L’importanza della messa in moto per il cittadino consapevole

Parliamo di Gaia, la giovane allieva della scuola media di Gordola che ha rimediato una risicata sufficienza in educazione fisica a fine anno scolastico, giusto due mesi prima del suo 13° rango ai Giochi olimpici giovanili estivi in Cina. La ragazza, un talento nazionale della ginnastica artistica, frequentava la scuola media a Gordola, per la vicinanza col Centro sportivo della gioventù, nell’ambito degli speciali programmi di scolarizzazione di talenti in campo sportivo e artistico promossi dal DECS. Si può immaginare che quel misero 4 in ginnastica avrebbe rimediato solo qualche moccolo in famiglia, se non avesse contribuito a tenere la media globale della ragazza sotto la fatidica soglia del 4.6, che le avrebbe consentito l’iscrizione al liceo per sportivi d’élite. La famiglia dell’atleta ha già inoltrato un paio di ricorsi, entrambi respinti. Fin qui la scarna sintesi della vicenda, che ha scatenato un fiume in piena di scrollate di capo. «Com’è possibile – si chiedono in molti – che la giovane campionessa non vada oltre una misera sufficienza proprio in ginnastica?».

Non so voi, cari lettori, ma anch’io, prima di leggere questa storia, ero convinto che l’educazione fisica fosse uno spazio di sano e utile movimento all’interno di quelle 33 ore settimanali della scuola media. Credevo, in altre parole, che le tre ore settimanali di ginnastica rispettassero l’Ordinanza federale sulla promozione dello sport e dell’attività fisica, che stabilisce come a livello di scuola dell’obbligo devono essere impartite almeno tre lezioni settimanali di ginnastica, con l’obiettivo principale di incrementare l’attività fisica e sportiva. Invece non è così, o lo è solo in parte: basta leggere il «Piano di formazione della scuola media», oltre otto pagine fitte, per rendersene conto. Intanto solo due discipline, italiano e matematica, hanno più ore della ginnastica. Poi si scopre che si insegnano tante di quelle cose importanti che in questa sede non ci starebbe neanche una sintesi ridotta all’osso. Basti pensare che «la specificazione programmatica mette in rilievo le implicazioni emotive ed esistenziali dell’attività fisico-sportiva»: insomma, mica solo una corsetta o un’infuocata partita di pallavolo. Da questo punto di vista, quindi, la decisione del Consiglio di Stato che ha respinto il secondo ricorso non fa una grinza: dura lex, sed lex.

Il fervore dipartimentale per la promozione di atleti, musicisti e danzatori non mi ha mai infiammato. Mi sfugge il senso di questo blandire gli sportivi d’élite al posto, che so?, dei matematici d’élite, che se sono bravi non ricevono neanche i complimenti del Consiglio di Stato, assieme a qualche biglietto da mille. Ci sarà qualche motivo misterioso. Se le tre ore di educazione fisica – quelle imposte dalla confederazione – fossero state soltanto delle ore dedicate alla pratica sportiva e al movimento, mi sarei chiesto come mai questi talenti non siano semplicemente esonerati. Invece, per stare alle peripezie scolastiche della nostra olimpionica, ho scoperto che «Gaia ha svolto una sola prova di creazione di una messa in moto con la musica, valutata dalla docente sufficiente nella parte pratica e insufficiente nella parte teorica, ciò che ha portato all’assegnazione della nota finale 4». Già: saper dar vita, in teoria e in pratica, a una messa in moto con la musica è un obiettivo fondamentale, e se non lo sai fare l’età adulta sarà molto problematica e cosparsa di bufere corporee ed esistenziali.

W l’eterogeneità, W le pluriclassi!

La campagna in vista della votazione sull’iniziativa «Aiutiamo le scuole comunali», iniziata in primavera, ha moltiplicato a dismisura gli interventi sulla stampa. Dal fronte del e da quello del no giungono motivazioni a sostegno dell’una o dell’altra tesi che vanno ad arricchire la già nutrita serie dei colori dell’iride. Non ho naturalmente letto e ascoltato tutto ciò che è stato scritto e detto. Sono stato costretto a una selezione, perché, a dispetto dell’essere in pensione, non posso mica passare le giornate a leggere di tutto e di più sulla scuola ticinese e i suoi dintorni.

Ma, qua e là, ho colto qualche sparata degna di citazione. Eccone tre che mi hanno colpito per l’originalità della traiettoria.

