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Per capire e (ri)conoscere la barbarie

Agosto 1942: arrivo a Treblinka
Agosto 1942: arrivo a Treblinka

Faccio fatica a capire se la scuola di oggi sia (ancora?) capace di uscire dalle sue quattro mura per occuparsi dei temi più sensibili che interrogano l’Occidente e la comunità in cui viviamo, affinché la sua opera di mediazione culturale e pedagogica continui a difendere e marcare il suo primato politico, quasi la sua ragion d’essere: scuola pubblica e obbligatoria, scuola dello Stato per educare cittadini informati, interessati alla res pubblica, capaci di orientarsi in una società difficile e variegata, in grado, nel contempo, di non lasciarsi deprimere e di non gettare la spugna, accogliendo col sorriso il canto facile delle sirene ammaliatrici, le moderne vestali che invitano al Panem et circenses, che proprio di questi tempi sembra godere di una nuova età dell’oro.

A volte si ha l’impressione che, oltre gli enunciati di principio e i piani di studio così ben dettagliati, spiegati e strutturati, nelle aule scolastiche si fatichi a tenere la barra al centro, perdendosi in innumerevoli gabbie didattiche che se ne vanno per conto loro, inseguendo risultati e rendimenti che servono proficuamente al lavoro di selezione economica e sociale, ma si allontanano in maniera surrettizia dalle vere finalità dell’essere a scuola, quella pubblica (e, per qualche anno, pure obbligatoria).

Ne ho parlato più volte, negli ultimi mesi. Oggi voglio segnalare due libri tanto vicini ai miei amori pedagogici e alle inquietudini che mi accompagnano.

eduquer-apres-les-attentatsIl primo è fresco di stampa, in libreria dall’estate scorsa. È di Philippe Meirieu, un autore che si incontrata spesso nel mio blog. Potrebbe sembrare il solito instant book, messo lì per accalappiare un po’ di gonzi. Ma non è così. Dopo «L’École ou la guerre civile», scritto in tempi insospettabili (1997) col giornalista Marc Guiraud, ecco ora «Éduquer après les attentats».

Leggo nella scheda di presentazione: I terribili attentati del 2015 e del 2016 hanno scosso profondamente il nostro paese – anche il mio, a dirla sinceramente. Gli insegnanti sono ampiamente sguarniti a questo livello, si pongono un insieme di “domande vitali”: cosa fare, giorno dopo giorno, per permettere a tutti i nostri ragazzi di scoprire l’importanza del rispetto dell’altro, della fraternità e della costruzione del bene comune? Quali ideali offrire a chi, non potendo accedere a un impiego e al consumo, vede nell’integralismo religioso l’unica maniera di darsi un’identità?

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Attraverso venti capitoli molto chiari, fondati su situazioni reali, Philippe Meirieu si sforza di rispondere a queste domande: senza imposture, né peli sulla lingua. Il volume – conclude la presentazione – è rivolto a insegnanti e educatori, e a tutti coloro che vogliono una democrazia in cui ognuno abbia il suo posto… e dove non esistano più tentazioni stimolate dalla violenza più barbara.

Le quasi 250 pagine del libro, appassionanti e appassionate, mantengono le premesse: fossi stato ancora un insegnante ne sarei rimasto stregato.

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E vengo all’altro volume, pubblicato nel 2012. Stavolta si tratta di un libro illustrato per ragazzi, tradotto e pubblicato in italiano dall’editore Junior nel 2013. Il testo è nuovamente di Philippe Meirieu, le illustrazioni sono di Pef. Si intitola «Korczak, Perché vivano i bambini» e racconta la storia di Janusz Korczak, pedagogo, scrittore e medico polacco, nato a Varsavia nel 1878, morto nel campo di sterminio di Treblinka il 6 agosto 1942. Di Korczak avevo già scritto nel settantesimo della sua morte (A settant’anni dalla morte di Korczak a Treblinka).

È un libro bello da guardare e intenso da leggere, con una struttura originale. Nella prima parte c’è il racconto della sua avventura umana e intellettuale, dalla fine dell’800, quando si chiama ancora Henryk Goldszmit e, nella Polonia occupata dall’armata russa, diventa insegnante dei bambini che vivono nei quartieri più discosti e disagiati; fino al drammatico epilogo in uno dei più importanti centri di sterminio del regime nazista, dove seguì i centonovantadue bambini, ospiti della “Casa degli orfani”, da lui fondata nel ghetto ebraico di Varsavia, e i dieci adulti che lavoravano con lui.

