L’équipe contro la solitudine

Ricordiamo bene l’impatto violento che la pandemia, in primavera, aveva avuto anche sulla scuola. L’inattesa calamità aveva messo in luce il valore della presenza di allievi e docenti negli spazi scolastici, ricordandoci la centralità educativa della convivenza e della comunicazione, un’essenza che supera la capacità di raggiungere gli obiettivi dettati dai programmi. A chi vagheggia una selezione sempre più precoce, conviene chiarire che la scuola dell’obbligo non ha tra i suoi tanti e difficili compiti quello di preparare gli allievi alla scuola che «viene dopo», attraverso una gerarchia che dalle scuole di maturità scende fino al certificato di formazione pratica.

Il nostro ministro dell’educazione, intervenuto proprio una settimana fa su queste pagine, a proposito di scuola dell’obbligo ha scritto che servono dei provvedimenti «che migliorino la personalizzazione dell’insegnamento e le possibilità per i docenti di differenziarlo in base alle diverse capacità degli allievi». Non si può fingere che le differenze prodotte dall’origine sociale, economica e culturale, dalla lingua, dalla religione e dalla propria storia siano solo fatalità.

Fin qui i tentativi per mirare a condizioni migliori per differenziare l’insegnamento ruotano attorno alla diminuzione del numero di allievi per classe e alla presenza di figure specializzate. A seconda del bisogno, nelle aule della scuola obbligatoria si possono incontrare i docenti di appoggio, di sostegno pedagogico e di lingua e integrazione degli alloglotti, oltre a logopedisti, psicomotricisti, specialisti per la gestione dei casi difficili e operatrici pedagogiche per l’integrazione.

Permane, sullo sfondo, la solitudine del docente, che è il vero regista di ciò che succede nella sua aula. È piuttosto difficile capire i motivi che conducono la maggior parte dei sistemi scolastici a puntare tutto sul deus ex machina. Oggi non si parla più di vocazione, come s’usava in altri tempi, anche se la figura del maestro di scuola elementare o del professore della media ricordano per tanti versi i preti che, per primi, si occuparono dell’istruzione di bambini e ragazzi.

Forse bisognerebbe cominciare a pensare a una diversa organizzazione dell’insegnamento obbligatorio; per esempio l’insegnamento in équipe, vale a dire un gruppo di insegnanti che gestisce in comune l’equivalente di un numero di allievi che, normalmente, sarebbero ripartiti in due, tre o più classi. Lavorare insieme – come già succede in molti altri ambiti – offre alternative interessanti per gli insegnanti stessi, che potrebbero sviluppare dinamiche generatrici di successo educativo: nella relazione coi loro allievi e con le famiglie, e con originali possibilità di elaborazione e di sperimentazione della didattica e della valutazione.

Insegnare in équipe non è una soluzione magica; laddove è già una realtà segue logiche diverse l’una dall’altra. Ma ha l’indubbio pregio di mettere insieme docenti con bravure diverse, affinché la qualità del gruppo sia maggiore della somma delle capacità individuali. Lavorare con colleghi che hanno capacità, esperienze e passioni eterogenee diversifica i contributi, ma non toglie nulla ai singoli.

Eppure è un’impostazione di cui non parla nessuno. È legittimo sperare che prima o poi l’istituto che forma, abilita e aggiorna i nostri insegnanti cominci a guardare oltre la famosa siepe cantata dal poeta, per tornare a essere un luogo di riflessione e di stimolo anche al di là dei contenuti, delle didattiche e delle tecnologie.

Il valore artistico della poesia

A che serve la poesia a scuola? Mezzo secolo fa avrei scritto: a farsela dettare, a studiarla a memoria, a recitarla infine davanti ai compagni, priva di ogni espressività, magari senza aver capito neanche un verso, perché l’importante era non impiastrarsi contro la rima o qualche metrica funambolica.

