L’editoriale della Revue des deux mondes del 10 luglio 2018, a firma Valérie Toranian, riprende alcuni dati particolarmente sorprendenti di un’inchiesta nazionale denominata Fractures françaises.
«Il 46% dei giovani tra 18 e 35 anni – scrive la Toranian – è del parere che altri sistemi politici siano altrettanto validi della democrazia.»
«I risultati si possono riassumere così: più alti sono il livello di formazione e l’età, meno si mette in dubbio il valore della democrazia. Minore è il livello di formazione, più si appartiene agli svantaggiati e alle categorie popolari, più si relativizza il valore della democrazia».
«L’attaccamento alla democrazia si nutre di conoscenza, riferimenti trasmessi dagli anziani. Senza questo ancoraggio fondamentale si passa dal disinteresse alla politica in generale alla relativizzazione della democrazia stessa», osserva ancora la giornalista. Che fare, dunque? L’articolo propone un sunto delle soluzioni della politica, in particolare quelle del presidente Emmanuel Macron, che il 9 luglio si era rivolto al Parlamento francese riunito a congresso a Versailles (si veda, ad esempio, Congrès de Versailles : Macron théorise un social très libéral, su Libération. Si può trovare qui una copia dell’articolo).
Niente di nuovo sotto il sole, si direbbe scorrendo diversi passaggi del suo discorso: «In Francia si sono insediate le disuguaglianze del destino: a seconda di dove si è nati, della famiglia in cui si è cresciuti, della scuola frequentata, la sorte è assai spesso blindata. Queste disuguaglianze del destino, durante gli ultimi 30 anni, nel nostro paese sono progredite , che lo si voglia vedere o no». (Nel sito dell’Élysée si può leggere il discorso integrale di Macron: Discours du Président de la République devant le Parlement réuni en Congrès à Versailles).
Diffido sempre più delle teorie che vogliono essere sociali e, nel contempo, liberali. Addirittura molto liberali, aggettivo che, da un po’ di anni in qua, nasconde e si mescola con liberista. Di solito si tratta di un’ammucchiata di contraddizioni: qualche intervento strutturale, tanta meritocrazia per docenti e allievi/studenti; è noto che il merito, come il mercato, sistema quasi naturalmente tante faccende. Per restare a Macron, ma non è il solo: tutti hanno «sa jambe gauche», da esibire sui pulpiti della politica. Una volta, almeno, c’erano i Radicali, ma non si sa dove sono finiti. Forse il compito era troppo complicato.
La morale della favola macronienne sembra persino scontata: la diagnosi è ineccepibile. Selon l’endroit où vous êtes né, la famille dans laquelle vous avez grandi, l’école que vous avez fréquentée, votre sort est le plus souvent scellé. La cura proposta predica l’esatto contrario. In effetti il paragrafo successivo recita:
Et pour moi, c’est cela qui m’obsède, le modèle français de notre siècle. Le réel modèle social de notre pays doit choisir de s’attaquer aux racines profondes des inégalités de destin, celles qui sont décidées avant même notre naissance, qui favorisent insidieusement les uns et défavorisent inexorablement les autres sans que cela se voie, sans que cela s’avoue. Le modèle français que je veux défendre exige que ce ne soient plus la naissance, la chance ou les réseaux qui commandent la situation sociale, mais les talents, l’effort, le mérite.
Splendida ossessione, ma se ne può fare a meno.
Facendo il verso a Flaiano (Ho poche idee, ma confuse), siamo davanti a un mucchio di idee, una più confusa dell’altra. Eppure c’è poco da sfottere Monsieur le Président de la République, perché senza le valutazioni reiterate e imprescindibili – tempo sottratto all’insegnamento, diceva Don Milani – la scuola repubblicana, quindi anche la nostra, non è in grado di assolvere i suoi compiti costituzionali.