  • Per replicare a chi afferma che se quest’iniziativa fosse accolta dal popolo il margine decisionale dei comuni si avvicinerebbe allo zero, qualcuno ha affermato che «La scuola comunale rimane ai comuni per quanto riguarda la scelta dei docenti, del direttore, dell’edilizia e tante altre cose; e soprattutto la vigilanza. Però è importante che su tutto il territorio cantonale tutti abbiano le medesime opportunità». Quando si dice l’autonomia – e senza tornare al merito delle ormai famose «pari opportunità», che son diventate il classico nebbione che nasconde e confonde tutto. L’autonomia: babbo Stato impone ai comuni auto costose e non necessariamente adeguate a ogni particolare territorio. Naturalmente il Comune paga una sostanziosa parte del costo (e non è un leasing). Poi può scegliere il colore dell’auto e chi la guida. Addirittura ha l’autonomia di verificare che l’auto funzioni come si deve. Per finire può (eh eh!) finanche costruire una bella autorimessa, possibilmente Minergie.
  • «Con più la classe è numerosa, più il maestro è costretto a fare delle lezioni frontali, delle lezioni cattedratiche». Questa l’ha detta un caro amico e ormai ex collega, che conosce bene le esperienze di Don Lorenzo Milani, tanto per citarne uno tutt’altro che a caso. Un Maestro che non la pensava proprio così, anzi. Si vede che il caro amico e ormai ex collega è ancora attratto dal magister, sul modello universitario; l’unica alternativa possibile sarebbero classi sufficientemente piccole, affinché sia possibile dare “lezioni private”. Tertium non datur.
  • Della terza chicca ho perso l’autore e il giornale che l’ha ospitata. Riassumo a memoria: l’opinionista di turno è d’accordo che si diminuisca il numero di allievi per classe. Ma ritiene che tra 25 e 15, 16 o 20 non cambi gran che. Bisognerebbe fare classi veramente piccole, di otto o dieci allievi. Vabbe’, pian piano torneremo al precettore di aristocratica memoria.

Un’interessante intervista al ministro dell’educazione

Ma torniamo alle cose serie. Manuele Bertoli, che da presidente del Partito socialista era tra i promotori dell’iniziativa e che da Direttore del DECS aveva proposto un compromesso al Parlamento, oggi, da Presidente del Consiglio di Stato, si ritrova a sostenere il punto di vista della maggioranza governativa, come noto contrario all’iniziativa. E lo sta facendo con grande correttezza: tanto di cappello. L’11 settembre ha rilasciato una lunga intervista al Corriere del Ticino, pubblicata col titolo «Scuola, oggi sono tenuto a dire no». Non entro nuovamente nel merito dei soliti capitoli trattati dall’iniziativa, ma voglio sottolineare una sua affermazione significativa, importante e fuori dal coro.

Domanda del giornalista: «È vero che portare a 20 allievi l’asticella potrebbe generare l’effetto perverso dell’aumento delle pluriclassi?».

Risposta del ministro Bertoli: «Lo abbiamo segnalato nel documento consegnato alla Commissione scolastica sugli effetti quantitativi che dava conto dei costi dell’iniziativa. È vero che in alcune zone il numero di pluriclassi potrebbe aumentare perché non sarebbe data la possibilità di fare monoclassi da 22 o 23 allievi e quindi si andrebbero a comporre sezioni con più classi al loro interno. Bisogna però non drammatizzare troppo il tema, le pluriclassi non sono necessariamente un male. Alcuni sostengono addirittura che sono utili nella misura in cui chi è più debole può, quando segue la classe più avanzata, ascoltare e ripetere quanto fatto l’anno prima e chi è più forte, nella classe meno avanzata, può già sentire cosa farà l’anno successivo. Comunque l’iniziativa porta ad un aumento delle pluriclassi, anche se la situazione è molto differenziata sul territorio».

Era ora che qualcuno lo dicesse, non fosse che per il grande rispetto verso i tanti maestri che insegnano bene e da anni nelle pluriclassi [1]. Ma è ora e tempo di finirla con la storiella che le pluriclassi siano una sorta di male necessario allorché, per far funzionare le alchimie numeriche e nell’impossibilità di poter istituire le tanto agognate monoclassi, si è costretti a mettere insieme allievi di classi diverse. Prendendo a prestito un recente tormentone di Celentano – mi si passi la citazione bislacca – la pluriclasse è rock, mentre la monoclasse è lenta.

Non è questa la sede per sintetizzare i tanti vantaggi della pluriclasse e il primato educativo della massima eterogeneità. Chi è interessato ad approfondire il tema può rivolgersi all’ampia letteratura in materia. Se si vuol trovare qualche spunto, magari leggermente provocatorio, si può dare un’occhiata al capitolo che Philippe Meirieu dedica all’eterogeneità nel suo libro L’école ou la guerre civile, che può essere consultato e scaricato qui: Pour un nouveau contrat entre la société et son école: “vive l’école obligatoire”! (da pagina 108).

