La Rivista, mensile illustrato del Locarnese e valli, ha pubblicato una toccante intervista a Dario Catti, un ragazzo affetto da distrofia muscolare (N° 11/2016). Nato nel 1995, Dario ha frequentato per due anni la scuola dell’infanzia di Locarno. Nel 2001/02 iniziò la 1ª elementare alla scuola pratica annessa alla Scuola magistrale cantonale, con la maestra Silvana Fiori. Alla fine di quell’anno scolastico la Scuola magistrale, nel frattempo diventata Alta Scuola Pedagogica, rinunciò alla scuola pratica e la chiuse, così che allievi e docenti confluirono nelle Scuole comunali di Locarno.
Dario continuò la sua avventura nella scuola elementare alla sede dei Saleggi, in 2ª ancora con la maestra Fiori, per poi frequentare il II ciclo nella classe del maestro Angelo Morinini. Ricordo con tanto piacere quell’esperienza, perché la scuola fece il possibile per agevolarlo, facilitandone gli spostamenti, dal momento che la malattia avanzava rapida e inesorabile. I maestri, dal canto loro, lo accolsero con grande sensibilità, senza mai trattarlo con pietismo, ma pretendendo ciò che lui poteva e doveva dare.
Ho il ricordo incancellabile del giorno in cui, il 9 giugno 2006, fu festeggiato assieme ai suoi compagni nella corte interna del Castello visconteo. Al momento della consegna delle licenze di scuola elementare, iniziai proprio da lui. «Siete più di cento – dissi, rivolgendomi agli allievi e al pubblico che li applaudiva – per cui ci vorrà un po’ di tempo. Non c’è un ordine preciso per chiamarvi, né alfabetico né – ci mancherebbe – basato su altre classifiche. Ma, stavolta, voglio fare un’eccezione e cominciare con un allievo al quale la vita ha voluto mettere qualche ostacolo in più, ma che comunque ha dimostrato di saperci fare, malgrado le difficoltà: Dario Catti».
Naturalmente non voglio qui vantare meriti che non ho. Mi ero limitato a far sì che non si alzassero ostacoli oltre a quelli che già c’erano. Dario era un ragazzo in gamba, sostenuto da una famiglia che non ha mai preteso la luna, ma solo il rispetto verso un figlio svantaggiato, certo, ma senza inadeguatezze che avrebbero potuto suggerire machiavelliche esclusioni (scolastiche). I maestri che hanno avuto a che fare con lui erano bene in chiaro sul ruolo della scuola pubblica e obbligatoria, e operarono coerentemente: con rigore e sensibilità, senza nessun pietismo manierato.
Naturalmente si potrebbe dire che questo tipo di accoglienza dovrebbe valere per tutti i bambini e i ragazzi che sono obbligati a frequentare le nostre scuole. Ma, senza i buonismi tanto di moda, bisogna pur dire che, ogni tanto, l’inclusione deve fare i suoi conti mettendo a confronto i sogni con la realtà (si veda «L’inclusione tra sogni e realtà», un testo di due anni fa, che mi sembra ancora molto attuale).
È da qualche giorno in libreria il volume «Un’etica per la scuola. Verso un codice deontologico dell’insegnante». Edito dall’editore Carocci di Roma e curato da Marcello Ostinelli e Michele Mainardi, il volume raccoglie e riordina gli interventi dell’omonimo convegno di studio del 25 novembre 2015 (qui il programma, di cui avevo pure parlato in un articolo pubblicato sul Corriere del Ticino del 15 dicembre 2015: Un’etica per la scuola e una deontologia per gli insegnanti).