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Accanto al racconto, scritto con linguaggio chiaro e accessibile, ma non banale né scioccamente moralista, scorrono le immagini di Pef e alcune riflessioni di Janusz Korczak. Le ultime pagine del libro – introdotte dal titolo Korczak, l’amico dei bambini – propongono alcuni dati essenziali della sua vicenda intellettuale e umana: le date della sua vita, il suo impegno per affermare i diritti del bambino, l’antisemitismo e la Shoah, alcuni significativi estratti dalla sua opera Re Matteuccio I, il Re bambino (Król Maciuś Pierwszy, 1922), assieme ad alcune immagini documentarie.

È un libro avvincente, che offre tanti spunti anche sui temi affrontati in «Éduquer après les attentats», un libro per ogni persona che si occupa di educazione.

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PHILIPPE MEIRIEU, Éduquer après les attentats, 2016: Paris, ESF éditeur

PHILIPPE MEIRIEU et PEF, Korczak, pour que vivent les enfants, 2012: Rue du Monde éditeur; traduzione italiana: Korczak. Perché vivano i bambini, 2013: Bergamo, edizioni Junior (ISBN 978-88-8434-526-4, 56 pagine)

L’immagine che apre questo articolo e le altre citazioni illustrate sono tratte da Korczak, pour que vivent les enfants.

La scuola nel libero mercato: riecco gli istituti privati

Toh, chi si rivede!? Sergio Morisoli, con Paolo Pamini, ha presentato un’iniziativa parlamentare intitolata «La scuola che vogliamo: realista». Scopo dichiarato: riformare l’attuale Legge della scuola. In un riassunto per chi è di fretta si elencano ventotto principi fondatori di una scuola di destra: se ne sentiva la mancanza. Da dritta a manca è tutto un tratteggiare scuole che verranno. Manuele Bertoli, socialista e direttore del dipartimento dell’educazione, ha già detto la sua, sollecitato dal Corriere. A domanda «Quali le misure problematiche o molto problematiche?», ha risposto con inusuale prudenza, affidando una risposta più articolata al normale percorso degli atti parlamentari.

Ma qualcosa ha detto. Ad esempio che «Il finanziamento delle scuole private, anche parziale, è senza dubbio problematico», anche «perché il popolo ha detto molto chiaramente la sua nel 2001». Oddio, sono passati tre lustri, che, di questi tempi febbrili e smemorati, è quasi un’era geologica. Avevo subito avuto l’impressione che la grande fiducia ottenuta quell’anno dalla nostra scuola fosse stata dilapidata nel breve tempo della vita effimera di una farfalla. In questa rubrica avevo pubblicato un articolo nel febbraio del 2002 – «Che ne è stato del 18 febbraio?» – in cui evocavo, tra tante persone e cose, la lettera di uno studente liceale che segnalava una riforma in corso, «che sfavorisce il settore umanistico, aumenta la selezione» e tende «a sottomettere la formazione agli interessi del mercato». Naturalmente la scuola realista sognata da questa destra non è la stessa di quella che la sinistra dice che ci sia già, almeno in parte, o vorrebbe che ci fosse, migliorata. Nei quasi trenta enunciati, che si configurano come «le maggiori novità della proposta», si leggono asserzioni non sempre fresche di pensata: una scuola pubblica anche un po’ privata; civica obbligatoria e religione a doppio binario; mantenimento della valutazione con i voti; difesa di un percorso selettivo a livelli; e via conservando.

Non mancano neanche le idee innovative, come la decentralizzazione del potere scolastico dal dipartimento agli istituiti scolastici: d’accordo, ma a condizione che resti il primato della Scuola pubblica e obbligatoria, un’istituzione al servizio dello Stato, come l’esercito o la giustizia. Delle sparate liberiste, secondo cui il mercato risolve tutto, ne abbiamo piene le tasche. Infatti la sensazione che si prova leggendo il corposo documento della destra nostrana è che si voglia realizzare un sistema scolastico che non faccia perdere tempo: è chiaro a tutti che chi nasce nella famiglia giusta avrà tante probabilità di riuscire bene a scuola e di proseguire il suo cammino verso la ricchezza e il potere, senza troppi affanni. Perché, allora, perdere soldi e tempo a causa della menata delle pari opportunità? Quel febbraio del 2001, quando il Ticino si scoprì convinto difensore dell’istituzione «Scuola», sembra lontano. Ora siamo ad HarmoS, coi suoi piani di studio, le competenze e un gran brulicare di attività convulse. Poi si riprenderà il filo della scuola che verrà, e sarà curioso capire fino a che punto il paese saprà resistere alle sirene liberiste: che non sono nuove, perché di veramente nuovo, sotto il sole della scuola, c’è poco o nulla. Altre istituzioni – l’esercito, la giustizia, addirittura le chiese – nell’ultimo mezzo secolo son cambiate di più.


