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«La nostra è l’età della ciarlataneria e dell’inganno»

Il testo che segue non è mio. L’ho ripreso da un volumetto che mi aveva regalato uno dei miei Maestri.  Qui, di mio, ci sono solo qualche segno di punteggiatura in più e alcuni termini modificati, per rendere la lettura più scorrevole; e i titoletti, inesistenti nell’originale.

Ho poi messo in rilievo qualche passaggio.

L’attualità di questo articolo è impressionante, soprattutto pensando al contesto www dei tempi nostri e alle riforme scolastiche di questi anni, coi suoi cantieri aperti, i progetti che potrebbero diventare operativi sul breve termine, e agli andazzi politici dell’Occidente globalizzato.

In calce, naturalmente, si trovano tutti i dettagli, compreso il nome dell’autore, quello del Maestro che curò il volume e me lo offrì, la fonte bibliografica e l’anno di pubblicazione.

Mi permetto un consiglio: come in un bel giallo, si ammazza la lettura se si va subito all’ultima pagina per vedere chi è il colpevole, che in questo caso è l’anno di pubblicazione.


Matthew Arnold cita, in qualche parte con consenso, l’affermazione di uno scrittore francese, secondo cui il vantaggio principale dell’educazione sta nella sicurezza che essa dà di non essere ingannati. Un’affermazione più positiva è quella che il beneficio dell’educazione consiste nella capacità che essa conferisce di sceverare, di fare delle distinzioni che penetrano al di sotto della superficie. Può anche darsi che uno non riesca ad afferrare la realtà sotto l’apparenza; ma almeno chi è educato non scambia la seconda con la prima, e sa che c’è una differenza fra suono e significato, fra enfasi e distinzione, fra appariscenza e importanza.

I massmedia e la loro diffusione a buon mercato rendono possibile il controllo delle opinioni

Giudicata con questo criterio l’educazione non è soltanto arretrata, ma è in processo di involuzione. La nostra è l’età della ciarlataneria e dell’inganno; di questi c’è oggi maggior quantità, circolazione più rapida e incessante, e assorbimento più rapido e indiscriminato, che mai in passato. Naturalmente le ragioni dell’attuale trionfo della ciarlataneria nelle cose umane sono piuttosto esterne, non dovute a un’intrinseca corruzione dell’intelletto e del carattere. Fino all’ultima generazione circa, la maggior parte delle persone s’interessavano soprattutto degli affari locali, delle cose e della gente con cui erano a contatto immediato. I loro convincimenti e i loro pensieri si riferivano per lo più a questioni di cui avevano qualche esperienza diretta. Il loro raggio poteva essere ristretto, ma nel suo ambito esse erano avvedute e giudiziose. È certo che, riguardo alle cose più lontane da loro, esse erano altrettanto credule quanto le persone di oggi. Ma queste cose più lontane non rientravano nella loro sfera d’azione. Importava poco cosa ne pensassero, poiché esse, per loro, non erano che materiale per storielle.

La ferrovia, il telegrafo, il telefono e la stampa a basso costo hanno trasformato tutto questo. I trasporti rapidi e le rapide comunicazioni hanno costretto gli uomini a vivere come membri di una società estesa e in gran parte invisibile. La località chiusa in sé è stata invasa e in gran parte distrutta. Gli uomini devono agire in vista di condizioni economiche e politiche lontane da loro e devono avere su queste delle conoscenze su cui fondare le proprie azioni. E poiché le loro conoscenze influenzano la loro condotta, le credenze sono ora qualcosa di più che fantasie e passatempi, ed è cosa di grande rilievo che esse siano giuste. Al tempo stesso alcune persone si sono assunte l’obiettivo di influenzare le opinioni delle masse, poiché è su queste, e non su annose consuetudini, che si fonda la possibilità di dominarle. Se si ha il controllo delle opinioni, si ha in mano, almeno per il momento, la direzione dell’attività sociale. La stampa e la sua diffusione a buon mercato rendono possibile di realizzare questo controllo delle opinioni. Con la nuova curiosità e il nuovo bisogno di conoscenza di cose lontane, da un lato, e con l’interesse a controllarne il soddisfacimento, dall’altro, si annuncia l’era del vaniloquio, dell’inganno sistematico, dei sentimenti e delle credenze alla cieca.

Come si crea una fake new

Carlyle non era un amico della democrazia. Ma un giorno, in un momento di lucidità, egli dichiarò che una volta inventata la stampa la democrazia era inevitabile. La stampa a basso costo rese necessario di chiamare il pubblico a collaborare agli affari del governo e aumentò la popolazione e l’area geografica inclusa in una determinata società politica. Essa trasformò in una realtà la teoria del governo come fondato sul consenso dei governanti. Ma tale trasformazione non dette garanzia della validità della realtà a cui veniva dato il consenso; non garantì, come Walter Lippmann mise in rilievo con tanta giustezza, che la politica a cui si dava il consenso fosse nel fatto quello che era nella forma, che cioè corrispondesse alla realtà della situazione.