Lo diceva già uno dei nostri maestri più importanti, John Dewey, che in Democrazia e educazione, un libro del 1916, scriveva:
Sul piano educativo notiamo […] che la realizzazione di una forma di vita sociale nella quale gli interessi si compenetrano a vicenda, e in cui vivo è il senso del progresso o riadattamento, rende una comunità democratica più interessata di quanto non abbiano ragione di esserlo le altre comunità in un’educazione deliberata e sistematica. La devozione della democrazia all’educazione è un fatto ben noto. La spiegazione superficiale è che un governo che dipende dal suffragio popolare non può prosperare se coloro che eleggono e seguono i loro governanti non sono educati. Poiché una società democratica ripudia il principio dell’autorità esterna, deve trovarle un surrogato nelle disposizioni e nell’interesse volontari; e questi possono essere creati solamente dall’educazione. Ma vi è una spiegazione più profonda. La democrazia è qualcosa di più di una forma di governo. È prima di tutto un tipo di vita associata, di esperienza continuamente comunicata. L’estensione nello spazio del numero di individui che partecipano a un interesse in tal guisa che ognuno deve riferire la sua azione a quella degli altri e considerare l’azione degli altri per dare un motivo e una direzione alla sua equivale all’abbattimento di quelle barriere di classe, di razza e di territorio nazionale che impedivano agli uomini di cogliere il pieno significato della loro attività.
E se la scuola moderna cominciasse finalmente a insegnare?
La citazione di John Dewey (1859-1952) è tratta dalla 4ª ristampa (1972) di Democrazia e educazione, nella traduzione di Enzo Enriques Agnoletti e Paolo Paduano (Prima edizione italiana, 1949, Firenze: La nuova Italia editrice).
L’inchiesta Fractures françaises 2018 può essere scaricata qui.
Al di là dell’aspetto scolastico, educativo e formativo di cui ho parlato, il rapporto contiene un’infinità di altri indicatori sulla percezione della situazione della Francia, sui valori dei francesi, sul loro rapporto col sistema politico e sulla loro percezione dell’Unione europea.
Va da sé che ogni riferimento a fatti, percezioni o circostanze che riguardano paesi europei che non siano la Francia non sono per nulla casuali.
La traduzione italiana, del 1995, è del mo. Plinio Luconi, insegnante di scuola elementare a Locarno.
Una copia dell’edizione originale dell’articolo è visibile cliccando qui.
Buona estate a tutti.
Il trattamento intensivo delle malattie infantili sul pianeta Kafka | Memorandum all’attenzione dell’Accademia di etnografia extragalattica
di I. Van Hill Hitch, socio-esploratore indipendente
Questo documento eccezionale ci è giunto attraverso una deformazione accidentale del continuum spazio-temporale. Si presume che la proiezione della scuola nel futuro, con una compensazione imprevedibile, abbia inviato frammenti del futuro nel nostro presente (testo apparso in Textes libres Rapsodie, 1982, N° 12, p. 65-72).
Kafka è l’unico pianeta abitato di questo piccolo sistema solare. Innumerevoli specie viventi vi coesistono. La specie dominante conta alcuni miliardi di individui, che formano delle società distinte, spesso in conflitto tra loro.
Nelle società più ricche, tutti i bambini sembrano nascere affetti da una grave malattia. Non è mortale, ma, se non viene trattata per tempo, impedisce all’individuo di diventare un adulto completo.
Il trattamento è piuttosto lungo e complicato, al punto che le famiglie non sono assolutamente in grado di applicarlo per conto loro. Mi è stato riferito che se ogni bambino fosse curato nella sua famiglia da un medico, occorrerebbe un tale numero di medici che la produzione alimentare ne risentirebbe. Per questo motivo i bambini vengono ospedalizzati massicciamente. Allo scopo di non toglierli totalmente alle loro famiglie, vengono ricoverati in piccoli ospedali di giorno, ubicati in prossimità delle loro abitazioni. In queste strutture i bambini passano qualche ora il mattino e qualche altra ora il pomeriggio. A metà giornata interrompono il trattamento per un pasto in famiglia, rito molto importante in queste società.
Un tempo, solo le famiglie che lo desideravano facevano curare i figli. Molte altre non ci pensavano o ritenevano inutile la guarigione. Circa cento anni fa, a causa dell’insistenza dei medici, il trattamento fu reso obbligatorio. Da allora i genitori che rifiutano di far trattare i loro figli incorrono in gravi sanzioni.