P. S.: Il domenicale Il Caffè del 25 settembre aveva dedicato un ampio servizio alla proposta di Morisoli e Pamini: La scuola-azienda finisce dietro la lavagna. In quell’ambito era pure apparsa una breve intervista a me (L’intervista/2: “La formazione umanistica fa capire le trasformazioni”).

Un amico e collega mi aveva mandato un breve messaggio: «Secondo me a queste domande va dato più spazio per le risposte, per l’approfondimento, altrimenti chi ti conosce condivide perché sa cosa c’è dietro, gli altri non sono sicuro che colgano il senso». Sono naturalmente d’accordo, è il rischio delle interviste telefoniche, improvvise e incontrollabili. In questo senso l’articolo sul Corriere del Ticino di oggi può fare un po’ di chiarezza.

Tra l’altro avevo chiosato questo problema in occasione di un’altra breve intervista dello stesso settimanale: si veda il post L’inclusione non esclude di per sé la selezione, del 30 marzo scorso.

Ritorno a Berlino

L’ultima settimana di questo settembre spettacolare sono tornato a Berlino, dov’ero già stato cinque anni fa (Berlino, le scolaresche e la guerra fredda), accolto da un clima meteorologico e culturale particolarmente caloroso e disponibile. Ero appena arrivato, domenica sera, quando ho letto i risultati delle votazioni federali e cantonali di quel 25 settembre.

Nessuna sorpresa, figuriamoci, a parte qualche percentuale. Mi succede assai spesso di recarmi alle urne sapendo che il mio voto, tutt’al più, contribuirà ad affievolire la disfatta. Infatti son rimasto in minoranza chiara e netta su due iniziative federali, «Per un’economia sostenibile ed efficiente in materia di gestione delle risorse (economia verde)» e «AVSplus: per un’AVS forte»: che è poi quel che mi aspettavo (per dire che la speranza si prende ancora qualche spazio di libertà).

La Svizzera è sempre stata prudente, diciamo così, anche se dopo Fukushima si era creata anche qui una reazione di pancia favorevole all’uscita fulminea dal nucleare. Faccio fatica a capire la coerenza tra il no all’inziativa verde e l’abbandono in fretta e furia del nucleare.

Sempre in tema di coerenza, quella sera a Berlino ho preso atto del no all’iniziativa cantonale «Basta con il dumping salariale in Ticino!» e del sì, pesante e aggressivo, a quell’altra iniziativa, «Prima i nostri!», accolta dal 58% dei votanti.

Prima i nostri, la grande buggerata. Fulvio Pelli, un politico che di solito mi fa andare la luna di traverso, ha pubblicato su Opinione liberale una riflessione interessante, che condivido, al di là delle sue posizioni sugli oggetti in votazione: Tra sondaggi e illusioni: come usare male la democrazia diretta. Ho spesso l’impressione, soprattutto in questi ultimi anni, che certe campagne politiche trasformate in votazioni popolari – ah, la famosa democrazia diretta della Confederazione svizzera – non mirino necessariamente a risolvere problemi concreti. Invece ho di frequente la sgradevole sensazione che i promotori siano coscienti di spararla grossa, ma  vogliono far vedere chi comanda e creare un po’ di scompiglio.

Come detto ero a Berlino quando ho letto queste notizie, in particolare quest’ultima. Ho creduto che Prima i nostri non sarebbe stata accolta. Invece è stato eretto un altro muro, dopo i tanti del passato recente. A Berlino di muri se ne intendono: nel 1961 mezza città si era svegliata un mattino circondata da mura. Sappiamo chi eresse la barriera e perché, ed è noto com’è andata a finire.

berlin-wall-children-playing-westQuanto ai nostri che devono avere la precedenza sugli altri è difficile darne una definizione convincente. Un po’ di tempo fa ero stato fermato in Piazza Grande da un raccoglitore di firme per l’iniziativa, proprio quella lì. Non so se quel tipo, nato e cresciuto nel meridione italiano prima di emigrare tra i nostri, sia nel frattempo diventato svizzero. Gli chiesi se non si vergognava, ma restò lì impalato, neanche mi fossi espresso in uno stretto Schwitzertütsch con accento bernese.

