Neanche fosse chissà quale novità, l’informatica. D’accordo, se ne parla almeno dal 1984, anno quanto mai simbolico, quando due giovanotti misero sul mercato il primo Mac, un «coso» con la mela che avrebbe cambiato il mondo. Eppure scuola e politica stanno vivendo proprio di questi tempi la loro età degli eccessi ormonali nei suoi confronti. Sembrerebbe che le scuole scollegate dal www e prive di adeguate apparecchiature di alta tecnologia siano impossibilitate a perseguire le loro alte finalità educative. L’ultimo numero di Ticino Management ha dedicato un servizio al tema, declinandolo sulla formazione degli insegnanti. Ha detto Luca Botturi, docente di Tecnologie e Media in educazione al DFA della SUPSI: «Accanto a tematiche caratterizzanti del nostro Dipartimento, quali la didattica dell’italiano, della matematica e delle lingue straniere oppure agli aspetti legati alla gestione della classe, la riflessione sul rapporto tra educazione e nuove tecnologie è una delle nuove frontiere sulle quali ci stiamo impegnando».
«Constatare che la tecnologia si è fatta spazio in ogni aspetto della nostra vita – ha scritto il filologo Lorenzo Tomasin in un bel saggio del 2017 – ha indotto molti a pensare che essa dovesse averne uno anche nella formazione delle nuove generazioni. Per lungo tempo portare i bambini a scuola significava perlopiù strapparli ai campi. Ora, a chi mai sarebbe venuto in mente di portare i bambini a scuola per mostrare loro una zappa, o per insegnare loro come funziona? Nella grande maggioranza dei casi sarebbe stato certo più sensato che far trovare loro un vocabolario, un trattato di matematica e un’insulsa poesia da imparare a memoria. Ma a lungo, forse sbagliando, abbiamo pensato che in quelle pagine stessero gli ingredienti di base della buona istruzione. E che questi fossero gli strumenti migliori per trasmetterli. Operando altrimenti, sarebbe stato assai difficile fare di un contadino qualsiasi altra cosa che un contadino; di un operaio, altro che un operaio. Se molti figli e nipoti di contadini sono diventati ingegneri, medici e architetti è proprio perché a scuola hanno trovato qualcosa di diverso da una zappa, e sia pure da una zappa tecnicamente raffinatissima».
I ragazzi della scuola dell’obbligo sono nati col mouse in mano, hanno imparato a scorrere l’indice sullo schermo del telefonino prima ancora di dire «mamma». Spesso sono vittime e imputati di cyber bullismo o di altri misfatti, ma non saranno i nostri predicozzi a convincerli che ci vuol poco a cadere nella rete e a farsi male. Tentare di forgiare l’Homo technologicus è pericoloso (avete in mente la creatura del dr. Frankenstein?), un po’ perché si vedono già in giro fin troppi «idioti specializzati»; e un altro po’ perché ciò che oggi è il massimo dell’hi-tech domani è già antiquato, sorpassato da un altro hi-tech, che avrà anch’esso la vita effimera di una farfalla. Meglio, quindi, tornare a dedicarsi con passione all’educazione di Homo sapiens, attraverso le discipline umanistiche, la logica, la matematica e le scienze naturali, in un ambiente – la Scuola – fondata sul diritto e sul rispetto, con l’idea che, insieme, si sta imparando il difficile mestiere di donne e uomini adulti. Vendere il Paese e i suoi cittadini di domani a questa economia feroce e cinica sarebbe un crimine. Eppure è proprio quel che potrebbe capitare assai in fretta, man mano che le moderne tecnologie diverranno un fine, e non un mezzo per prefiggersi traguardi più nobili.
La citazione di Lorenzo Tomasin, parziale, è tratta da: LORENZO TOMASIN, L’impronta digitale – Cultura umanistica e tecnologia, 2017, Carocci editore, pp. 8-9
La citazione di Luca Botturi è tratta da: SUSANNA CATTANEO, «Digitalizzazione: scuola all’appello», in Ticino Management, Mensile svizzero di finanza, economia e cultura, Anno XXX, N° 10, Ottobre 2018, p. 78
Se c’è una cosa nella scuola alla quale non do nessun credito sono proprio le nuove tecnologie… Noi siamo della generazione delle calcolatrici… Ti ricordi quando sono arrivate sul mercato? Una vera e propria rivoluzione… Mi ricordo che guardavo questi artefatti con una passione e una curiosità fuori dal comune. Tutti le volevano, tutti le cercavano… Dopo 40 anni di mercato qual è il beneficio che si è potuto ricavare sullo studio del numero e delle sue relazioni? La scuola ha saputo convincere sullo studio della numerazione attraverso la calcolatrice? E sulle operazioni? Cosa abbiamo imparato di più? La risposta mi sembra palese! Anzi direi proprio che si sta facendo marcia indietro lasciando andare alla deriva le poche ipotesi che si erano messe in atto ai tempi d’oro della ricerca didattica. Quello che mi interessa è come si comportano i numeri, come il testo si organizza nella mente di chi lo crea per poter essere diffuso. Mi interessano, per esempio, le proprietà del cubo e tante altre cose che l’uomo a creato e organizzato. La macchina certo mi fa l’occhiolino, tenta di sedurmi. Ma quello che più conta, per me come insegnante, è come il pensiero umano può sorprendermi su come si manifestano le conoscenze negli alunni.
Caro Luca, grazie per questo contributo.
In tutta franchezza, non mi sento parte della generazione delle calcolatrici tascabili. La prima che ricordo, tutt’altro che tascabile, era nell’ufficio di mio papà, un apparecchio enorme e pesante, che però calcolava all’istante e non faceva rumore: erano i primi anni ’60. Lui, di professione contabile, aveva iniziato negli anni ’40 con le buste rivoltate e infilzate in un chiodo. Poi aveva seguito l’evoluzione fino agli ultimi anni del XX secolo, con un computer dedicato – un computer che, in pratica, teneva un sacco di spazio ma faceva solo contabilità.