Per ragioni che non sono riuscito a chiarire, il trattamento diventa obbligatorio a partire dall’età di sei anni, forse per lasciare i bambini il più possibile con la famiglia, nel momento in cui i genitori sono maggiormente affezionati ai loro figli. Potrebbe anche darsi che l’ospedalizzazione di bambini troppo piccoli possa essere troppo complicata. Non lo so. Le autorità consigliano alle famiglie di cominciare per conto loro il trattamento il più presto possibile. Alle famiglie vengono forniti i consigli che servono ad aiutarle a operare in questo senso. Se hanno a cuore la guarigione del figlio possono consultare un medico o decidere un’ospedalizzazione precoce, già tra i due e i quattro anni. A quest’età il ricovero non è comunque obbligatorio, ma le famiglie che non intraprendono nessun passo in questa direzione entro i sei anni sono sempre più rare, e passano come irresponsabili agli occhi del vicinato.
Il trattamento richiede diversi anni, almeno nove. I primi sei anni sono identici per tutti i bambini, a eccezione di quella piccola parte di casi ritenuti più gravi e trattati in cliniche specializzate. Questa prima parte, che i medici chiamano trattamento di base, è suddivisa in sei fasi annuali. Da quando hanno sei anni, i bambini vengono ospedalizzati e viene somministrata loro la prima fase. Al termine del primo anno passano normalmente alla seconda fase, un anno più tardi alla terza, e così di seguito. Se al termine di una delle fasi annuali la malattia non è sufficientemente regredita, il medico, d’accordo con il suo capo clinica, può decidere di ripetere l’applicazione della stessa fase del trattamento. Parrebbe, insomma, che il passaggio diretto alla fase seguente non sarebbe proficuo. Ogni fase è concepita in modo da essere efficace in un preciso stadio della guarigione. Certi aspetti del trattamento sono comuni a tutte le fasi, mentre altri non riguardano che i primi anni – o, al contrario, saranno sviluppati più tardi.
Per ognuna delle fasi del trattamento di base – che dura quindi dai sei agli otto anni, in base all’evoluzione della malattia –, i bambini sono affidati a medici generalisti, formati per applicare tutte le sfaccettature del trattamento. Mi è stato riferito che prima che i trattamenti diventassero obbligatori, succedeva che un solo medico si prendesse a carico più di cento malati, a volte centocinquanta. In questo caso era assistito da una o più infermiere. Grazie al progresso tecnico nella produzione alimentare, è stato possibile destinare alcune persone attive alla medicina. Nella maggior parte degli ospedali di giorno che ho visitato, vengono affidati circa 25 malati a un solo medico, che se ne occupa tutti i giorni per tutto l’anno – insomma, quasi tutti i giorni. Dal momento che il trattamento risulta abbastanza faticoso, lo si interrompe due giorni alla settimana, e a volte anche per una o più settimane consecutive. Ho sentito molti medici lamentarsi di importanti ricadute durante questi periodi. Altri non si lamentano di avere più tempo per mangiare e dormire, o anche per formarsi a nuove terapie.
Parlando con i medici, ho potuto constatare che molti avevano l’impressione di non essere efficaci come avrebbero desiderato. Tutti sono convinti della necessità di un trattamento di lunga durata. Ma certi mettono in causa l’organizzazione ospedaliera. Si rendono conto che i bambini affidati alle loro unità di cura si situano a differenti livelli dal punto di vista della regressione della malattia. In alcuni si nota una specie di guarigione spontanea, per cui ci si potrebbe accontentare di un trattamento leggero. In altri il trattamento è stato iniziato già nella prima infanzia e i progressi sono soddisfacenti. Con altri non è ancora stato intrapreso niente e il loro stato risulta preoccupante. Malgrado ciò questi bambini diversi sono ugualmente assoggettati alla prima fase del trattamento di base non appena compiono i sei anni. Questa prima fase non giova a tutti nello stesso modo; anzi, le differenze aumentano di anno in anno. Esiste la possibilità, per una minoranza, di raddoppiare l’applicazione della stessa fase, ma tutti i medici coi quali ho parlato non hanno nascosto il loro scetticismo a questo proposito:
«Se almeno, dicono, si potesse modulare il trattamento, individualizzarlo! Ma è impossibile. Ogni caso merita una terapia adattata al suo stato, dei medicamenti particolari. Ma l’amministrazione ci assegna gli stessi medicamenti per tutti. All’inizio dell’anno, riceviamo una dotazione proporzionale all’effettivo dei nostri malati. Non esiste possibilità d’ottenere altro. Ci viene imposto un piano di trattamento molto stretto, che occorre rispettare entro la fine dell’anno. Ciò restringe la scelta dei metodi terapeutici. D’altra parte la nostra libertà su questo punto risulta parecchio teorica. I primari e i capi clinica sono ancorati a certi metodi. È a questi metodi che si limita la nostra formazione.