Al domenicale della Lega dei ticinesi piace sbeffeggiare gli stranieri residenti che osano dire forte e chiaro la propria opinione, calcando sul fatto che costoro non sono patrizi di Corticiasca, per dire che non sono svizzeri e ticinesi a Denominazione di Origine Controllata, e come minimo dal XIX secolo.

Parrebbe che per essere nostri basti avere quello che, in altri tempi, era l’aristocraticissimo passaporto rossocrociato. Ha scritto Peter Bichsel:

Durante il mio soggiorno berlinese mi accadeva spesso di passare il posto di frontiera tra Berlino ovest e Berlino est. E si prova quella sensazione che sempre si vorrebbe riuscire a provare ad altri confini: la sensazione di arrivare in un altro mondo; si prova paura, si va verso l’ignoto.


Notai che a quel posto di frontiera vedevo sempre molti svizzeri. Non rivolgevo loro la parola, e loro non parlavano, eppure io sapevo che erano svizzeri. Da che cosa li riconoscevo? All’inizio non ne ero consapevole. Era semplicemente ovvio. Comunque, le altre nazionalità si distinguevano molto meno chiaramente. Una volta cercai di capire con precisione da che cosa li riconoscevo, ed ebbi modo di verificare su me stesso l’esattezza della mia osservazione.

I rappresentanti di altre nazionalità tiravano fuori il loro passaporto soltanto davanti al funzionario, oppure lo tenevano in mano in qualche modo, senza dar nell’occhio; gli svizzeri lo tenevano in mano ben visibile, il loro passaporto rosso con la croce bianca. Esso è chiamato a proteggerli, e il fatto che sono svizzeri deve scongiurare ogni pericolo, deve fruttar loro certi vantaggi; persino qui, davanti ai funzionari della Volkspolizei tedesco-orientale, che non li considerano amici. Sono svizzero. E questo, dunque, significa qualcosa di più che la semplice risposta alla domanda: «Lei, di che nazione è?».

L’altro deve riconoscervi subito qualificazioni personali, come nella risposta: «Faccio atletica leggera», oppure: «Sono un pugile», oppure: «Sono un fisico».

[PETER BICHSEL, Des Schweizers Schweiz, 1969; La Svizzera dello svizzero, 1970, trad it. di Enrico Filippini, Bellinzona: Casagrande, 1977].

Parrebbe, insomma, che per i moderni cani da guardia della svizzerità sia sufficiente tenere in saccoccia il passaporto rossocrociato, o almeno la più modesta carta d’identità, anche se, a quasi cinquant’anni dai tempi narrati dallo scrittore lucernese, non è più così certo che il libricino filigranato possa proteggere a scrocco, neanche fosse un assioma.

Ho sempre avuto la convinzione che il passaporto non è un vaccino contro l’imbecillità: che si può prevenire, ma una volta contratta è difficile da curare. Da quando la scuola dell’obbligo ha quasi del tutto dimissionato dal ruolo che il Paese le aveva assegnato già nell’800, ribadito l’ultima volta ventisei anni fa, il compito di promuovere lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società è stato assunto da tutti e da nessuno, un po’ a casaccio. Così certe precise finalità della Scuola sono in balia di movimenti, lobby e gruppi d’interesse, non necessariamente nostri e condivisi.

larepubblica-10-11-1989
la Repubblica di venerdì 10 novembre 1989

In altri anni la Svizzera ha conosciuto James Schwarzenbach, un politico noto per le sue campagne contro l’inforestieramento (la barca è piena!), sfociate in diverse votazioni popolari. Nel 1970, quando votò il 75% della popolazione, la sua prima proposta fu bocciata, seppur di misura.

Nel 1977 vi fu l’ultima chiamata alle urne da parte di Schwarzenbach: si voleva introdurre un limite del 12.5% della popolazione straniera a livello nazionale. L’idea fu respinta dal 70.5% dei votanti. Quell’anno insegnavo in una 5ª elementare. Ne parlai con i miei allievi, mi piaceva stuzzicarli su tematiche di cui si discuteva. E mi piaceva provocarli, insinuare dubbi, invitarli a diffidare delle soluzioni sicure e definitive, benché in classe atterrassero facilmente le sparate decollate al riparo delle mura domestiche. Quella volta mi fece sorridere un ragazzo, uno in gamba, che, tutto convinto, dichiarò che, potendo, avrebbe votato a destra, per la limitazione degli stranieri: sebbene, a parte l’età, fosse italiano.