«Il volume offre un’approfondita riflessione sui principi, sui valori e sulle norme di un codice di condotta professionale dell’insegnante; ne discute la legittimità entro le mura della scuola pubblica democratica e l’opportunità nel contesto della società contemporanea. Dai diversi autori emerge la comune convinzione che la definizione di un’etica della professione e l’adozione di un codice di condotta costituiscono due tappe essenziali del processo di professionalizzazione dell’insegnamento. In appendice è pubblicata una Proposta di codice deontologico redatta da Eirick Prairat che, assieme agli altri contributi del testo, rappresenta un’occasione importante per aprire un dibattito pubblico sull’etica e sulla deontologia dell’insegnante, sulla sua identità professionale e più in generale sui principi e sui valori della scuola pubblica nella società contemporanea».
Dopo l’introduzione dei curatori, la prima parte presenta alcuni studi sul tema: L’idea deontologica, di Eirick Prairat; Il codice di condotta dell’insegnante tra valori interni e valori esterni alla professione, di Marcello Ostinelli; I cardini e le finalità del codice deontologico degli insegnanti, di Silvano Tagliagambe.
La seconda è dedicata a una serie di interventi: Scuola e identità docente: fra assunti etici individuali e collettivi, di Michele Mainardi; Sul codice deontologico degli insegnanti, di Fabio Merlini; La contestualizzazione del codice deontologico nella pratica educativa, di Giorgio Ostinelli; Per un codice deontologico del sistema scolastico, di Adolfo Tomasini.
Il volume si chiude con un’appendice: Proposta di codice deontologico, di Eirick Prairat.
MARCELLO OSTINELLI, MICHELE MAINARDI (a cura di), Un’etica per la scuola. Verso un codice deontologico dell’insegnante, 2016, Roma: Carocci editore, pagine 120, ISBN 9788843085040, 13 €
Faccio fatica a capire se la scuola di oggi sia (ancora?) capace di uscire dalle sue quattro mura per occuparsi dei temi più sensibili che interrogano l’Occidente e la comunità in cui viviamo, affinché la sua opera di mediazione culturale e pedagogica continui a difendere e marcare il suo primato politico, quasi la sua ragion d’essere: scuola pubblica e obbligatoria, scuola dello Stato per educare cittadini informati, interessati alla res pubblica, capaci di orientarsi in una società difficile e variegata, in grado, nel contempo, di non lasciarsi deprimere e di non gettare la spugna, accogliendo col sorriso il canto facile delle sirene ammaliatrici, le moderne vestali che invitano al Panem et circenses, che proprio di questi tempi sembra godere di una nuova età dell’oro.
A volte si ha l’impressione che, oltre gli enunciati di principio e i piani di studio così ben dettagliati, spiegati e strutturati, nelle aule scolastiche si fatichi a tenere la barra al centro, perdendosi in innumerevoli gabbie didattiche che se ne vanno per conto loro, inseguendo risultati e rendimenti che servono proficuamente al lavoro di selezione economica e sociale, ma si allontanano in maniera surrettizia dalle vere finalità dell’essere a scuola, quella pubblica (e, per qualche anno, pure obbligatoria).
Ne ho parlato più volte, negli ultimi mesi. Oggi voglio segnalare due libri tanto vicini ai miei amori pedagogici e alle inquietudini che mi accompagnano.
Il primo è fresco di stampa, in libreria dall’estate scorsa. È di Philippe Meirieu, un autore che si incontrata spesso nel mio blog. Potrebbe sembrare il solito instant book, messo lì per accalappiare un po’ di gonzi. Ma non è così. Dopo «L’École ou la guerre civile», scritto in tempi insospettabili (1997) col giornalista Marc Guiraud, ecco ora «Éduquer après les attentats».
Leggo nella scheda di presentazione: I terribili attentati del 2015 e del 2016 hanno scosso profondamente il nostro paese – anche il mio, a dirla sinceramente. Gli insegnanti sono ampiamente sguarniti a questo livello, si pongono un insieme di “domande vitali”: cosa fare, giorno dopo giorno, per permettere a tutti i nostri ragazzi di scoprire l’importanza del rispetto dell’altro, della fraternità e della costruzione del bene comune? Quali ideali offrire a chi, non potendo accedere a un impiego e al consumo, vede nell’integralismo religioso l’unica maniera di darsi un’identità?