Se ce ne allontaniamo, lo facciamo a nostro rischio e pericolo. Ma ciò che ci manca è soprattutto il tempo. Dedicando due ore al giorno a ogni malato, il trattamento progredirebbe in modo ottimale. Per alcuni un’ora sarebbe largamente sufficiente, per altri occorrerebbero almeno tre ore. La guarigione sarebbe garantita in nove anni o in molto meno. Meglio non pensarci. Immaginate: i bambini più giovani vengono all’ospedale sei ore al giorno, noi dobbiamo trattare collettivamente tutto il gruppo, o per lo meno alcuni sotto gruppi. Alcuni malati sono abbastanza autonomi per curarsi quasi da soli. Altri s’aiutano. Ma succede raramente. Sapete, sono bambini. La maggior parte non si rende conto della gravità del loro stato. Durante l’infanzia e l’adolescenza non soffrono, la malattia non ha delle conseguenze. Non immaginano quanto succederà se non si fa nulla. Alcuni provano con tutti i mezzi a sottrarsi al trattamento! Bisogna riconoscere che non tutti i giorni è divertente…»
Di medici scoraggiati ne ho incontrati parecchi. Alcuni pensano che non si può far nulla con un numero così alto di malati. Altri pretendono che si organizzi il trattamento differentemente, così da poter curare tutti in meno tempo. Ma, dicono, l’amministrazione ospedaliera è soprattutto desiderosa di mettere ordine e gestire questo immenso insieme di malati e medici. Parlando in privato, certi amministratori ammettono che la separazione delle fasi di trattamento è discutibile, e che, in ogni caso, non è vantaggiosa per ogni bambino. Riconoscono pure che certi aspetti del trattamento sono inutili per una parte degli ammalati. Ma preferiscono amministrarli comunque. Ciò evita noie con i genitori, ai quali preme che i loro figli guariscano. Non appena alcuni genitori sentono dire che in un ospedale non si dispensa lo stesso trattamento che negli altri, ne fanno uno scandalo. Alcuni medici, amaramente, pensano che molti loro colleghi approfittino della situazione, applicando i trattamenti standard senza troppo riflettere, redigono periodicamente i loro rapporti e si dicono che, dopotutto, quando una malattia è così generalizzata, non si può pretendere di guarire tutti.
Altri, per contro, pensano che li si tratti da utopisti e sognatori, pretendono che adattando veramente i trattamenti ai malati, sarebbe possibile guarire tutti, e in ogni caso evitare, dopo i sei anni di trattamento di base, di indirizzare i malati verso le varie trafile di cure differenti.
Bisogna sapere, in effetti, che alla fine del trattamento di base si procede all’esame dello stato di ogni giovane malato, stabilendo un pronostico. Per alcuni, si è già persa ogni speranza di guarirli completamente. Li si orienta quindi verso qualche anno di trattamento finale, che permetterà loro di sopravvivere nella società, con uno statuto inferiore e un minimo accesso ai beni alimentari o quant’altro. Per gli altri la guarigione sembra possibile o addirittura certa, e la società, in questi casi, fa uno sforzo speciale per loro. Sei anni di trattamento post «obbligatorio» – quindi al di là del trattamento base – garantiranno a coloro che ne sono degni lo status più invidiabile e il più ampio accesso al consumo.
Non tutti si rassegnano a questa gerarchia sociale ed economica, basata sul grado di guarigione; così il sistema ospedaliero è al centro di continui dibattiti. Questa società interamente medicalizzata, dove tutta l’organizzazione è retta dalla necessità di curare una malattia generalizzata, non è che una delle strane strutture che il viaggiatore interstellare incontra quando si interessa alle civiltà primitive identificate in galassie lontane. Sulla malattia stessa non posso dire molto. Non ha nulla in comune con le poche malattie rare che rimangono sul nostro pianeta.