[So che legge le mie Cose di scuola e forse si riconoscerà. Sono certo che, sorridendo, mi manderà a quel paese, perché oggi è cambiato, magari anche grazie a quei miei arrembaggi alle sue certezze infantili].

O tempora, o mores, insomma. Chissà se nelle classi ticinesi, in queste settimane, si sarà parlato di economia verde, di dumping salariale e, naturalmente, dei nostri che devono arrivare prima di tutti gli altri? E, già che ci siamo, chissà se si è almeno tentato di spiegare che la democrazia non può essere ridotta alla contabilità dei sì e dei no? Non è che se io la penso diversamente dalla vox populi – che è notoriamente considerata anche vox Dei, almeno da chi ha una Weltanschauung poco o punto laica – sarò per forza un eretico. Anche Galileo, per citarne uno non proprio a caso… ricordate?

Fulvio Pelli ha giustamente osservato che «lo sforzo di capire non è esente da rischi. Vantaggi e svantaggi delle soluzioni proposte sono tutt’altro che facili da individuare e chi cerca di convincere della bontà del sì o del no, non necessariamente la racconta giusta».

Appunto.

«Andare a scuola è un atto di civiltà»

Ho ricevuto oggi una riflessione assai profonda a commento dell’articolo «Insieme a scuola per sconfiggere la barbarie», che ho pubblicato domenica scorsa. Me l’ha inviato Andrea Fazioli, un amico che conosco e che apprezzo, come uomo e come scrittore, uno che coltiva un blog accattivante settimana dopo settimana. Ha scritto:

Sono riflessioni molto interessanti. Dal mio punto di vista di scrittore prestato (anche) all’insegnamento, mi aiutano a partire con il piede giusto, per quanto riguarda sia i corsi di scrittura creativa, sia soprattutto i laboratori al liceo. Non voglio ripetere nulla di quanto già detto; mi limito ad aggiungere una cosa che mi ha colpito: anche solo il gesto di andarci, a scuola, è un atto di civiltà di cui spesso ci sfugge la portata. Qualcuno potrebbe obiettare: ma non staremo esagerando? La scuola può davvero aiutare ad arginare la negatività che ci assedia? Tutto dipende dal nostro desiderio, starei per dire dalla “fame” con cui affrontiamo la giornata di lavoro (come insegnanti o come allievi). Mi ricordo quel capo terrorista che diceva: “Noi vinceremo perché amiamo la morte più di quanto voi amiate la vita”. Ecco, la scuola può essere la dimostrazione del contrario. Be’, almeno sarebbe bello provarci…

Tanto per capirci: il capo terrorista citato, stando al web, era il portavoce di Osāma bin Lāden, e la frase era contenuta nel comunicato di rivendicazione dell’attentato dell’11 marzo 2004 a Madrid.

Fazioli dice una cosa talmente vera da sembrare scontata: anche solo il gesto di andarci, a scuola, è un atto di civiltà.

Ha scritto ancora Meirieu citando il filosofo Olivier Reboul: «Face à la montée de l’islamiste djihadiste comme des réactions de repli identitaire qu’il suscite, la réponse qu’Olivier Reboul faisait, il y a quarante ans, à la question “Qu’est-ce qui doit fonder l’éducation?” reste, plus que jamais d’actualité: “Ce qui unit et ce qui libère”. Nous avons en effet, tout à la fois, besoin d’unité – de commun sans communautarisme – comme nous avons besoin de liberté – d’individus sans individualisme. Nous avons besoin de nous redécouvrir semblables et de trouver la force de nous affirmer différents».

E così terminava: «C’est dire que la démocratie est assignée à faire de l’éducation sa priorité. Elle est assignée à la pédagogie. À revisiter son histoire et ses apports, à faire preuve, dans ce domaine, d’inventivité inlassable. Il faudra y penser en cette rentrée. Pour que nos enfants apprennent patiemment la vertu du débat démocratique. Et pour que les croyances haineuses et les réactions identitaires ne viennent pas balayer tout espoir. À l’École comme ailleurs».

Certo, dobbiamo provarci, ad amare pienamente la vita, dimenticando all’istante le false promesse sulle spendibilità e provando invece a chinarci tutti insieme sulle cose essenziali, alle fondamenta del mondo e del nostro esistere, attraverso la Cultura e le Arti.