La rivoluzione industriale rese necessarie le forme della consultazione della “voce del popolo”. Ma la stampa e la sua diffusione resero anche più facile indurre il popolo a esprimersi forte su questioni irreali, e nascondere i fatti e stornare l’attenzione con la grandezza stessa dello strepito. È ozioso perciò sia attaccare che esaltare la democrazia in generale. Come forma attuale di governo essa non scaturisce da desiderio o opinione personali; essa nacque in virtù di forze esterne, che mutarono le condizioni dei contatti e dei rapporti fra gli uomini. Quel che occorre considerare e sottoporre a critica è la qualità del governo popolare, non il fatto della sua esistenza. La sua qualità è legata inseparabilmente alla qualità delle idee e delle notizie, che sono messe in circolazione e alle quali si presta fede.

Senza dubbio il sistema di propaganda promosso dalla guerra ha avuto molta responsabilità nell’imporci il riconoscimento della funzione dominante, che ha nella direzione sociale il materiale messo in circolazione dalla stampa. La massa e l’organizzazione accurata della propaganda attestano due fatti preminenti: la necessità nuova, da parte dei governi, di catturare l’interesse e i sentimenti del popolo, e la possibilità di suscitare e dirigere un tale interesse mediante una somministrazione di “notizie” sottoposta a vaglio accurato. Ma la voga della propaganda ha più importanza nel richiamare l’attenzione sul fatto fondamentale, che nel determinarlo. Di fronte a una notizia messa in circolazione, che rappresenta un fatto deliberatamente inventato o coscientemente colorito, ve ne sono una dozzina che rappresentano il pregiudizio e l’ignoranza dovuti a pigrizia, a inerzia di abitudini e a preesistenti abiti mentali causati da cattiva educazione.

L’informazione atterra sempre sull’educazione anteriore e più profonda

La psicologia umana è tale che noi attribuiamo a un disegno consapevole e a un proposito deliberato la maggior parte delle cattive conseguenze sulle quali improvvisamente viene richiamata l’attenzione. Questa è una delle ragioni principali del frequente insuccesso dei riformatori. Le cause reali dei mali contro i quali essi combattono sono per solito molto più profonde delle intenzioni consapevoli e dei piani volontari degli individui contro i quali essi rivolgono i loro sforzi. Perciò essi trattano coi sintomi piuttosto che con le forze. Quelli che Lippmann ha chiamato così bene “stereotipi” sono più responsabili della confusione e dell’errore della mentalità del pubblico, che delle notizie deliberatamente inventate e deformate. Coloro i quali sono più intenti a introdurre nel movimento e nella circolazione sociale il materiale che acceca e induce in errore il pubblico, credono essi stessi nella maggior parte della sostanza di ciò che viene propagato; essi condividono la confusione intellettuale e l’ignoranza che propagano. Agendo nella persuasione che il fine giustifica i mezzi, è facile per essi aggiungere il sapore, l’enfasi, l’esagerazione e i suggerimenti che essi stessi ritengono fondamentalmente veri.

In breve, al di qua dell’educazione fornita dalla stampa e dalle notizie c’è quell’educazione anteriore e più profonda che influenza del pari coloro che propalano le notizie e quelli che le accolgono. Siamo così riportati alla nostra affermazione prima. La nostra istruzione scolastica non educa, se per educazione si intende un abito vigile di indagine e di convinzione, penetrato di discernimento, la capacità di guardare al di sotto della fluttuante superficie per scoprire le condizioni che determinano il contorno della superficie stessa e le forze che danno origine alle sue onde e alle sue correnti. Noi inganniamo noi stessi e gli altri, perché non abbiamo quell’interna difesa contro sensazioni, eccitamenti, credulità e opinioni convenzionalmente stereotipate che si trova soltanto in una mente addestrata.