L’omologazione è nemica dello sviluppo, della crescita e della creatività

La monoclasse è parente stretta di quella classe che si è stabilizzata nel XIX secolo, basata essenzialmente sul corso ex cathedra, e nasconde in modo subdolo la selezione delle future élites attraverso la legittimazione degli status socio-economici e culturali di partenza. Se è questa la scuola che si vuole, lo si dica con chiarezza. In caso contrario occorrono «delle riforme di carattere più pedagogico» per la scuola dell’obbligo (Manuele Bertoli, nella medesima intervista citata), per staccarsi esplicitamente e senza alibi quantitativi dall’organizzazione del lavoro quotidiano degli insegnanti che ruota attorno a lezioni uguali per tutti, esercizi uguali per tutti, tempi uguali per tutti e valutazioni uguali per tutti da effettuarsi nei medesimi momenti per tutti – col servizio di sostegno pedagogico a inseguire i danni provocati da questa maniera di affrontare la scuola dell’obbligo, senza mai arrivarne a capo.

Sarò vecchio, ma resto vicino alle finalità che il nostro Parlamento ha definito per la scuola dell’obbligo: formare cittadini. Cioè educare e istruire, perché non esiste un concetto di cittadino ignorante, mentre è facile allevare idioti specializzati, vale a dire uomini e donne super-specialisti nella loro disciplina, che non sanno assolutamente nulla delle discipline altrui.

Nell’ultimo decennio la scuola è divenuta sempre più utilitaristica. Cioè a dire: si è votata anno dopo anno alle conoscenze sterili e specialistiche (pardon, oggi le chiamano competenze).

Una scuola siffatta ha bisogno di strutture coerenti. Oddio: da sempre la scuola tende a omologare i gruppi, come avevo scritto in un articolo «Fuori dall’aula» del 2009, prendendo spunto da un’estemporanea proposta che voleva reintrodurre la separazione dei sessi nella formazione delle classi: Classi maschili e femminili nella scuola media? Così come, in due altre puntate della mia rubrica sul Corriere del Ticino, mi ero occupato dell’omologazione delle classi (I ghetti del XXI secolo) e dell’individualizzazione esasperata dell’insegnamento (Nel grande emporio della formazione).

I vantaggi della pluriclasse

Detto questo, parliamo un poco delle pluriclassi, con un plauso al ministro Manuele Bertoli, che, seppur timidamente (le pluriclassi non sono necessariamente un male), ha avuto il coraggio di dire quel che sarebbe stato preferibile sentire, da sempre e non solo da ieri, da ispettori, direttori e funzionari del Dipartimento. In questo Cantone le pluriclassi sono normalmente istituite quando non è possibile fare altrimenti, vale a dire quando i numeri non permettono l’istituzione delle tanto bramate monoclassi, quasi che il mettere insieme allievi più o meno della stessa età risolvesse motuproprio il problema dell’insuccesso scolastico.

Dovremmo chiederci, per cominciare, se vi sono dati chiari che indichino se vi sono significative differenze tra le competenze che si acquisiscono in una monoclasse rispetto alla pluriclasse. Nel contempo: da una trentina d’anni si ripete che, mono o pluri che sia la classe, è fondamentale differenziare l’insegnamento, badando bene al fatto che differenziare non è l’equivalente di individualizzare. Anche in questo caso l’insegnante è la trave portante della scuola: il maestro che non sa o non vuole differenziare il suo insegnamento, optando per troppe chiacchiere cattedratiche ed esercizi uguali per tutti, sarà ancor più in difficoltà in una pluriclasse. Ma se non sa o non vuole, non è al suo posto.

Vi sono sedi scolastiche che non conoscono le monoclassi, perché i numeri non l’hanno mai permesso. Però anche in questi casi ogni tanto non mancano le soluzioni perverse o, quantomeno, poco ragionevoli. Ho incontrato a fine agosto una bravissima maestra che lavora in una di queste piccole sedi. Mi ha detto che quest’anno le è stata assegnata una 1ª/2ª/3ª di 24 allievi, mentre la sua collega avrà una 4ª/5ª di 16 allievi. In quella sede ci sono dunque 40 allievi. Non sarebbe stato più logico istituire due pluriclassi di 20 allievi? O, meglio ancora, non sarebbe stato più razionale istituire un’unica sezione di cinque classi e 40 allievi affidata a due docenti a tempo pieno, quasi certamente con la presenza di un docente d’appoggio? Per dirne una, un’organizzazione siffatta avrebbe offerto la possibilità di far variare il numero di allievi a dipendenza dell’attività da svolgere. Per esemplificare, con un caso semplice semplice, e farmi capire: mentre 20 allievi sono in palestra con il docente speciale, due maestre possono occuparsi di 20 allievi. Le combinazioni sono naturalmente infinite.

