato decide di scolarizzare obbligatoriamente tutti gli individui tra i 4 e i 15 anni, è insensato che si (pre)occupi, sin dalla più tenera età, di separare il grano dal loglio, quando invece è sempre più urgente garantire a tutti delle solide competenze linguistiche e matematiche, che poggino su una buona cultura generale. Ha scritto Paola Mastrocola (Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare, 2012, Guanda): «Ragazzi, noi vi diamo una scuola dell’obbligo che per otto anni vi costruisce le basi solide della conoscenza, vi fa matematica, storia, geografia e letteratura, vi mette in grado anche di leggere un canto di Dante e capirlo (…), e poi liberi tutti! Scegliete pure di continuare così, oppure di fare un triennio di falegnameria o di informatica, e di studiare in stile esperienziale con i video, il teatro, la musica, i social network e le lavagne interattive: non ce ne importa più niente, noi le ruote della bici ve le abbiamo messe robuste, adesso pedalate un po’ dove vi pare, anche dall’altra parte del globo!».
Sottoscrivo, sono almeno trent’anni che lo diciamo. Da quando è stata varata la scuola media unica che unica non è mai stata. Sezioni A e B, Livelli A e B, Espe o verifiche a raffica per selezionare l’élite che deve andare al liceo. Che chissà perché corrispondo quasi automativcamente ai figli della “borghesia” alta o media. Con l’aberrazione della falcidazione di più di un terzo di essi in prima, e il loro ritorno nelle professionali a tempo pieno quali diretti concorrenti di chi invece esce dalla media con i livelli B e chi si trova ad accontentarsi di pochi posti d’apprendistato. Ora anche per fare la mitica cassiera alla Migros (passare dei prodotti a uno scanner e dare il resto che la macchinetta ti dice di dare) ci vogliono i livelli A. Provare per credere.