La scuola fa poco per creare un’intelligenza che sa distinguere…

Questo fatto determina la critica fondamentale che va rivolta alla scuola attuale, a quel che passa per un sistema educativo. Essa non soltanto fa poco per creare in una intelligenza che sa distinguere una garanzia contro l’abbandono all’invasione della ciarlataneria, specialmente nella sua forma più pericolosa, quella sociale e politica; ma anzi fa molto per creare lo stato d’animo favorevole al suo accoglimento favorevole. Due sembrano essere le cause principali di tale incapacità. L’una è data dal persistere, nel contenuto dell’insegnamento, di un materiale tradizionale, che non ha rapporto con la situazione attuale, di una materia d’insegnamento che, benché pregevole in un periodo trascorso, è così lontana dalle perplessità e dai problemi della vita presente, che il suo padroneggiamento, anche se abbastanza adeguato, non fornisce possibilità di penetrazione intelligente, né protezione contro gli inganni a cui si espone chi fronteggia le eccezionali circostanze presenti. Dal punto di vista di questo criterio d’istruzione, una gran parte dell’attuale materiale educativo è semplicemente sfocato. Lo specialista di qualsiasi ramo tradizionale corre il rischio di cadere preda della ciarlataneria sociale, anche nelle sue forme estreme della propaganda economica e nazionalistica, allo stesso modo della persona non istruita. E invero la sua credulità è tanto più pericolosa quanto più egli è eloquente e dogmatico nell’affermazione delle sue credenze. Le nostre scuole producono persone che vanno incontro alle esigenze della vita contemporanea serrate nell’armatura dell’antichità e che si vantano della goffaggine dei loro movimenti come di prove di convinzioni frutto di lungo travaglio e vagliate dal tempo.

L’altro modo in cui la scuola favorisce un abito mentale di ingestione indiscriminata, che si presta bene all’inganno, ha un carattere positivo. Esso consiste nell’evitare sistematicamente e quasi deliberatamente lo spirito critico in rapporto alla storia, alla politica e all’economia. Si crede implicitamente che tale esclusione rappresenti la sola maniera di produrre dei buoni cittadini. Quanto più la storia e le istituzioni della propria nazione vengono idealizzate senza discriminazione, tanto più si ritiene probabile che il prodotto della scuola sia un patriota fedele e un buon cittadino, fornito di una solida preparazione. Se il giovane medio potesse essere premunito contro tutte le idee e le notizie sulle questioni sociali, eccettuate quelle ottenute a scuola, esso si affaccerebbe alla responsabilità della partecipazione sociale ignorando completamente che esistano dei problemi sociali, dei mali politici e delle deficienze industriali. Esso andrebbe avanti con l’assoluta fiducia che le strade sono aperte a tutti e che la sola causa degli insuccessi negli affari, nella vita familiare e in quella civile risiede in qualche personale deficienza di carattere. La scuola, anche più del pulpito, è immunizzata contro un franco riconoscimento delle malattie sociali, ciò che è un bel dire. E come il pulpito, essa trova un compenso alla sua ostilità a discutere le difficoltà sociali indugiando sentimentalmente sui vizi individuali.

L’indifferenza al cinismo sempre più diffuso

La conseguenza di tutto questo è che gli studenti vengono immessi nella vita effettiva in una condizione di innocenza acquisita e artificiale. La percezione che essi possono avere della realtà delle lotte e dei problemi sociali l’hanno conseguita per caso, per via facendo, e senza la salvaguardia che deriva da una conoscenza intelligente dei fatti e della discussione condotta imparzialmente. Non fa perciò meraviglia se essi sono maturi per essere ingannati e se il loro atteggiamento è tale che perpetua semplicemente la confusione, l’ignoranza, il pregiudizio, e la credulità esistenti. La reazione contro questa impossibile idealizzazione ingenua delle istituzioni, nel loro aspetto presente, produce indifferenza e cinismo. È stupefacente come coloro che per professione foggiano in senso conservatore l’opinione pubblica si curano così poco del cinismo che attualmente è tanto diffuso tra i più. Essi sono più creduli di quelli che all’apparenza sembra che essi ingannino. Questo atteggiamento di indifferenza e di opposizione è ora passivo e disorganizzato. Ma esso esiste come una conseguenza diretta della delusione causata dal contrasto fra le cose come stanno di fatto e le cose come sono state insegnate loro a scuola. Un avvenimento più o meno accidentale cristallizzerà un giorno, in una forma attiva, l’indifferenza e il malcontento sparsi qua e là; e tutti i baluardi della reazione sociale accuratamente eretti verranno spazzati via. Ma, sfortunatamente, c’è poca probabilità che la reazione contro la reazione sarà più intelligente dello stato precedente delle cose. Anch’essa sarà cieca, credula, fatalista e confusa.

Il compito più nobile della politica: la direzione intelligente delle faccende sociali

Sembra pressoché disperato nominare il rimedio, perché esso consiste solo in una maggiore fiducia dell’intelligenza e nel metodo scientifico. Ma questa parola – “Solo” – indica qualcosa che è infinitamente difficile realizzare. Cosa avverrà se gli insegnanti diverranno abbastanza coraggiosi da insistere che educare significa creare menti che sanno distinguere, che preferiscono non essere ingannate da sé stesse o da altri? È chiaro che essi dovranno coltivare l’abito della sospensione del giudizio, dello scetticismo, del desiderio delle prove; del ricorso all’osservazione piuttosto che al sentimento; della discussione piuttosto che del preconcetto; dell’indagine piuttosto che delle idealizzazioni convenzionali. Quando questo accadrà, le scuole saranno gli avamposti pericolosi di una civiltà umana, ma cominceranno anche a essere luoghi interessanti al massimo. Poiché sarà allora accaduto che l’educazione e la politica si saranno identificate, giacché la politica dovrà essere di fatto quel che ora pretende di essere, la direzione intelligente delle faccende sociali.