Attraverso venti capitoli molto chiari, fondati su situazioni reali, Philippe Meirieu si sforza di rispondere a queste domande: senza imposture, né peli sulla lingua. Il volume – conclude la presentazione – è rivolto a insegnanti e educatori, e a tutti coloro che vogliono una democrazia in cui ognuno abbia il suo posto… e dove non esistano più tentazioni stimolate dalla violenza più barbara.
Le quasi 250 pagine del libro, appassionanti e appassionate, mantengono le premesse: fossi stato ancora un insegnante ne sarei rimasto stregato.
E vengo all’altro volume, pubblicato nel 2012. Stavolta si tratta di un libro illustrato per ragazzi, tradotto e pubblicato in italiano dall’editore Junior nel 2013. Il testo è nuovamente di Philippe Meirieu, le illustrazioni sono di Pef. Si intitola «Korczak, Perché vivano i bambini» e racconta la storia di Janusz Korczak, pedagogo, scrittore e medico polacco, nato a Varsavia nel 1878, morto nel campo di sterminio di Treblinka il 6 agosto 1942. Di Korczak avevo già scritto nel settantesimo della sua morte (A settant’anni dalla morte di Korczak a Treblinka).
È un libro bello da guardare e intenso da leggere, con una struttura originale. Nella prima parte c’è il racconto della sua avventura umana e intellettuale, dalla fine dell’800, quando si chiama ancora Henryk Goldszmit e, nella Polonia occupata dall’armata russa, diventa insegnante dei bambini che vivono nei quartieri più discosti e disagiati; fino al drammatico epilogo in uno dei più importanti centri di sterminio del regime nazista, dove seguì i centonovantadue bambini, ospiti della “Casa degli orfani”, da lui fondata nel ghetto ebraico di Varsavia, e i dieci adulti che lavoravano con lui.
Accanto al racconto, scritto con linguaggio chiaro e accessibile, ma non banale né scioccamente moralista, scorrono le immagini di Pef e alcune riflessioni di Janusz Korczak. Le ultime pagine del libro – introdotte dal titolo Korczak, l’amico dei bambini – propongono alcuni dati essenziali della sua vicenda intellettuale e umana: le date della sua vita, il suo impegno per affermare i diritti del bambino, l’antisemitismo e la Shoah, alcuni significativi estratti dalla sua opera Re Matteuccio I, il Re bambino (Król Maciuś Pierwszy, 1922), assieme ad alcune immagini documentarie.
È un libro avvincente, che offre tanti spunti anche sui temi affrontati in «Éduquer après les attentats», un libro per ogni persona che si occupa di educazione.
PHILIPPE MEIRIEU, Éduquer après les attentats, 2016: Paris, ESF éditeur
PHILIPPE MEIRIEU et PEF, Korczak, pour que vivent les enfants, 2012: Rue du Monde éditeur; traduzione italiana: Korczak. Perché vivano i bambini, 2013: Bergamo, edizioni Junior (ISBN 978-88-8434-526-4, 56 pagine)
L’immagine che apre questo articolo e le altre citazioni illustrate sono tratte da Korczak, pour que vivent les enfants.
Toh, chi si rivede!? Sergio Morisoli, con Paolo Pamini, ha presentato un’iniziativa parlamentare intitolata «La scuola che vogliamo: realista». Scopo dichiarato: riformare l’attuale Legge della scuola. In un riassunto per chi è di fretta si elencano ventotto principi fondatori di una scuola di destra: se ne sentiva la mancanza. Da dritta a manca è tutto un tratteggiare scuole che verranno. Manuele Bertoli, socialista e direttore del dipartimento dell’educazione, ha già detto la sua, sollecitato dal Corriere. A domanda «Quali le misure problematiche o molto problematiche?», ha risposto con inusuale prudenza, affidando una risposta più articolata al normale percorso degli atti parlamentari.