Le poche osservazioni che ho fatto mi hanno piuttosto ricordato alcune caratteristiche dell’organizzazione della nostra società quattro o cinquecento anni fa. Mi sembra che nel XIX e XX secolo non si disponesse ancora dei mezzi d’apprendimento istantanei. L’istruzione dei bambini preoccupava gli adulti, e l’avevano organizzata un po’ alla maniera della medicina sul pianeta Kafka. Un amico storico me lo ha confermato. Quando gli ho fatto notare che guarire una malattia e educare i bambini erano delle attività decisamente poco comparabili, mi ha ricordato che i filantropi della fine del XIX secolo solevano dire: «La malattia più grave, che tocca ognuno e che bisogna curare prioritariamente, è l’ignoranza!» Beninteso, non è che un modo di dire. Nondimeno mi rifiuto di credere che, anche diversi secoli fa, sulla Terra potesse esistere un sistema così assurdo per l’educazione dei bambini! Eppure, negli ultimi cento anni in cui ho viaggiato nell’universo, ne ho viste di società bizzarre!
1° aprile 2482
Philippe Perrenoud, sociologo, è nato nel 1944 e ha conseguito il dottorato in sociologia e in antropologia. Dal 1984 al 2009 è stato chargé de cours all’Università di Ginevra; in seguito, dal 1994, è stato professore ordinario, occupandosi di curricolo, di pratiche pedagogiche e di istituti di formazione. Con Monica Gather Thurler ha fondato e animato il Laboratoire de recherche sur L’innovation en Formation et en Éducation (LIFE).
I suoi lavori sulla fabbricazione delle disuguaglianze e dell’insuccesso scolastico l’hanno portato a interessarsi del «mestiere» di allievo, delle pratiche pedagogiche, della formazione degli insegnanti, del curricolo, del funzionamento degli istituti scolastici, delle trasformazioni del sistema educativo e delle politiche dell’educazione.
[Tratto dal sito della Facoltà di Psicologia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Ginevra. La traduzione italiana è mia].
L’art. 6 della Legge della scuola ticinese, che risale all’ormai lontano 1990, recita, al primo paragrafo, che La frequenza della scuola è obbligatoria per tutte le persone residenti nel Cantone, dai quattro ai quindici anni di età.
La regola ha radici lontane, tanto che il Parlamento che varò la prima scuola obbligatoria di questo cantone – 4 giugno 1804 – la limitò a quattro articoli, che insistevano proprio sulla decisione di renderla obbligatoria.
Sono passati due secoli e un po’. La scuola dell’obbligo, ormai, fa parte delle consuetudini, come la grippe. Si noti il preambolo di quella legge: «… la felicità di una Repubblica ben costituita deriva principalmente dalle savie istituzioni, e da una buona educazione; mentre da uomini bene educati si può sperare ogni bene, e dalla ignoranza nascono tutt’i vizj, e disordini».
Erano le preoccupazioni di 200 anni fa.
Di quell’epoca la scuola contemporanea rammenta e tiene saldo il calendario scolastico, anche se sugli alpi e nei campi finiscono solitamente lavoratori stranieri.
Nel maggio 2011 avevo pubblicato in Fuori dall’aula, la mia rubrica sul Corriere del Ticino, un articolo che aveva preso spunto da una decisione del Parlamento zurighese, che aveva inasprito le norme sull’espulsione da adottare per gli scolari più indisciplinati, spostando il periodo massimo da quattro settimane a tre mesi. Il titolo era un po’ sciocco – Quando la scuola non sa più che pesci pigliare – non così, mi pare, il contenuto.
Quell’invito alla riflessione mi è venuto in mente davanti al progetto La scuola che verrà. È probabile che la sperimentazione slitterà di un anno: non è ancora certo, ma è stato lanciato un referendum, si vedrà a giorni se riuscito (v. Ecco perché «La scuola che verrà» è un progetto progressista).
Stavo per scrivere che il referendum è stato lanciato da partiti e movimenti di destra e centro-destra, che ora la menano nel dire che tanti docenti hanno contribuito a raccogliere le 7’000 firme necessarie per demandare alle urne il verdetto finale. Purtroppo è vero. Ma non erano tutti progressisti, i docenti?