Rimando bibliografico

Questo articolo di John Dewey (1859-1952) è tratto dal volume John Dewey e la pedagogia dell’interesse, a cura di Antonio Spadafora, 1979, Bellinzona: Edizioni Casagrande, Collana Paideia – Pubblicazioni della Scuola magistrale di Locarno, p. 128 e sgg.

La copia del testo originale può essere scaricata qui.

Il testo fa parte di una selezione di scritti deweyani che completa il volume. In entrata il curatore aggiunge una precisazione relativa a questi scritti. «In particolare – annota Spadafora – la traduzione (…) di “L’educazione come politica” (“The New Republic”, 4 ottobre 1922) è, per gentile concessione dell’Editore, quella […] di JOHN DEWEY, L’educazione di oggi, trad. it. di L. Borghi, La Nuova Italia, 1950, p. 197 e sgg.»

Quando la diagnosi è impeccabile, mentre la terapia proposta aggrava la malattia

L’editoriale della Revue des deux mondes del 10 luglio 2018, a firma Valérie Toranian, riprende alcuni dati particolarmente sorprendenti di un’inchiesta nazionale denominata Fractures françaises.

«Il 46% dei giovani tra 18 e 35 anni – scrive la Toranian – è del parere che altri sistemi politici siano altrettanto validi della democrazia.»

«I risultati si possono riassumere così: più alti sono il livello di formazione e l’età, meno si mette in dubbio il valore della democrazia. Minore è il livello di formazione, più si appartiene agli svantaggiati e alle categorie popolari, più si relativizza il valore della democrazia».

«L’attaccamento alla democrazia si nutre di conoscenza, riferimenti trasmessi dagli anziani. Senza questo ancoraggio fondamentale si passa dal disinteresse alla politica in generale alla relativizzazione della democrazia stessa», osserva ancora la giornalista. Che fare, dunque? L’articolo propone un sunto delle soluzioni della politica, in particolare quelle del presidente Emmanuel Macron, che il 9 luglio si era rivolto al Parlamento francese riunito a congresso a Versailles (si veda, ad esempio, Congrès de Versailles : Macron théorise un social très libéral, su Libération. Si può trovare qui una copia dell’articolo).

Niente di nuovo sotto il sole, si direbbe scorrendo diversi passaggi del suo discorso: «In Francia si sono insediate le disuguaglianze del destino: a seconda di dove si è nati, della famiglia in cui si è cresciuti, della scuola frequentata, la sorte è assai spesso blindata. Queste disuguaglianze del destino, durante gli ultimi 30 anni, nel nostro paese sono progredite , che lo si voglia vedere o no». (Nel sito dell’Élysée si può leggere il discorso integrale di Macron: Discours du Président de la République devant le Parlement réuni en Congrès à Versailles).

Diffido sempre più delle teorie che vogliono essere sociali e, nel contempo, liberali. Addirittura molto liberali, aggettivo che,  da un po’ di anni in qua, nasconde e si mescola con liberista. Di solito si tratta di un’ammucchiata di contraddizioni: qualche intervento strutturale, tanta meritocrazia per docenti e allievi/studenti; è noto che il merito, come il mercato, sistema quasi naturalmente tante faccende. Per restare a Macron, ma non è il solo: tutti hanno «sa jambe gauche», da esibire sui pulpiti della politica. Una volta, almeno, c’erano i Radicali, ma non si sa dove sono finiti. Forse il compito era troppo complicato.

La morale della favola macronienne sembra persino scontata: la diagnosi è ineccepibile. Selon l’endroit où vous êtes né, la famille dans laquelle vous avez grandi, l’école que vous avez fréquentée, votre sort est le plus souvent scellé. La cura proposta predica l’esatto contrario. In effetti il paragrafo successivo recita:

Et pour moi, c’est cela qui m’obsède, le modèle français de notre siècle. Le réel modèle social de notre pays doit choisir de s’attaquer aux racines profondes des inégalités de destin, celles qui sont décidées avant même notre naissance, qui favorisent insidieusement les uns et défavorisent inexorablement les autres sans que cela se voie, sans que cela s’avoue. Le modèle français que je veux défendre exige que ce ne soient plus la naissance, la chance ou les réseaux qui commandent la situation sociale, mais les talents, l’effort, le mérite.