Ma qualcosa ha detto. Ad esempio che «Il finanziamento delle scuole private, anche parziale, è senza dubbio problematico», anche «perché il popolo ha detto molto chiaramente la sua nel 2001». Oddio, sono passati tre lustri, che, di questi tempi febbrili e smemorati, è quasi un’era geologica. Avevo subito avuto l’impressione che la grande fiducia ottenuta quell’anno dalla nostra scuola fosse stata dilapidata nel breve tempo della vita effimera di una farfalla. In questa rubrica avevo pubblicato un articolo nel febbraio del 2002 – «Che ne è stato del 18 febbraio?» – in cui evocavo, tra tante persone e cose, la lettera di uno studente liceale che segnalava una riforma in corso, «che sfavorisce il settore umanistico, aumenta la selezione» e tende «a sottomettere la formazione agli interessi del mercato». Naturalmente la scuola realista sognata da questa destra non è la stessa di quella che la sinistra dice che ci sia già, almeno in parte, o vorrebbe che ci fosse, migliorata. Nei quasi trenta enunciati, che si configurano come «le maggiori novità della proposta», si leggono asserzioni non sempre fresche di pensata: una scuola pubblica anche un po’ privata; civica obbligatoria e religione a doppio binario; mantenimento della valutazione con i voti; difesa di un percorso selettivo a livelli; e via conservando.
Non mancano neanche le idee innovative, come la decentralizzazione del potere scolastico dal dipartimento agli istituiti scolastici: d’accordo, ma a condizione che resti il primato della Scuola pubblica e obbligatoria, un’istituzione al servizio dello Stato, come l’esercito o la giustizia. Delle sparate liberiste, secondo cui il mercato risolve tutto, ne abbiamo piene le tasche. Infatti la sensazione che si prova leggendo il corposo documento della destra nostrana è che si voglia realizzare un sistema scolastico che non faccia perdere tempo: è chiaro a tutti che chi nasce nella famiglia giusta avrà tante probabilità di riuscire bene a scuola e di proseguire il suo cammino verso la ricchezza e il potere, senza troppi affanni. Perché, allora, perdere soldi e tempo a causa della menata delle pari opportunità? Quel febbraio del 2001, quando il Ticino si scoprì convinto difensore dell’istituzione «Scuola», sembra lontano. Ora siamo ad HarmoS, coi suoi piani di studio, le competenze e un gran brulicare di attività convulse. Poi si riprenderà il filo della scuola che verrà, e sarà curioso capire fino a che punto il paese saprà resistere alle sirene liberiste: che non sono nuove, perché di veramente nuovo, sotto il sole della scuola, c’è poco o nulla. Altre istituzioni – l’esercito, la giustizia, addirittura le chiese – nell’ultimo mezzo secolo son cambiate di più.
P. S.: Il domenicale Il Caffè del 25 settembre aveva dedicato un ampio servizio alla proposta di Morisoli e Pamini: La scuola-azienda finisce dietro la lavagna. In quell’ambito era pure apparsa una breve intervista a me (L’intervista/2: “La formazione umanistica fa capire le trasformazioni”).
Un amico e collega mi aveva mandato un breve messaggio: «Secondo me a queste domande va dato più spazio per le risposte, per l’approfondimento, altrimenti chi ti conosce condivide perché sa cosa c’è dietro, gli altri non sono sicuro che colgano il senso». Sono naturalmente d’accordo, è il rischio delle interviste telefoniche, improvvise e incontrollabili. In questo senso l’articolo sul Corriere del Ticino di oggi può fare un po’ di chiarezza.
Tra l’altro avevo chiosato questo problema in occasione di un’altra breve intervista dello stesso settimanale: si veda il postL’inclusione non esclude di per sé la selezione, del 30 marzo scorso.
L’ultima settimana di questo settembre spettacolare sono tornato a Berlino, dov’ero già stato cinque anni fa (Berlino, le scolaresche e la guerra fredda), accolto da un clima meteorologico e culturale particolarmente caloroso e disponibile. Ero appena arrivato, domenica sera, quando ho letto i risultati delle votazioni federali e cantonali di quel 25 settembre.