In altri anni c’era stata la moda dei consorzi. Mi viene in mente il caso della Vallemaggia. Negli anni ’70 si era costruito e istituito il Centro Scolastico Bassa Vallemaggia, azzerando con un colpo di spugna le scuole di nove comuni (Avegno, Gordevio, Aurigeno, Moghegno, Maggia, Lodano, Coglio, Giumaglio e Someo). Il nuovo centro sembra una scuola di città. Ha la palestra e le sue brave monoclassi. Costa un sacco di soldi, costringe un gran numero di bambini e ragazzetti a trasferte giornaliere coi bus. I villaggi non hanno più la loro scuola (uh, le pluriclassi…) e la nuova scuola assomiglia a tutte le altre.  Cosa ne abbia guadagnato la Valle in termini di educazione e istruzione non si sa.

École-active-de-MalagnouLe scuolette di paese. Anni fa avevo avuto occasione di visitare una scuola a Ginevra, «La Barigoule», nel quartiere di Malagnou, a quei tempi diretta da un bravissimo Jean-Claude Brès [2]. Ricordo un piccolo edificio a due piani, su una collinetta, attorniato da palazzi che fanno sembrare «La Barigoule» a una specie di isola in mezzo all’oceano (la foto mostra una ristrutturazione recente; io parlo di oltre vent’anni fa). È una scuola che ha scelto L’école active, malgrado i locali esigui, i banchi e il mobilio raffazzonati (forse scarti di scuole pubbliche rammodernate). Ma vi si respirava un’aria entusiasmante e vivace, generatrice di educazione, sostenuta da un gruppo di insegnanti appassionati e ben consapevoli del loro ruolo. Alle monoclassi e al mobilio scintillante e moderno avevano preferito la forza delle idee e del rigore.

Célestin Freinet (1896-1966) ha spesso operato con pluriclassi piuttosto numerose. In quei primi decenni del ’900 i dibattiti attorno all’educazione come strada di progresso e di emancipazione politica e civica sono intensi. Accanto alla scuola «ufficiale», che classifica gli allievi e seleziona le élite, crescono e si diffondono movimenti che approfondiscono la cooperazione tra allievi, la corrispondenza scolastica, la differenziazione come forma di rispetto dei ritmi di ognuno, il rigore della conoscenza. Lo stesso Freinet si butta nell’esperienza dell’Educazione nuova, entra in contatto con John Dewey, Adolphe Ferrière, Ovide Decroly, Roger Cousinet.

Chissà: forse le scuole ispirate dai modelli dell’educazione nuova non sono mai riuscite a offuscare la vecchia scuola «ufficiale» proprio perché i suoi principi e le sue finalità tendono per davvero all’emancipazione. Quell’altra scuola, ancor molto legata nella sua organizzazione e nelle sue strutture a quella dei suoi albori (XVIII e XIX secolo), ha saputo superare anche il ’68 e arrivare sin qua, pimpante e cinica, pronta ad affrontare le prossime riforme gattopardesche: tanto ci sarà sempre qualche nuovo gruppo sociale da bocciare ed escludere. C’è sempre bisogno di braccia che, soprattutto, stiano zitte.

Mi fermo qui, per oggi. Sono convinto che la pluriclasse, combinata col lavoro in équipe, offrirebbe tante formidabili opportunità per migliorare la scuola dell’obbligo. La ricerca affannosa dell’omogeneità – per età, per sesso, per quoziente intellettivo, per segno astrologico, per scelta religiosa… – impone di volta in volta aggiustamenti costosi. La strada affinché ogni cittadino possa dire, con l’Alfieri (e con Piero Gobetti), di non aver niente a che fare con gli schiavi è ancora lunghissima.

Poi ci sarebbero altre innovazioni per rendere la scuola più coerente col mondo che la circonda. Ma di ciò parlerò forse in altra occasione.


[1] Per intenderci: quando parlo di pluriclasse intendo ogni sezione formata da allievi che frequentano classi diverse: dai classici 1ª/2ª e 3ª/4ª/5ª alle tante combinazioni possibili, non escluse le sezioni di otto classi, ancora esistente in qualche scuoletta discosta fino a 40 o 50 anni fa (dalla 1ª elementare alla 3ª maggiore, senza saltare nessuno).