Splendida ossessione, ma se ne può fare a meno.

Facendo il verso a Flaiano (Ho poche idee, ma confuse), siamo davanti a un mucchio di idee, una più confusa dell’altra. Eppure c’è poco da sfottere Monsieur le Président de la République, perché senza le valutazioni reiterate e imprescindibili – tempo sottratto all’insegnamento, diceva Don Milani – la scuola repubblicana, quindi anche la nostra, non è in grado di assolvere i suoi compiti costituzionali.

Lo diceva già uno dei nostri maestri più importanti, John Dewey, che in Democrazia e educazione, un libro del 1916, scriveva:

Sul piano educativo notiamo […] che la realizzazione di una forma di vita sociale nella quale gli interessi si compenetrano a vicenda, e in cui vivo è il senso del progresso o riadattamento, rende una comunità democratica più interessata di quanto non abbiano ragione di esserlo le altre comunità in un’educazione deliberata e sistematica. La devozione della democrazia all’educazione è un fatto ben noto. La spiegazione superficiale è che un governo che dipende dal suffragio popolare non può prosperare se coloro che eleggono e seguono i loro governanti non sono educati. Poiché una società democratica ripudia il principio dell’autorità esterna, deve trovarle un surrogato nelle disposizioni e nell’interesse volontari; e questi possono essere creati solamente dall’educazione. Ma vi è una spiegazione più profonda. La democrazia è qualcosa di più di una forma di governo. È prima di tutto un tipo di vita associata, di esperienza continuamente comunicata. L’estensione nello spazio del numero di individui che partecipano a un interesse in tal guisa che ognuno deve riferire la sua azione a quella degli altri e considerare l’azione degli altri per dare un motivo e una direzione alla sua equivale all’abbattimento di quelle barriere di classe, di razza e di territorio nazionale che impedivano agli uomini di cogliere il pieno significato della loro attività.

E se la scuola moderna cominciasse finalmente a insegnare?


La citazione di John Dewey (1859-1952) è tratta dalla 4ª ristampa (1972) di Democrazia e educazione, nella traduzione di Enzo Enriques Agnoletti e Paolo Paduano (Prima edizione italiana, 1949, Firenze: La nuova Italia editrice).


L’inchiesta Fractures françaises 2018 può essere scaricata qui.

Al di là dell’aspetto scolastico, educativo e formativo di cui ho parlato, il rapporto contiene un’infinità di altri indicatori sulla percezione della situazione della Francia, sui valori dei francesi, sul loro rapporto col sistema politico e sulla loro percezione dell’Unione europea.

Va da sé che ogni riferimento a fatti, percezioni o circostanze che riguardano paesi europei che non siano la Francia non sono per nulla casuali.

E adesso chissà mai quale scuola verrà?!

Comincio dalla cronaca.

La fase di sperimentazione del progetto «La scuola che verrà», di cui si è parlato per la prima volta nelle ultime settimane di quattro anni fa (La scuola che verrà…), è stato accolto a maggioranza dal Parlamento cantonale lo scorso 12 marzo, dopo un lungo negoziato tra il Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport e i diversi partner interessati.

«Gli esami per la scuola che verrà», ha titolato il Corriere del Ticino del 13 marzo: La riforma del DECS ha superato un primo esame. Dopo un dibattito fiume durato oltre 5 ore, la maggioranza del Gran Consiglio ha detto sì – con 51 voti favorevoli, 19 contrari e 5 astensioni – al credito di 6.7 milioni di franchi per avviare la fase pilota a settembre. A sostenere la sperimentazione sono stati i deputati di PLR, PPD e PS mentre un chiaro no è stato espresso da La Destra e dalla maggioranza della Lega. Sollevato dal via libera parlamentare, il direttore del DECS Manuele Bertoli ha precisato come «questa non è una riforma socialista, ma un progetto che ha quale obiettivo quello di migliorare la scuola dell’obbligo riuscendo a seguire meglio gli allievi nella loro individualità».

Il sostegno dei tre partiti storici – PLR (partito liberale radicale), PPD (partito popolare democratico) e PS (partito socialista) – non è stato ottenuto senza costi: il DECS ha dovuto cedere diverse posizioni, tra le quali quella del mantenimento della soglia minima per l’accesso alla scuola media superiore, vale a dire il liceo e la scuola di commercio.

La festa, per ora, è sospesa

I festeggiamenti per il traguardo raggiunto con tanta fatica sono durati poco, perché i partiti che hanno avversato la sperimentazione hanno annunciato il lancio di un referendum. Ha detto il ministro Manuele Bertoli: «Il referendum è senz’altro legittimo, ma in questo caso è arrivato all’ultimo momento, un po’ tra il lusco e il brusco».