La Svizzera è sempre stata prudente, diciamo così, anche se dopo Fukushima si era creata anche qui una reazione di pancia favorevole all’uscita fulminea dal nucleare. Faccio fatica a capire la coerenza tra il no all’inziativa verde e l’abbandono in fretta e furia del nucleare.
Sempre in tema di coerenza, quella sera a Berlino ho preso atto del no all’iniziativa cantonale «Basta con il dumping salariale in Ticino!» e del sì, pesante e aggressivo, a quell’altra iniziativa, «Prima i nostri!», accolta dal 58% dei votanti.
Prima i nostri, la grande buggerata. Fulvio Pelli, un politico che di solito mi fa andare la luna di traverso, ha pubblicato su Opinione liberale una riflessione interessante, che condivido, al di là delle sue posizioni sugli oggetti in votazione: Tra sondaggi e illusioni: come usare male la democrazia diretta. Ho spesso l’impressione, soprattutto in questi ultimi anni, che certe campagne politiche trasformate in votazioni popolari – ah, la famosa democrazia diretta della Confederazione svizzera – non mirino necessariamente a risolvere problemi concreti. Invece ho di frequente la sgradevole sensazione che i promotori siano coscienti di spararla grossa, ma vogliono far vedere chi comanda e creare un po’ di scompiglio.
Come detto ero a Berlino quando ho letto queste notizie, in particolare quest’ultima. Ho creduto che Prima i nostri non sarebbe stata accolta. Invece è stato eretto un altro muro, dopo i tanti del passato recente. A Berlino di muri se ne intendono: nel 1961 mezza città si era svegliata un mattino circondata da mura. Sappiamo chi eresse la barriera e perché, ed è noto com’è andata a finire.
Quanto ai nostri che devono avere la precedenza sugli altri è difficile darne una definizione convincente. Un po’ di tempo fa ero stato fermato in Piazza Grande da un raccoglitore di firme per l’iniziativa, proprio quella lì. Non so se quel tipo, nato e cresciuto nel meridione italiano prima di emigrare tra i nostri, sia nel frattempo diventato svizzero. Gli chiesi se non si vergognava, ma restò lì impalato, neanche mi fossi espresso in uno stretto Schwitzertütsch con accento bernese.
Al domenicale della Lega dei ticinesi piace sbeffeggiare gli stranieri residenti che osano dire forte e chiaro la propria opinione, calcando sul fatto che costoro non sono patrizi di Corticiasca, per dire che non sono svizzeri e ticinesi a Denominazione di Origine Controllata, e come minimo dal XIX secolo.
Parrebbe che per essere nostri basti avere quello che, in altri tempi, era l’aristocraticissimo passaporto rossocrociato. Ha scritto Peter Bichsel:
Durante il mio soggiorno berlinese mi accadeva spesso di passare il posto di frontiera tra Berlino ovest e Berlino est. E lì si prova quella sensazione che sempre si vorrebbe riuscire a provare ad altri confini: la sensazione di arrivare in un altro mondo; si prova paura, si va verso l’ignoto.
Notai che a quel posto di frontiera vedevo sempre molti svizzeri. Non rivolgevo loro la parola, e loro non parlavano, eppure io sapevo che erano svizzeri. Da che cosa li riconoscevo? All’inizio non ne ero consapevole. Era semplicemente ovvio. Comunque, le altre nazionalità si distinguevano molto meno chiaramente. Una volta cercai di capire con precisione da che cosa li riconoscevo, ed ebbi modo di verificare su me stesso l’esattezza della mia osservazione.
I rappresentanti di altre nazionalità tiravano fuori il loro passaporto soltanto davanti al funzionario, oppure lo tenevano in mano in qualche modo, senza dar nell’occhio; gli svizzeri lo tenevano in mano ben visibile, il loro passaporto rosso con la croce bianca. Esso è chiamato a proteggerli, e il fatto che sono svizzeri deve scongiurare ogni pericolo, deve fruttar loro certi vantaggi; persino qui, davanti ai funzionari della Volkspolizei tedesco-orientale, che non li considerano amici. Sono svizzero. E questo, dunque, significa qualcosa di più che la semplice risposta alla domanda: «Lei, di che nazione è?».