Al ginnasio, che io ricordi, non bisognava più impararla a memoria, ma era necessario ascoltare bene le parole dell’insegnante, che spiegava la rava e la fava, affinché alla comprensione letterale si riuscisse a giungere addirittura al messaggio del poeta.

Era ancora una scuola che si ispirava a un certo idealismo umanistico, benché, in quegli anni ’60 del secolo passato, all’importanza della matematica cominciavano ad affiancarsi le scienze naturali. Sta di fatto che molti poeti si attirarono la malevolenza di un gran numero di scolari, che magari oggi sono ancora capaci di recitare a memoria Il sabato del villaggio, La cavalla storna e Davanti a San Guido.

Continuo a credere che, sin dalla scuola dell’obbligo, le arti – la musica e la danza, la letteratura e la poesia, la pittura e la scultura, il cinema e il teatro – dovrebbero avere uno spazio importante, senza la velleità di illudere tutti che, da grandi, saranno musicisti e poeti, pittori e registi, scrittori e attori; ma, ancor prima, per la bellezza che le arti portano in sé e per la loro potenza creativa, che favorisce lo sviluppo del pensiero e dello spirito critico.

A ciò si aggiunga quella componente formativa che i nostri piani di studio menzionano: «Accedere al patrimonio culturale e al sapere significa entrare a far parte di un contesto socio-culturale preciso» attraverso i «contenuti delle differenti discipline. In particolare, la lettura di opere letterarie apre la mente alla cultura e ai valori della tradizione, oltre a offrire delle vie per capire meglio la complessità e la ricchezza dell’animo umano e del mondo».

«Art – Avez-vous quelque chose à déclarer?», 1971
Hervé Fischer (1941, France). Don de l’artiste en 1988 au Centre Pompidou de Paris.

Sappiamo invece che la realtà della scuola è un’altra, si distingue con un approccio per materie. Così, ad esempio, la letteratura e la poesia appartengono all’Italiano, mentre nell’Area arti confluiscono l’educazione visiva, quella musicale e quella alle arti plastiche, ognuna come materia a sé stante – e oltre le trasversalità tra le diverse aree disciplinari.

Accanto a ciò emerge però anche una indegna visione utilitaristica. Per tornare alla poesia: è un contenuto tradizionale della scuola, che ha avuto alterne fortune nel corso degli anni. E come tante tradizioni della scuola deve trovare il suo spazio vitale.

La poesia appartiene all’Italiano, materia che mira allo sviluppo della competenza comunicativa e all’accesso al patrimonio culturale e al sapere.

Ma la poesia è ridotta a tipologia di testo. Cito ancora dal Piano di studio: «Nel percorso di acquisizione della lingua di scolarizzazione non può mancare l’approccio al testo poetico, per la sua funzione ludica, estetica ed espressiva e quale via di accesso al patrimonio culturale comune». Pare una specie di «password», che serve per «accedere» e che «non può mancare». E già dalla 3ª elementare può incominciare la riflessione concreta sulle caratteristiche del testo poetico, cioè «sul valore della forma linguistica per la trasmissione del significato». Invece di sbriciolarla sarebbe meglio fargliela amare, la poesia, appassionare gli alunni per quel che è: una forma d’arte.

Invece il Gattopardo è ancora vivo e scorrazza sornione nelle savane scolastiche.

Imparare a leggere e scrivere tra scuola dell’infanzia e scuola elementare

Si ha un bel dire che, cambiando le regole, poi cambia anche la sostanza. Da qualche anno, per esempio, l’obbligo di andare a scuola è stato anticipato, e a quattro anni si entra nella scuola dell’infanzia. Il cambiamento non ha sollevato polemiche, anche perché a quattro, massimo cinque anni l’iscrizione all’asilo rasentava già da tempo il 100%. Il vero rito di passaggio, nondimeno, coincide ancora con l’entrata in prima elementare, perché è in quel momento che scatta la trepidazione di genitori e figli. C’è ancora chi crede che nella scuola dell’infanzia si gioca, si raccontano storielle, si disegna e si fanno i lavoretti. La realtà è ovviamente diversa e più complicata, perché a quell’età i nostri cuccioli hanno immense capacità di sviluppo, che sarebbe un crimine non stimolare attraverso delle attività che facilitano e amplificano lo sviluppo cognitivo, relazionale e motorio. Allo stesso modo molti pensano che è solo dalla prima elementare che si impara: a leggere e a scrivere, a conoscere i numeri e a far di conto.