Il Corriere de Ticino del 15 marzo ha chiosato la reazione del direttore del DECS: Questa la reazione a caldo del direttore del DECS Manuele Bertoli, all’indomani della decisione dell’UDC di lanciare un referendum contro l’avvio della sperimentazione de «La scuola che verrà». Una presa di posizione, quella democentrista, annunciata a soli sei mesi dall’inizio della fase di sperimentazione. Fase pilota che, nel caso in cui le 7’000 firme fossero raccolte entro il termine dei 45 giorni previsto, slitterebbe ancora di un anno. E la conferma giunge dallo stesso Bertoli: «È un peccato, già abbiamo subito il rinvio l’anno scorso, e questo sarebbe il secondo stop al progetto. Infatti, in caso di riuscita del referendum, sarebbe troppo tardi per poter partire come previsto a settembre».

Sulla genesi del referendum il direttore del DECS si dice in parte perplesso: «Dal punto di vista procedurale i motivi sono democraticamente corretti, ma dal profilo della trasparenza e della deontologia politica mi permetto di esprimere dei dubbi». Bertoli lancia quindi una frecciatina al fronte contrario al progetto: «Il referendum credo poggi su due questioni. Da un lato la volontà espressa anche onestamente dal presidente dell’UDC di profilarsi, utilizzando la scuola come terreno di scontro eminentemente politico, in vista delle elezioni del prossimo anno. Atteggiamento questo che non è illegittimo, ma semmai indelicato perché la scuola è di tutti, oltre che un’istituzione estremamente delicata e sulla quale avrei preferito che una battaglia non si facesse. La seconda questione invece è più un confronto di visioni. La nostra proposta intende ammodernare la scuola ticinese secondo la tradizione, che è da sempre inclusiva e permette di dare ai docenti la possibilità di seguire uno per uno i ragazzi e all’interno di un contesto unico. Invece la proposta che La Destra aveva portato avanti era quella di una scuola selettiva, dove i bravi vincono mentre gli altri non si sa dove vanno a finire».

Ora resta da capire quale sarà la composizione definitiva del fronte referendario. Certo il sostegno di AreaLiberale e UDF, al riguardo i rappresentanti della Lega al momento preferiscono ancora non sbilanciarsi.

Io non avrei sollecitato il voto del Parlamento confidando nell’appoggio dei tre partiti citati (e tenendo conto delle importanti condizioni poste, nel merito e nella procedura sperimentale).

C’è un filo che unisce la scuola che verrà al voto sull’educazione alla cittadinanza

Non posso scordare, per restare ai temi scolastici, che pochi mesi fa il Ticino era stato chiamato alle urne sull’Educazione alla cittadinanza, per avallare una decisione parlamentare della maggioranza dei parlamentari, poi fatta propria dal popolo (v. Ecco perché non si deve banalizzare l’educazione civica).

Ricordo, per chi ha la memoria corta e/o a geometria variabile, com’era andato il voto in Gran Consiglio:

  • presenti 85
  • favorevoli 70 (La Destra 4, Lega 19, Montagna Viva 1, PLR 16, PPD 17, PS 8, Verdi 5)
  • contrari 9 (MPS-PC 2, PLR 3, PS 4)
  • astenuti 4 (PLR)

Esprimendosi sull’Educazione alla cittadinanza ci si esprimeva anche su una visione della scuola. Già in quell’occasione erano emersi i soliti trasformismi, il più appariscente dei quali è stato, a parer mio, quello del Partito socialista, che è il partito del ministro Manuele Bertoli: in quell’occasione aveva sostenuto il voto contrario durante la campagna in vista del voto popolare, benché in parlamento i contrari erano stati solo 4 (su 12 votanti).

Il voto parlamentare su La scuola che verrà è stato, peraltro, ben più sfumato:

  • 51 favorevoli
  • 19 contrari
  • 5 astenuti
  • 10 non hanno votato, benché presenti

E ora?

Sul Corriere del Ticino del 15 marzo è apparso il commento di un docente (Ivano Fontana, L’UDC, l’insegnamento e il nuovo che avanza, rubrica «L’opinione»), che così esordisce:

Non so se il giovane d’anni e già vecchio presidente dell’UDC cantonale ha frequentato la scuola media, quasi sicuramente sì. Probabilmente era già la scuola che aveva abbassato il livello di istruzione (a volte, scherzando con amici – anche loro già insegnanti – veniamo a dire che se la scuola pubblica, media e liceo, fosse stata più rigorosa e quindi meno generosa, certi giovani e non più giovani… leoni della politica ticinese non sarebbero lì dove sono, con grande guadagno per loro stessi e per chi deve sopportarli, soprattutto per chi deve sopportarli).