[2] En 1972, Claude Ferrière, Robert Hacco, Michael Huberman, Laurie Lamartine et Freddy Stauffer fondent une association dans le but de promouvoir la pédagogie active à Genève. Face à la difficulté d’introduire une rénovation rapide au sein de l’instruction publique, ils décident de créer une école privée. Ils font appel pour cela à différentes personnes déjà engagées dans des démarches de pédagogie active dont Jean-Claude Brès et Ariane Ferrière. (École active de Malagnou).

Una bella storia di settant’anni fa

Mi piace proporre un articolo apparso su La Regione Ticino di oggi, lunedì 15 settembre 2014. L’intervista di Eminio Ferrari racconta la storia di Enrico Loewenthal, un ragazzo ebreo di famiglia benestante nell’Italia fascista, andato a resistere nel 1943 tra i partigiani in Valle d’Aosta. Come Primo Levi.


Enrico Loewenthal non parlava più tedesco da quando dovette lasciare la scuola in quanto ebreo, ma fu in quella lingua che intimò il ‘mani in alto’ a due soldati della Wehrmacht: ‘Hände hoch, bitte’. La sua militanza nella Resistenza italiana sfata l’immagine della vittima designata e riscrive un capitolo della storia tragica del secolo scorso. A colloquio con il partigiano Ico.

Rivoli – «Hände hoch, bitte». D’improvviso, inaspettatamente, il tedesco riaffiorò alle labbra di Ico. Con il mitra spianato ordinò a due stupefatti soldati della Wehrmacht di alzare le mani. «Per favore». In casa sua quella lingua era vietata da quando, ragazzino, era stato allontanato dalla scuola tedesca che frequentava a Torino. Da quando, cioè, aveva appreso che cosa comportasse essere ebreo negli anni Trenta del secolo scorso. «Ero ancora alle Elementari e dopo la convocazione del preside per comunicarci che non ero più ammesso alla sua scuola mio padre mi aveva proibito di parlare ancora la lingua di chi ci considerava una peste della Storia. Il mio tedesco era rimasto quello di un bambino». Ma quando, un freddo giorno del 1944, fermò i due militari tedeschi nel corso di un’operazione di guerriglia in Valle d’Aosta, a Enrico Loewenthal, divenuto ormai il partigiano Ico, venne spontaneo apostrofarli nella loro stessa lingua. Il che li stupì non poco, ma non quanto quel “Bitte”, che mai si sarebbero immaginati di sentirsi indirizzare da un “bandito”. Loro che, come disse poi uno dei due a Ico, erano stati istruiti ad ammazzare prima di intimare mani in alto. Né avrebbero immaginato che quel ragazzo non solo fosse in grado di usare una tale forma di cortesia col dito sul grilletto, ma che li avrebbe poi fatti accompagnare al confine svizzero, risparmiando loro la vita. È una storia del Novecento quella che Enrico Loewenthal, classe 1926, racconta ancora oggi nella sua casa di Rivoli, esemplare nelle sue illuminazioni così come nelle sue contraddizioni. Nelle sue tragedie e nell’ironia che affiora nel ricordo di uno dei non molti partigiani ebrei della Resistenza italiana. E senza retorica: «Guardi, io sono soltanto un ebreo frusto come tutti gli altri, che a un certo punto si è opposto a una persecuzione. Lo devo a mio padre soprattutto». Guarda il caso: Enrico Loewenthal era concittadino di Primo Levi, anche lui torinese, anche lui partigiano in Valle d’Aosta, ma poi arrestato e condotto ad Auschwitz. Una scelta non del tutto isolata, dunque, ma di quelle che la più consolidata narrazione della Resistenza ha molto spesso ignorato o marginalizzato. Associata alla storia del secondo conflitto mondiale, la figura dell’ebreo – quantomeno in Italia – è quella della vittima piuttosto che del combattente. «In effetti – conviene Enrico Loewenthal – di ebrei che abbiano fatto la Resistenza ce ne furono pochi. Quanto a me, devo dire che la mia lotta è cominciata ben prima del 1943. Ho vissuto la vita del ragazzo ebreo di famiglia benestante nell’Italia fascista: dapprima sono stato cacciato dalla scuola tedesca, e dopo il varo delle leggi razziali anche dalla scuola pubblica italiana. Covavo una rabbia che cresceva con l’età, e quando, quindicenne, sono andato a far pratica in una piccola officina di un armaiuolo ho cominciato ad acquistare alcune vecchie armi lasciatevi dagli ufficiali italiani che volevano spuntare qualche soldo. Devo pur dire di essere stato uno stupido a non prenderle con me quando, dopo l’8 settembre, sono fuggito da Torino con la mia famiglia».