Ho letto, nei giorni scorsi, l’ultimo romanzo di Petros Markaris, L’università del crimine (2018, Milano: La nave di Teseo). Mi ha colpito un ironico dialogo, a pagina 265, tipico di quest’autore non certamente di destra:
Ho fatto una scommessa con me stesso: cerco di trovare una manifestazione che non abbia come obiettivo una semplice protesta, che non venga indetta per la difesa di diritti acquisiti, ma abbia un carattere costruttivo. […] Ai miei tempi, le manifestazioni si facevano per cambiare il regime, per abbattere lo stato di polizia, per avere maggiore democrazia… Oggi le manifestazioni e i cortei si fanno perché nulla sia cambiato. Ecco quindi che vengo a vedere, con la speranza vana di trovare una manifestazione o un corteo che abbia, come obiettivo, il cambiamento.
Da un comunicato del Sindacato dei servizi pubblici e sociosanitari: I docenti VPOD danno il loro sostegno alla sperimentazione del modello dipartimentale La Scuola che Verrà. «Questo modello – scrivono in una nota stampa del 30 marzo – è il frutto di una lunga consultazione tra il Dipartimento DECS e le componenti della scuola, tra cui i sindacati. Dopo una prima stesura, che conteneva forti criticità, il DECS è stato capace di porvi rimedio, ascoltando le critiche e apportando i grossi correttivi richiesti dai docenti».
Mettere le valutazioni e la selezione in secondo piano è una criticità anche a sinistra. Chissà perché? Vattelapesca.
Siamo ancora a quel che diceva Don Milani: «Una scuola che si cura solo dei bravi allievi è come un ospedale che cura i pazienti sani».
P. S.: se poi qualcuno, giunto a questo punto, avesse ancora qualche minuto, consiglio di leggere un altro mio articolo del 2011, sempre nella stessa rubrica del medesimo quotidiano: «Pestalozzi! Chi era costui?», ruminava tra sé il giovane maestro. È un articolo correlato col primo, quello sull’espulsione degli allievi, dove si parla di Johann Heinrich Pestalozzi, quell’allievo di Jean-Jacques Rousseau che l’inclusione la sperimentò sul serio (senza dare le note).
L’articolo sottostante, col titolo (redazionale) Si tratta di un progetto liberal e non è per nulla… socialista, è apparso sul domenicale ilCaffè dell’8 aprile nel contesto di un confronto a due voci sul progetto La scuola che verrà e sulla raccolta di firme contro il credito concesso dal Parlamento per l’inizio della fase sperimentale a partire dal prossimo anno scolastico.
Va da sé: la raccolta di firme, che, se riuscisse, sottoporrebbe a referendum la risoluzione del Gran consiglio, è solo formalmente contro la concessione del credito, perché in realtà intende affossare l’intero progetto – ciò che i promotori del referendum non hanno nascosto in sede parlamentare.
Manuele Bertoli avrà anche lui qualche difetto, come tutti; ma non lo si può accusare di essere tronfio e megalomane. È un uomo che ha molto a cuore la scuola pubblica e obbligatoria: la conosce bene, perfino dal profilo istituzionale e pedagogico. Il progetto La scuola che verrà intende concretizzare le finalità che il Parlamento aveva dichiarato nel 1990: La scuola promuove lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà. È un progetto umanistico, ispirato ai più alti valori repubblicani. Chi dice che si tratta di un progetto socialista – e calca su quell’aggettivo come se fosse un insulto – è in malafede. La scuola che verrà è un progetto liberal, nel senso anglosassone del termine. Se davvero si vuol credere che questa riforma è socialista, allora si deve convenire che Pestalozzi, illuminista ed erede di Rousseau, era un brigatista rossissimo.