A questo punto – benché le 7’000 firme per la riuscita del referendum non siano ancora state raccolte – possiamo chiederci davvero come sarà la scuola che verrà, quella del futuro prossimo, perché chi ha promosso il referendum non si limita a chiedere lo statu quo, e nemmeno un semplice miglioramento della scuola pubblica e obbligatoria di questi anni.

L’idea è invece un’altra, punta alla selezione precoce delle future élite – poi, dall’élite in giù, ci si può immaginare la possibile scala gerarchica. Se ciò succedesse ci allontaneremmo ancor più dal modello virtuoso delle scuole dell’Europa settentrionale (v. Qual è il segreto della scuola finlandese?) e rischieremmo di avvicinarci a taluni sistemi scolastici asiatici, noti per le procedure “scientifiche” di selezione dei quadri, ma anche per gli elevati tassi di suicidio tra i giovani.

Stefano Franscini (1796-1857), che «Nel Ticino si adoperò senza tregua per la promozione della scuola, “elemento principalissimo dell’incivilimento nazionale”, fondando, tra l’altro, la Società degli amici dell’educazione del popolo» (Dizionario storico della Svizzera).

A quel punto qualcuno dovrà pur assumersi le responsabilità del disastro civico e culturale.

Personalmente avrei scelto la prima Scuola che verrà, quella del 2014, senza livelli e senza soglie per l’accesso alla formazione terziaria attraverso la scuola medio-superiore.

Chi ha scacciato l’Esprit de Locarno?

L’articolo sottostante è apparso sul Corriere del Ticino di martedì 6 febbraio, nella rubrica L’Opinione, col titolo «Locarno senza la bandiera europea». Vi sono naturalmente dei risvolti educativi, in questa vicenda sconfortante, che è però figlia dei tempi irresponsabili che stiamo vivendo.

A tanti politici locali piace evocare l’ Esprit de Locarno nei momenti topici. In quel 1925 il sindaco di Locarno sedeva tra i grandi dell’Europa del primo dopoguerra, con Austen Chamberlain, Gustav Stresemann, Aristide Briand e altri politici provenienti dal Belgio, dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia e dall’Italia.

La soppressione di un atto simbolico – l’esposizione della bandiera europea per la festa dell’Europa – non è educativamente neutra. Invece mette in risalto l’ipocrita autarchia di maniera di tanti ticinesi e svizzeri, che naturalmente non si spinge fino all’auto-isolamento in materia economica.

Scandalizzano i tempi e la circospezione, nonché l’indifferenza dei più, dopo che la notizia è venuta a galla. A ciò si aggiunga che, con buona probabilità, gli autori di questa meschinità e tanti loro ammiratori avevano sostenuto la «nuova» educazione civica come disciplina a sé stante nella scuola ticinese e si erano spellati le mani per applaudire l’obbligo di insegnare il Salmo svizzero: come diceva quello là, A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.


Locarno senza la bandiera europea

Da quest’anno la Città di Locarno non esporrà più la bandiera europea per la festa dell’Europa. Ne ha dato notizia questo giornale nella sua edizione di lunedì scorso. La decisione è stata presa a maggioranza dal municipio cittadino, che ha modificato l’ordinanza concernente il protocollo. Ha scritto il Corriere: «Ma quali sono i motivi che hanno portato il Municipio a questa decisione? Forse che Locarno si senta meno europea di un tempo? Impossibile ricevere una risposta. Anche perché l’Esecutivo, sebbene la modifica sia stata pubblicata in questi giorni, ne aveva discusso – adottando una specifica risoluzione – due anni fa». Perché tutto questo riserbo e tanto ritardo nell’informazione? Non si sa.

Lo stesso giorno della notizia Jacques Ducry, deputato di area progressista e presidente del Movimento Svizzera-Europa, ha reagito col dovuto sarcasmo su LiberaTV.ch, il portale diretto da Marco Bazzi: «È una decisione triste, molto triste, per una città che ha ospitato la conferenza sulla pace negli anni ’20… Una città che organizza ogni anno il Festival internazionale del Film, ricevendo crediti e personalità da tutta Europa e non solo. Una città turistica, aperta. Sono stupefatto da questa piccineria da parte del Municipio di Locarno. (…) Se non ci fossero l’Europa e gli europei Locarno sarebbe ancora un villaggio di pescivendoli!».

Dal medesimo portale è giunta la dichiarazione del municipale leghista Bruno Buzzini: «Ho portato io questa proposta – afferma – e alcuni colleghi l’hanno condivisa. Da convinto anti-europeista, ero e rimango contrario all’esposizione della bandiera sugli edifici pubblici. I motivi sono diversi: la Svizzera è ancora discriminata, essendo nella black list fiscale dell’UE, per esempio. Ma ci sono anche i mai risolti problemi di mancata reciprocità con l’Italia, con gli accordi che continuano a slittare…». Patapunfete, perché i motivi citati da Buzzini c’entrano come i famosi cavoli a merenda, dal momento che la Festa dell’Europa, di cui si parlava nella vecchia ordinanza sul protocollo, è per la Giornata del Consiglio d’Europa, organizzazione internazionale che promuove la democrazia, i diritti umani, l’identità culturale europea e la ricerca di soluzioni ai problemi sociali in Europa: Consiglio al quale la Svizzera ha aderito sin al 1963.