Diciassette anni, partigiano

Una fuga, come racconta nel suo “Mani in alto, bitte” (recentemente tradotto in tedesco), che durò poco. Non perché Enrico venne preso, ma perché ben presto, diciassettenne, si arruolò nelle formazioni garibaldine che si erano già costituite nelle valli del Torinese. La rigidità ideologica e le pretese egemoniche dei “comunisti”, come li chiama lui («è da allora che non li sopporto»), gli fecero poi preferire le formazioni di Giustizia e Libertà di Ferruccio Parri e infine, sino alla Liberazione, aderì a quelle autonome in Valle d’Aosta. Non senza aver conosciuto prima i pericoli e l’ebbrezza di lunghe traversate delle Alpi per procurarsi armi e materiale americano in Francia. «Avevo convinto il mio comandante a lasciarmi partire con due guide. Gli dissi che avrei camminato finché avrei trovato gli americani. E ce la feci. Così tornammo carichi di armi e con indosso divise americane. Può immaginare i sospetti e l’invidia delle altre formazioni». E possiamo oggi immaginare quanto poco sospetti e invidia potessero fiaccare il coraggio di quel ragazzo che nel dopoguerra sarebbe diventato uno stretto collaboratore di Simon Wiesenthal nella caccia ai criminali nazisti fuggiti dall’Europa. Perché, vi ritorniamo, se la storia del partigiano Ico è analoga a quella di molti resistenti, a distinguerla c’è la sua discendenza ebraica. E quanto a questo la sua esperienza e le sue parole sono nette. «In famiglia sapevamo che cosa si stava preparando nella Germania nazista attraverso le lettere dello zio Alfred: le violenze, la propaganda, i bandi dal lavoro, dalle scuole, dalle attività commerciali. Finché la sua ultima lettera ci avvertiva: ‘Ci hanno chiesto di tenerci pronti per essere trasferiti a est dove potremo reinsediarci e lavorare’». Trasferiti: su che tipo di vagoni e per quale destinazione oggi lo sappiamo. Oggi, appunto. La cognizione di che cosa si stava preparando, allora poteva non essere ancora chiara. Nell’Italia fascista i segni potevano essere contraddittori. Non dopo le leggi razziali del 1938. «Ci furono due fascismi – dice Ico –. Il primo è quello che molti italiani sostennero con un sentimento nazionalista più che per adesione ideologica. Ci furono ebrei profondamente fascisti e monarchici. Mio fratello – la sua storia è emblematica – partecipava da giovane alle riunioni dello Shabbat, nel corso delle quali si discuteva di bibbia ed ebraismo, ma fu denunciato per attività contro lo Stato da una spia, un ebreo. Finì in prigione e ne uscì traumatizzato. Si è trascinato dietro questa macchia, divenne un fascista convinto e fortunatamente mio padre riuscì a farlo emigrare in America con l’ultimo viaggio del Rex».

Una storia di persecuzioni

Ico no. Non volle allora né oggi essere vittima condiscendente o corrispondere all’icona dell’ebreo “inviato al macello”, che tanto ha fatto scrivere, dire e contraddire. «Sono sì stato un bravo ragazzo ebreo che seguì tutto il percorso di formazione e integrazione nella comunità (ma non sono credente, semmai sono parte di una tradizione), ma la mia esperienza successiva è stata in effetti un’eccezione. Tenga conto che per i duemila anni che hanno seguito la nascita di Gesù Cristo, dopo la loro cacciata dalla terra di Israele, gli ebrei non hanno mai fatto l’esperienza delle armi. Furono un popolo pacifico e sottomesso. La mia scelta (e della ventina di ebrei sui millecinquecento che contava la comunità torinese) contraddì dunque una consuetudine millenaria. Non sapevamo quasi di poterci difendere. Ma ricordo bene la mia gioia del giorno in cui sono riuscito ad avere un fucile in mano…». E la vita gli fornì presto motivo di usarlo: una guerra è una guerra. O di non usarlo: la guerra non è tutto.