Imparare a leggere e a scrivere è di per sé un percorso complesso, che si nutre del terreno in cui si cresce: c’è chi ha ascoltato storie sin dall’età più tenera, in un ambiente pieno di stimoli, gesti, parole, relazioni. Altri hanno vissuto solitudini, violenze, silenzi, senza traguardi né sogni. A sei anni, che è l’età in cui, mediamente, ci sono i requisiti che permettono di imparare i codici della scrittura e della lettura, ogni bambino si presenta con le sue specificità e il suo bagaglio di esperienze positive e negative, spesso dettate dal caso. Dal successo e dai progressi ottenuti in quell’età delicata dipenderanno la scolarizzazione e la crescita sociale e culturale di ogni bambino, tant’è vero che il Piano di studio della nostra scuola dell’obbligo situa il percorso di questo apprendimento fondamentale tra l’ultimo anno dell’asilo e la seconda elementare. Sa bene, in altre parole, che sono infinite le variabili che concorrono al successo o all’insuccesso di imparare l’italiano, che è il primo veicolo di ogni apprendimento successivo.

Poi, come spesso succede, tra il dire e il fare ci sono ostacoli che paiono impossibili da rimuovere. Nella scuola elementare prevale il dogma della monoclasse, che riunisce quella ventina di bambini che hanno più o meno la stessa età. Si evocano le pari opportunità, che significa che tutti saranno trattati equamente, nella quasi totale indifferenza alle differenze. Basteranno poche settimane per sfilacciare il gruppo, e ci sarà chi comincerà faticare e comincerà troppo presto a ritenersi incapace. Già prima di Natale qualche genitore si sentirà dire che il figlio fa fatica, che la maestra non può mica fare miracoli.

Eppure non è una condizione inevitabile. Lo stesso Dipartimento afferma che il momento più adatto per imparare a leggere e a scrivere è situato tra i cinque e i sette anni. Così non si capisce perché il primo appartiene alla scuola dell’infanzia e gli altri due a quella elementare. Si vuole armonizzare tutto, ma sono rari i casi di maestre dei due ordini di scuola che lavorano insieme, sotto lo stesso tetto. Non sarebbe più utile ed efficace istituire classi più eterogenee – dall’ultimo anno di asilo alla II o III elementare – affidate a gruppi di maestre con competenze professionali altrettanto eterogenee? Suvvia, stiamo parlando di imparare a leggere e a scrivere, competenze universali di cui tutti hanno bisogno, mica dei principi della termodinamica!

La didattica della matematica ha fatto passi da gigante, ma tra i banchi…

Chissà se la matematica della scuola dell’obbligo ha qualcosa a che fare con quell’altra matematica, quella che serve a capire il mondo, la lingua delle scienze naturali, della ricerca e della comunicazione scientifica? I riscontri internazionali dicono che, in questo campo, le competenze dei quindicenni ticinesi sono buone. La matematica continua a essere la materia più importante della selezione scolastica: alla fine della II media una percentuale significativa potrà frequentare i corsi attitudinali, necessari, alla fine della scuola dell’obbligo, per accedere alla scuola media superiore; ma, come bene illustra un recente documento dipartimentale, più della metà degli allievi ritenuti deboli ottiene punteggi analoghi alla metà più debole di quelli considerati i più bravi. La dimostrazione che qualcosa non quadri ce la dà lo stesso studio: ci sono allievi col 6 in matematica al termine della scuola media, benché le valutazioni internazionali abbiano registrato scarse competenze. E viceversa.