Non ricordo grandi discussioni scolastiche sulle calcolatrici tascabili. Tutt’al più ci si chiedeva se convenisse lasciarle usare agli allievi per risolvere i «problemini», quelli soliti della matematica scolastica, che perdono il suffisso quando si giunge al cospetto dei prof.
Invece nei miei primi anni di insegnamento c’era molta passione attorno ai temi dell’educazione all’immagine – la pubblicità, il cinema, la televisione, … Ero anch’io tra i sostenitori di quella necessità educativa, che era portatrice, secondo me, anche di taluni eccessi. Ad esempio c’era una corrente di pensiero, chiamiamola così, secondo cui bisognava insegnare a leggere le immagini, ma anche a crearle. D’accordo, il discorso è complicato. Anche la foto-ricordo delle vacanze può essere di qualità ed esprimere qualcosa; oppure è fatta coi piedi, è inguardabile e non racconta niente. Da lì a inventarsi la fiction in Super-8 c’è ancora un pezzetto. Com’è andata a finire è sotto gli occhi.
Per tornare alla matematica (o all’informatica, o a tante altre discipline che potrebbero essere appassionanti), mi pare che il tuo discorso non faccia una grinza, non fosse che alla scuola, quella che si muove guardinga nel chiuso delle aule, di solito non interessa come si comportano i numeri o quali sono le proprietà del cubo: con tutto quel che segue. Il teorema di Pitagora lo si scomoda solo perché può servire per metter giù dei bei problemi complicati, in modo che le note assegnate a ognuno rispettino i criteri primari della curva di Gauss, con tre quarti di allievi in media e i restanti un po’ al di qua e un po’ al di là.
Ricorderai, forse, che proprio sul tema dell’insegnamento della matematica nella scuola dell’obbligo, avevo pubblicato un lungo articolo sul Bollettino dei docenti di matematica (poi riportato in questo sito: L’insegnamento della matematica tra pregiudizi e valutazioni scolastiche).
Ho provato a inserire l’informatica nella scuola ticinese come oggetto di studio e come strumento didattico a partire dal secolo scorso. Non sono stato il solo. Altri docenti e ricercatori lo hanno fatto. Senza grande successo, visto che i ripetuti articoli e proclami (pro o contro questi inserimenti) sono (quasi) all’ordine del giorno e lo identificano come un tema che accompagnerà la scuola oltre l’attuale e quella che poteva arrivare per molto tempo ancora. È legittimo che sia così, che se ne discuta e che ci si confronti.
L’insieme informatica e tecnologia ha creato un nuovo artefatto cognitivo (vedi D. Norman, 1991 “a cognitive artifact is an artificial device designed to maintain, display, or operate upon information in order to serve a representational function”). Questo, al pari della matematica e della scrittura – pure artefatti cognitivi -, (ri)definisce il mondo e la comunicazione.
Quindi – in sintesi e dal mio punto di vista- fornire tramite l’insegnamento scolastico ai futuri cittadini dei mezzi che permettano loro di comprendere e usare con cognizione questo nuovo artefatto cognitivo, che si è affiancato ai tradizionali, non solo è importante ma doveroso. Come farlo, dove, quando e con chi, è evidentemente da approfondire.
Grazie per aver discusso sul tema dell’integrazione delle tecnologie a scuola come oggetto di studio e come mezzo didattico.
Grazie per questo contributo, caro Beo.
Non entro, deliberatamente, nel merito delle tue argomentazioni. Credo che tutto il discorso dev’essere collocato in un contesto preciso, che oggi è quello di una scuola selettiva, seppure senza esplicita ammissione (ricordiamoci delle pari opportunità, evocate come un mantra da politici e operatori della scuola).
Due sono, sostanzialmente, i timori che mi ha fatto sorgere il servizio di Ticino Management, con particolare riferimento alle dichiarazioni di Luca Botturi. Il primo si riferisce alla sintetica definizione dei compiuti del DFA: «Accanto a tematiche caratterizzanti del nostro Dipartimento, quali la didattica dell’italiano, della matematica e delle lingue straniere oppure agli aspetti legati alla gestione della classe», eccetera. Mi fa paura vedere un istituto di livello universitario, che forma professionalmente gli insegnanti di questo Cantone, liquidare in modo così infelice, superficiale e preoccupante le sue finalità. Si ha paura a citare termini come pedagogia o scienze dell’educazione, che sono (dovrebbero essere) la cultura professionale di ogni insegnante. Ma continuo a chiedermi, nel contesto della formazione di base e continua dei docenti, qual è la valenza della storia delle idee pedagogiche, delle tensioni etiche e sociali che soggiacciono a esperienze vicine o lontane nel tempo. Lasciamo pur perdere, volendo, Aristotele e Platone, Kant e Locke. Ma sarei curioso di sapere se si parla ancora – non tanto per dire, ma storicizzando e cercando di coglierne l’attualità e l’urgenza – di Jean-Jacques Rousseau e di Johann Heinrich Pestalozzi, di Édouard Claparède, di John Dewey, di Janusz Korczak, di Lev Vygotskij, …
Il secondo timore è legato al primo. In una scuola che non conosce più i principi fondamentali che hanno portato all’istituzione della scuola dell’obbligo si rischia che ogni nuova disciplina diventi uno strumento per inventare nuove valutazioni arbitrarie, coi suoi immancabili e reiterati test al seguito. Non si scordi che viviamo il tempo della nuova «Educazione civica» con nota sul libretto, approvata prima dal Parlamento e poi dal popolo votante…