Resta il fatto che per raggiungere la maggioranza, al municipale leghista se ne devono essere aggiunti almeno altri tre. Certo, la collegialità merita grande rispetto. Ma non vorrei essere nei panni del sindaco di Locarno quando, come da consolidata tradizione, interverrà ufficialmente all’apertura della 71ª edizione di Locarno Festival – edizione che, per uno scherzo del destino, aprirà il sipario il giorno della Festa nazionale. Come ha evidenziato Ducry, «Gli argomenti di Buzzini sono dunque completamente strampalati! Un po’ di cultura non guasterebbe per un municipale della città della cultura».

Cos’altro aggiungere al fragoroso silenzio dei politici locarnesi (e della stampa)?

Sono cittadino di Locarno (Europa)

La dittatura dei voti a scuola, mentre lei si pavoneggia

Alla scuola piace pavoneggiarsi per quel suo essere sempre al passo coi tempi, un eterno cantiere aperto, attento alle novità, capace di predire i bisogni educativi del futuro, pronta a cavalcare la robotica e ogni altra magia della modernità. Eppure, a ben guardare, la scuola, al di là di tanti cicalecci, è una delle poche istituzioni pubbliche capace di riprodursi nei decenni sempre simile a sé stessa. Ogni tanto arrivano le riforme epocali – aggettivo usato da politici e addetti ai lavori, solitamente dopo estenuanti negoziati che, di solito, disegnano un maquillage imponente per enfatizzare i cambiamenti e nascondere tutto quel che resterà uguale a prima. Prendiamo il progetto «La scuola che verrà». Lanciato a fine 2014 ha incontrato da subito una frotta di fuochi di sbarramento. Per dire: «È l’ennesimo abbassamento della selettività della scuola. L’abolizione dei livelli porterà ad ulteriori difficoltà nel momento del passaggio nel mondo del lavoro». Oppure: «Ritengo fondamentale ristabilire la meritocrazia, cosa però difficilmente raggiungibile con la soppressione di valutazioni e licenze».

Se il parlamento darà il suo accordo – ma conosciamo gli abbracci malefici che si palesano quasi sempre tra i se e i ma – potrebbe partire sul breve termine la sperimentazione in alcune sedi della scuola dell’obbligo. Detto per inciso, gli istituti in questione non sono particolarmente rappresentativi sul piano scientifico: transeat. L’attuale «Scuola che verrà» non è più la versione originale, pur avendone mantenuto le fattezze iniziali. Il guaio è che il dogma della selettività non appartiene solo agli imprenditori di successo o ai liberisti d’assalto, quelli per i quali il mercato sistema ogni cosa. È sufficiente uno sguardo anche appena disincantato per vedere come tanti insegnanti siano loro compagni di barricata. Fatto sta che l’assioma della nota scolastica resiste alla globalizzazione, al web e a tutti i cambiamenti paradigmatici dell’ultimo mezzo secolo. Senza test e voti non ce n’è né per le scuole che vorrebbero venire, né per l’educazione alla cittadinanza, che rischia di nascere come materia a sé stante, soprattutto grazie alla nota.

È quasi comico, questo amore sviscerato per le valutazioni scolastiche, sintetizzate in un numero, cioè un indicatore che vorrebbe sembrare scientifico, benché sia soggettivo ed evanescente. Ivan Illich, il grande filosofo descolarizzatore, osservava che «Quasi tutto ciò che sappiamo lo abbiamo imparato fuori della scuola. Gli allievi apprendono la maggior parte delle loro nozioni senza, e spesso malgrado, gli insegnanti. Ma il tragico è che i più assorbono la lezione della scuola anche se a scuola non mettono mai piede. È fuori della scuola che ognuno impara a vivere. Si impara a parlare, a pensare, ad amare, a sentire, a giocare, a bestemmiare, a far politica e a lavorare, senza l’intervento di un insegnante. Non fanno eccezione a questa regola neanche quei bambini che sono soggetti giorno e notte alla tutela di un maestro». Infatti, se uno ci pensa, le cose fondamentali la scuola non le valuta, le discipline più importanti non figurano nel libretto scolastico. Come si misurano il senso dello stato, l’etica individuale, la capacità di ascoltare le idee altrui, la forza illuminista di lottare per la libertà, almeno quella delle idee?