Insieme a scuola per sconfiggere la barbarie

Alcuni giorni fa, commentando le misure di sicurezza che hanno caratterizzato la 69ª edizione del Festival del Film di Locarno, avevo chiuso le mie brevi note con un’inquietudine (Non c’è nulla di semplice in quel che sta succedendo attorno a noi. E si rischiano le psicosi e la xenofobia al rialzo) e la speranza che, al rientro a scuola dopo le vacanze estive, nelle nostre aule ci sia chi offrirà ai suoi allievi l’opportunità di parlare della brutale attualità che distingue questi tempi e che ha affollato le cronache delle ultime settimane [Il festival del film di Locarno, l’attualità brutale e la forza educativa del dubbio].

L’edizione odierna del quotidiano francese «Le Monde» ha pubblicato un intrigante contributo di Philippe Meirieu, pedagogista e professore emerito in scienze dell’educazione all’università Lumière di Lione: «La démocratie est assignée à faire de l’éducation sa priorité». [Nel sito di Le Monde l’accesso all’articolo è protetto; lo si può tuttavia recuperare integralmente nel sito di Philippe Meirieu, oppure lo si può scaricare qui].

Meirieu inizia con un amaro riscontro: «I riti commerciali e i cliché mediatici che segnano tradizionalmente l’apertura di un nuovo anno scolastico rischiano, quest’anno, di sembrare particolarmente sfasati. In effetti non potremo fare a meno di una riflessione educativa sugli attentati dell’estate e sulla situazione del nostro paese».

Sono naturalmente d’accordo, perché invece, nel nostro di un paese, c’è una buona possibilità che si parli solo di HarmoS e dei nuovi piani di studio, quasi che non ci trovassimo al crocevia non solo geografico dell’Europa, e che alle nostre frontiere e nei nostri centri di accoglienza non fossero palpabili le tensioni alle quali non possiamo sfuggire: perché sinora non siamo stati al centro di attacchi terroristici, ma una giovane donna di Agno è comunque morta a Nizza, senza dimenticare i tre giovani ticinesi vittime di un attentato a Marrakech nell’aprile del 2011.

Ma forse c’è poco da fare, perché ci piace crogiolarci nel nostro essere un Sonderfall, almeno quando ci fa comodo.

Meirieu prosegue sulla necessità che nelle scuole, da settimana prossima, sia possibile «ascoltare le inquietudini e gli interrogativi degli allievi, permettere di esprimere a parole le loro domande, di confrontarsi serenamente, tra loro e con gli adulti: a questo scopo bisognerà realizzare dei rituali che permettano la nascita di parole rincuoranti, senza esitare a passare attraverso l’espressione scritta o grafica individuale, a servirsi della mediazione di una poesia o di un romanzo, a prendere esempi dalla storia (…). A sollecitare l’immaginazione degli allievi chiedendo loro di descrivere in che modo ognuno di loro e tutti insieme possono contribuire a far indietreggiare la barbarie».

A ben vedere c’è, in queste riflessioni per il rientro in aula dopo un’estate speciale, la visione di una scuola che persegue fino in fondo la sua capacità di educare i cittadini, ben oltre le tante spendibilità immediate e gli orpelli tecnocratici che stanno tramutando l’Istituzione scolastica in un volgare supermercato.

Eugène Delacroix (1798-1863), La Liberté guidant le peuple, 1830
Eugène Delacroix (1798-1863), La Liberté guidant le peuple, 1830

È davvero tutto da leggere, questo contributo di Philippe Meirieu, che invita la Scuola a «diventare deliberatamente uno spazio di decelerazione. Lungi dal premiare la risposta immediata, essa deve promuovere la riflessone critica. Deve imporre la distanza dalla pulsione e il distacco dalla reazione immediata, per sfruttare questo tempo per anticipare, scambiare, documentarsi, riflettere… in breve, per imparare a pensare. Ne siamo lontani, noi che corriamo sempre nei corridoi e talloniamo i programmi, che fuggiamo il silenzio come la peste, che correggiamo un compito per sempre, senza lasciare all’allievo la possibilità di approfittare dei nostri consigli per migliorare. Di fronte all’immediatezza del “tutto e subito” promosso sistematicamente dal macchinario pubblicitario e tecnologico, la Scuola deve svolgere intenzionalmente un ruolo termostatico. Né rifiuto brutale della reazione dell’allievo, né consenso demagogico della sua opinione: “Prendiamoci il tempo per pensarci”. È solo così che la Scuola contribuirà a insegnare a ragazzi e adolescenti a resistere a ogni sorta di seduzione».