Una richiesta di perdono

Il suo incontro diretto con il nemico, nelle vesti dei soldati tedeschi, fu singolare: l’arresto, l’accompagnamento oltre il confine. Una specie di amicizia durata nel dopoguerra. Ico, gli chiedo, prevalse allora la clemenza, o a risparmiare la vita ai due militari tedeschi fu la sua non conoscenza dei loro atti precedenti né di quanto si andava compiendo nei campi di sterminio? «Li ho ancor davanti agli occhi, quei due, e quando mi chiedo come mi sarei comportato se avessi saputo di loro e di Auschwitz non so ancora darmi una risposta. Le posso dire che la mia indole non è mai stata sanguinaria, non ho mai provato piacere ad uccidere. Non so, forse avrei fatto lo stesso, mi sarei comportato con la stessa educazione, ma non ne sono certo. Quando poi, molti anni più tardi, ho ritrovato uno dei due militari, Ludwig Seiwald, diventandone in qualche modo amico, ricevetti da lui il suo diario di guerra. Vi lessi della sua partecipazione alla prima campagna in Polonia, delle violenze a cui prese consapevolmente parte. Raccontava di quando, per rappresaglia nei confronti di una piccola forma di resistenza incontrata in un villaggio, il suo plotone inchiodò gli uomini alle porte delle stalle. E raccontava dei rastrellamenti a cui aveva preso parte nelle valli del Cuneese: baite incendiate, partigiani fucilati. Quando si trovò davanti quel giovanissimo partigiano che ero io col mitra spianato, si aspettava probabilmente un simile trattamento. Di qui il terrore, la sorpresa per quel “bitte”, e lo stupore confuso quando lui e il suo commilitone vennero accompagnati in Svizzera. Così, immagino che consegnandomi quelle pagine, nel 1956, volesse rivelarsi per ciò che era stato e forse anche per chiedermi perdono». Ico non dice se quel perdono è mai stato accordato. E non mi sembra il caso di chiederglielo. Solo un’altra cosa: avete mai parlato della Shoah? «No. Mai».

Le parole della vita e l’educazione all’etica nei tempi del disimpegno

Questa recensione è apparsa sul Corriere del Ticino del 12.09.2014, col titolo «Le parole della vita e l’educazione all’etica nei tempi del disimpegno».


Parole della vita, l’ultima fatica di Lina Bertola, è un tentativo ben riuscito di divulgazione pedagogica e filosofica, distante da certi saggi dotti e un poco aristocratici. In un contesto, come quello odierno, dominato dall’utilitarismo, dal populismo, dalle semplificazioni e dalle certezze acritiche, Lina Bertola accompagna il lettore in un percorso appassionante, «un racconto dell’educarsi inteso come viaggio verso se stessi, come impegno etico ad abitare la propria vita assieme agli altri. Perché nel clima antieducativo del nostro tempo, la scuola può essere davvero un luogo di resistenza e, perché no, qualche volta un luogo dell’utopia». Nonostante il richiamo alla scuola, agli insegnanti e alle loro parole – valutazione, maestro, allievo, … – non siamo di fronte a un testo riservato agli specialisti dell’educazione, perché «la parola etica corrisponde al greco ethos, che significa “costume, consuetudine”, e rimanda a un repertorio di valori riconosciuti e condivisibili, su cui si fonda l’appartenenza comune e insieme il giudizio sui nostri comportamenti».

CopertinaCome in ogni viaggio avventuroso, lungo il cammino s’incontrano personaggi meravigliosi – tanti i filosofi, dall’antichità ai giorni nostri – che Lina Bertola ci fa conoscere senza saccenteria, e tanti paesaggi di parole avvincenti. Si comincia con Etica e Deontologia, tanto per dire subito che non sono sinonimi; e si prosegue con Individuo, Identità, Dialogo, Autonomia, Libertà, Felicità, Verità, Dono, Lavoro; e poi Pensare, Idea, Valore; e le coppie apparentemente antitetiche: Ragione/Sentimenti, Salute/Malattia, Maschile/Femminile, Naturale/Contro natura, Utile/Inutile, Fatti/Interpretazioni, Diritti/Doveri. E tante altre, perché la meta del viaggio non è un’idea astratta dell’educazione all’etica, cioè alla vita, ma è radicata nella storia del nostro presente. L’autrice non si ferma alle seducenti conclusioni di Aristotele e di Kant, di Cartesio e di Popper, ma cerca di inserire coerentemente questa grande necessità educativa nei tempi nostri, che è l’epoca delle trasformazioni accelerate, delle mutazioni improvvise, dei valori che cambiano e si contraddicono in un battibaleno, dei poteri forti e incontrollati. Siamo alla «conoscenza ai tempi del web», quand’è forse necessario andare «alla ricerca dell’ignoranza perduta».

«Certamente la scuola – scrive la Bertola avviandosi alla conclusione – deve formare i giovani rispondendo ai bisogni della società. Questo è il suo compito. Ma non solo: rispetto ai bisogni della società la scuola abita sempre un po’ altrove, in un luogo ideale in cui è racchiuso il suo supplemento di verità e in cui vive quella speranza non misurabile che accompagna il mestiere di insegnante; altrove, ovvero in un luogo simbolico in cui imparare a sentire il valore di quel viaggio verso se stessi che sempre è l’educazione». Ha scritto Franco Frabboni nell’introduzione, che «forte è il richiamo di Lina Bertola a un’etica intenzionale (…). Occorre – oggi più di ieri – difendere con i denti e con le unghie una Persona minacciata dall’avvento di un’umanità alienata e omologata che simpatizza scopertamente per una donna e per un uomo dagli encefalogrammi piatti. Utili e mercificabili». Insomma: un invito limpido ai veri valori dell’educazione come scelta etica individuale e collettiva, che è poi la vera educazione alla cittadinanza.