La matematica, si sa, è una materia che separa. Già nella scuola elementare salta fuori chi è portato e chi, poveretto, non lo è, quasi che imparare la matematica fosse una questione genetica. C’è, già in quest’espressione, qualcosa di darwinistico: se non sei tagliato sei fuori, anche solo pensando a quante discipline avranno bisogno di Lei nelle formazioni a seguire: biologia, fisica, chimica… Sembra ovvio che, se non sei portato, finirai nei livelli di base, anche se magari non avrai ancora capito perché. A quel punto te l’hanno già spiegato. Ma senza dubbio non si tratta di ereditarietà. Io non ero tagliato. Forse c’erano delle lacune pregresse, non lo so, come non lo sanno tutti quelli che, nel tempo, sono finiti tra i non tagliati, e ne erano convinti. Permane sempre il dubbio che ci siano anche insegnanti non tagliati, perché sfoggiano « le cose che sanno», ma non le sanno insegnare, né hanno capito che, soprattutto nella scuola dell’obbligo, son lì proprio per far quello: insegnare, costi quel che costi, senza mai mollare l’osso.

In questi anni la didattica della matematica ha fatto passi da gigante. Il centro competenze per la didattica della matematica del DFA propone una varietà di proposte e materiali di grande interesse, soprattutto con «Matematicando», un progetto sostenuto dal Fondo Nazionale Svizzero per la ricerca scientifica: un impegno a 360 gradi, che coinvolge la ricerca, la formazione iniziale e continua dei docenti di tutti gli ordini scolastici, della didattica e della divulgazione, attraverso molteplici attività che coinvolgono i genitori e l’intera popolazione.

Eppure tutto ciò può essere vanificato dall’applicazione ottusa di un sistema in cui prevale la selezione precoce, tant’è vero che a decretare il futuro di un allievo sono le valutazioni arbitrarie della scuola, mica i confronti internazionali, certamente meno soggettivi. Si consideri poi che i due livelli che caratterizzano l’insegnamento della matematica nell’ultimo biennio della scuola media non sono in nessun modo dei processi di differenziazione dell’insegnamento a favore degli allievi: l’inserimento nel livello di base e in quello attitudinale avviene sulla scorta delle note assegnate dalla scuola, ciò che potrebbe addirittura essere disincentivante per l’allievo – quello non portato per la matematica – e pure per il docente, dal momento che, se i livelli di base esistono, qualcuno deve pur farne parte.


Riferimenti

Scuola a tutto campo. Indicatori del sistema educativo ticinese, pubblicato l’ultima volta nel 2019 da SUPSI-DFA, è una fonte di dati e riflessioni quasi inesauribile. È scaricabile gratuitamente all’indirizzo https://www.supsi.ch/home/comunica/news/2019/2019-03-141.html. Il riferimento sulla frequenza dei corsi di base o attitudinali è a pag. 60 (Competenze degli allievi in matematica e ripartizione nei profili curriculari; 2012). A pag. 174 s trovano invece il Confronto tra i livelli di competenza in matematica e la nota in matematica alla fine della scolarità obbligatoria in Ticino (2012). Cito: «Tuttavia sono evidenti alcune anomalie. In particolare, se si osservano le barre con le note 3 e 6, la presenza di allievi con risultati poco brillanti a scuola, ma competenti in PISA – e viceversa – è rilevante».

Per sapere tutto su Matematicando e sul centro competenze per la didattica della matematica del DFA basta andare su http://www.matematicando.supsi.ch/.

Proposte a bizzeffe ma raramente divergono dalla vecchia idea di scuola

L’istruzione | La formazione scolastica alla prova del tempo. Ambito per ambito. Materia per materia. Così l’insegnamento si rinnova. O dovrebbe rinnovarsi. Da questo numero, e per alcune edizioni, le idee sul futuro di una istituzione fondamentale per la crescita della società.