L’altro deve riconoscervi subito qualificazioni personali, come nella risposta: «Faccio atletica leggera», oppure: «Sono un pugile», oppure: «Sono un fisico».
[PETER BICHSEL, Des Schweizers Schweiz, 1969; La Svizzera dello svizzero, 1970, trad it. di Enrico Filippini, Bellinzona: Casagrande, 1977].
Parrebbe, insomma, che per i moderni cani da guardia della svizzerità sia sufficiente tenere in saccoccia il passaporto rossocrociato, o almeno la più modesta carta d’identità, anche se, a quasi cinquant’anni dai tempi narrati dallo scrittore lucernese, non è più così certo che il libricino filigranato possa proteggere a scrocco, neanche fosse un assioma.
Ho sempre avuto la convinzione che il passaporto non è un vaccino contro l’imbecillità: che si può prevenire, ma una volta contratta è difficile da curare. Da quando la scuola dell’obbligo ha quasi del tutto dimissionato dal ruolo che il Paese le aveva assegnato già nell’800, ribadito l’ultima volta ventisei anni fa, il compito di promuovere lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società è stato assunto da tutti e da nessuno, un po’ a casaccio. Così certe precise finalità della Scuola sono in balia di movimenti, lobby e gruppi d’interesse, non necessariamente nostri e condivisi.
In altri anni la Svizzera ha conosciuto James Schwarzenbach, un politico noto per le sue campagne contro l’inforestieramento (la barca è piena!), sfociate in diverse votazioni popolari. Nel 1970, quando votò il 75% della popolazione, la sua prima proposta fu bocciata, seppur di misura.
Nel 1977 vi fu l’ultima chiamata alle urne da parte di Schwarzenbach: si voleva introdurre un limite del 12.5% della popolazione straniera a livello nazionale. L’idea fu respinta dal 70.5% dei votanti. Quell’anno insegnavo in una 5ª elementare. Ne parlai con i miei allievi, mi piaceva stuzzicarli su tematiche di cui si discuteva. E mi piaceva provocarli, insinuare dubbi, invitarli a diffidare delle soluzioni sicure e definitive, benché in classe atterrassero facilmente le sparate decollate al riparo delle mura domestiche. Quella volta mi fece sorridere un ragazzo, uno in gamba, che, tutto convinto, dichiarò che, potendo, avrebbe votato a destra, per la limitazione degli stranieri: sebbene, a parte l’età, fosse italiano.
[So che legge le mie Cose di scuola e forse si riconoscerà. Sono certo che, sorridendo, mi manderà a quel paese, perché oggi è cambiato, magari anche grazie a quei miei arrembaggi alle sue certezze infantili].
O tempora, o mores, insomma. Chissà se nelle classi ticinesi, in queste settimane, si sarà parlato di economia verde, di dumping salariale e, naturalmente, dei nostri che devono arrivare prima di tutti gli altri? E, già che ci siamo, chissà se si è almeno tentato di spiegare che la democrazia non può essere ridotta alla contabilità dei sì e dei no? Non è che se io la penso diversamente dalla vox populi – che è notoriamente considerata anche vox Dei, almeno da chi ha una Weltanschauung poco o punto laica – sarò per forza un eretico. Anche Galileo, per citarne uno non proprio a caso… ricordate?
Fulvio Pelli ha giustamente osservato che «lo sforzo di capire non è esente da rischi. Vantaggi e svantaggi delle soluzioni proposte sono tutt’altro che facili da individuare e chi cerca di convincere della bontà del sì o del no, non necessariamente la racconta giusta».
Appunto.
Il blog di Adolfo Tomasini, dove si parla di educazione e di scuola