LINA BERTOLA, Parole della vita. Per un’educazione all’etica, 2014, Trento: Ed. Erikson, 109 pagg., € 16

L’eredità di Rousseau, la scuola e la politica di oggi

Questa recensione è apparsa sul Corriere del Ticino del 21.08.2014, col titolo «L’eredità di Jean-Jacques Rousseau, la scuola e la politica di oggi».


Gettare alcuni semi illuministi con la speranza che possano germogliare «per capire meglio il nostro presente, le sue impasse e le ragioni dell’odierno disincanto dopo l’ubriacatura post-moderna»: è questo l’intento del volume Semi ad usum praesentis – Un incontro sul pensiero di Jean-Jacques Rousseau, curato dal filosofo Fabio Merlini. Esso raccoglie i contributi di sei studiosi che, nel dicembre del 2012, in occasione del tricentenario della nascita del filosofo ginevrino, hanno dialogato col suo pensiero, durante un incontro tenutosi a Bellinzona. Il libro dà vita a una conversazione di grande interesse e dall’alto contenuto divulgativo. Partendo da alcune pagine fondamentali dell’opera di Rousseau gli autori propongono altrettante riflessioni declinate al presente, nel doppio intento di mettere nella giusta luce l’attualità del filosofo e di mostrare alcune distorsioni politiche e sociali del mondo odierno, dove «ciò che “normativizza” i comportamenti dei grandi operatori multinazionali (imprese e istituzioni bancarie) sono intese e accordi per lo più indifferenti a qualsiasi regolamentazione di mercato e al diritto legislativo dei singoli Stati. “Intese” e “accordi” in ragione dei quali il contratto privato sembra aver sostituito il diritto» (p. 15). Il pensiero di Rousseau rivela dunque la sua continuità nel tempo e «rimane una fonte inesauribile di ispirazione, nella misura in cui le sue visioni convergono nella definizione di un uomo nuovo. Scuola e formazione, a tutti i livelli, sono ovviamente coinvolte in prima persona. È giunto il momento di raccogliere tutte le voci giustamente critiche che oggi chiedono risposte diverse, rispetto a quelle elaborate negli ultimi decenni, a questa semplice domanda: “formare a che cosa?”» (p. 19-20).

Semi-ad-usum-praesentis-Copertina-512x1024Dopo tre brevi lezioni introduttive del curatore, il volume percorre l’opera di Rousseau attraverso alcune riflessioni che alternano argomenti politici e educativi. Lina Bertola si china sulla necessità che l’educazione torni a essere un atto di resistenza, per lasciarci alle spalle l’imperante utilitarismo della scuola negli anni della globalizzazione. Virgilio Pedroni approfondisce lo scarto tra volontà generale e volontà di tutti, dove la prima è quella dei cittadini e la seconda l’affollata giustapposizione di interessi privati. «L’educazione del cittadino. Il senso del patriottismo e la questione della religione civile» sono invece al centro delle considerazioni di Marcello Ostinelli, mentre Michele Mainardi punta i suoi riflettori su alcuni temi educativi, con particolare riguardo alla necessità che il patto educativo, formativo e sociale, alla base delle società civili, concerna le comunità e la società nel loro insieme. Per terminare, Franco Zambelloni propone un’acuta, curiosa e intrigante riflessione: «La libertà tradita», una sorta di pamphlet sulla pedagogia del ginevrino, fondatore della pedagogia moderna, che ha però subito una grave censura da parte dei contemporanei, che hanno occultato uno dei grandi principi: «Soffrire è la prima cosa che [il fanciullo] deve imparare». Alla faccia di tutto il recente buonismo.

Insomma, un testo indispensabile per chi non ne può più di questa politica senza visioni e senza cultura e di questa scuola al servizio dell’economia. Perché sull’intero volume aleggia «una domanda che non dovrebbe smettere di interrogarci: è davvero sfumato il sogno illuminista di una società più giusta?»

 

FABIO MERLINI (a cura di), Semi ad usum praesentis – Un incontro sul pensiero di Jean-Jacques Rousseau, 2013, Tesserete, Pagine d’Arte, 146 pagine, € 12 / Fr 16, ISBN 9788896529614

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