È con questo lancio che IL CAFFÈ inaugura una nuova serie di riflessioni, dopo quella denominata L’ANALISI – Verso la ripresa delle lezioni (cinque puntate, dal 12 luglio al 30 agosto 2020, durante l’estate della pandemia Covid-19).



Forse il dibattito sulla scuola è un po’ confuso e prevedibile.

Prendiamo il discorso sui famigerati livelli della scuola media. Già nel 2012 i Verdi avevano proposto di ridiscuterne. Dopo tanti silenzi e il pollice verso alla «Scuola che verrà», ora si comincia a dire che sì, insomma, magari… Per un noto imprenditore era «l’ennesimo abbassamento della selettività della scuola. L’abolizione dei livelli porterà a ulteriori difficoltà nel momento del passaggio nel mondo del lavoro. Ma soprattutto saranno guai per coloro che vorranno continuare a studiare». Un altro maggiorente locale aveva ritenuto fondamentale ristabilire (sic) la meritocrazia. E il Movimento della scuola, guidato da uomini di scuola, mica dagli ultimi proletari del sistema-scuola, si era messo di traverso: «In certe riforme [ci sono] troppi scienziati dell’educazione», che, detto da «guidatori» della scuola, dovrebbe far riflettere. Non che la «Scuola che verrà» fosse chissà quale rivoluzione, sicché siamo ancora qui, quasi mezzo secolo dopo, a parlare dei livelli della scuola media.

Manca almeno un pizzico di fantasia: perché di idee e proposte se ne sentono a bizzeffe, ma raramente divergono granché da quell’idea di scuola che ci accompagna tutti da più di un secolo. Forse toglieranno i livelli della scuola media. Chissà cosa si inventeranno dopo, sperando che la soluzione non diventi l’Hiroshima della scuola dell’obbligo.

Poi, come si ripete spesso, sono i buoni maestri a fare una buona scuola, quelli che incantano i loro studenti, trasformano un complicato problema matematico in un’opera d’arte – al contrario di quegli altri, capaci di inaridire Leopardi. Va da sé che il medesimo ragionamento vale per tutti gli altri mestieri, perché pretendiamo di poterci fidare del pizzaiolo e dell’autista del bus, di chi fa i nostri giornali preferiti, dei professionisti e degli artigiani ai quali ci capita di affidarci. La differenza principale è che se non sono contento dell’elettricista, o del giornale, lo cambio. L’altra differenza è che la scuola, come la giustizia e l’esercito, è un’istituzione dello stato, ancorata alla costituzione, mica un servizio. Tutti sono obbligati a frequentarla, e non è solo questione di imparare a leggere, scrivere e far di conto.

Tutti siamo andati a scuola. C’è chi si è appassionato e chi è stato malissimo. C’è chi ricorda i suoi maestri, perché erano il meglio o il peggio. Sia come sia, magari non avremo imparato bene la matematica, l’italiano o tutta quell’abbondanza di nozioni, tecniche, lingue e competenze che si usa infilare nei programmi: ma siamo tutti esperti di scuola, ognuno con la sua soluzione, magica e quasi banale.

È da riflessioni come queste che vorrei ripartire, non per rincorrere chissà che rivoluzione copernicana, perché tanto la Realpolitik viaggia con prudenza e il piede sul freno, e con l’illusionismo non si va distante. Però esistono delle idee che arrivano molto più in là dei livelli e della media del 4.65 per andare al liceo a farsi massacrare una volta su tre. Ci sono problemi politici, sociali e culturali enormi, da affrontare con spirito critico, curiosità, piacere del dubbio e della speculazione intellettuale: attitudini che non possono nascere in una scuola ingessata e inutilmente selettiva. Per imparare a difendersi dalle fake news e dai tanti imbonitori della politica e dell’economia serve una scuola diversa: perché educare non è sinonimo di addomesticare, né di intrattenere o divertire.

Il blog di Adolfo Tomasini, dove si parla di educazione e di scuola