Altrettanto scorretta è l’equazione secondo cui il fatto di voler portare ogni allievo al limite estremo delle sue possibilità equivale a un inevitabile abbassamento del livello medio della scuola. Il sociologo Walo Hutmacher aveva pubblicato nel 2012 un’interessante riflessione. Scriveva che «le pari opportunità fanno parte della scuola pubblica. Ma è un’uguaglianza astratta, di maniera, perché presume, senza dirlo, che la scuola di base sia una gara, così che ha un senso solo in una scuola selettiva. Contrariamente a ciò che dicono tutti i partiti, la politica non deve mirare alle pari opportunità, ma puntare all’equità dei risultati a livello elevato, allo scopo di creare buone capacità per affrontare le esigenze della vita sociale, civica ed economica. L’equità dei risultati è meno astratta delle pari opportunità. In senso assoluto è inarrivabile, ma si può tentare con tenacia di avvicinarvisi. Bisogna però farne un’ambiziosa meta politica. La logica della selezione estremizza le regole del gioco: per allievi e genitori che sono, loro malgrado, protagonisti di un processo di selezione, lo scopo principale non è quello di imparare, bensì di “riuscire”, di “essere promosso”. In questa logica i più bravi si accontentano di “gestire la loro media” col minimo sforzo, mentre i più deboli si scoraggiano davanti a ostacoli che ritengono di non poter superare: è esattamente ciò che comincia a essere intollerabile, tanto dal punto di vista dell’efficacia, quanto da quello dell’equità».
È l’obiettivo nobile del progetto di Bertoli.
Al posto del nostro ministro dell’educazione io non mi sarei fidato troppo di certi compromessi coi partiti. Ad esempio non avrei ceduto sull’abolizione della soglia minima per l’accesso al liceo. Ma, per la fortuna del Paese, non sono un governante e posso quindi fare a meno di quel forse utile pragmatismo.
L’articolo di Walo Hutmacher, da cui ho tratto la citazione in una mia libera traduzione, è apparso sul numero speciale della rivista Éducateur del 24 febbraio 2012, pubblicato in occasione del centenario di fondazione dell’Institut Jean-Jacques Rousseau, che nel 1975 sarebbe diventato la Facoltà di psicologia e di scienze dell’educazione dell’Università di Ginevra (Les bâtisseurs du «siècle de l’enfant» | Cent ans de recherches et d’innovations pédagogiques).
Qui è possibile scaricare l’articolo integrale e originale, intitolato Réclamer l’égalité des chances, c’est s’empêcher de viser l’égalité des résultats à un niveau élevé (p. 64-66).
La raccolta di firme è relativa alla risoluzione del parlamento del 12 marzo 2018. L’oggetto in questione è il Messaggio 7339 del 05.07.2017 concernente la «Concessione di un credito quadro di fr. 5’310’000.- per la sperimentazione del progetto La scuola che verrà». A questo indirizzo sono disponibili i documenti ufficiali.
La fase di sperimentazione del progetto «La scuola che verrà», di cui si è parlato per la prima volta nelle ultime settimane di quattro anni fa (La scuola che verrà…), è stato accolto a maggioranza dal Parlamento cantonale lo scorso 12 marzo, dopo un lungo negoziato tra il Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport e i diversi partner interessati.
«Gli esami per la scuola che verrà», ha titolato il Corriere del Ticino del 13 marzo: La riforma del DECS ha superato un primo esame. Dopo un dibattito fiume durato oltre 5 ore, la maggioranza del Gran Consiglio ha detto sì – con 51 voti favorevoli, 19 contrari e 5 astensioni – al credito di 6.7 milioni di franchi per avviare la fase pilota a settembre. A sostenere la sperimentazione sono stati i deputati di PLR, PPD e PS mentre un chiaro no è stato espresso da La Destra e dalla maggioranza della Lega. Sollevato dal via libera parlamentare, il direttore del DECS Manuele Bertoli ha precisato come «questa non è una riforma socialista, ma un progetto che ha quale obiettivo quello di migliorare la scuola dell’obbligo riuscendo a seguire meglio gli allievi nella loro individualità».
Il sostegno dei tre partiti storici – PLR (partito liberale radicale), PPD (partito popolare democratico) e PS (partito socialista) – non è stato ottenuto senza costi: il DECS ha dovuto cedere diverse posizioni, tra le quali quella del mantenimento della soglia minima per l’accesso alla scuola media superiore, vale a dire il liceo e la scuola di commercio.
La festa, per ora, è sospesa
I festeggiamenti per il traguardo raggiunto con tanta fatica sono durati poco, perché i partiti che hanno avversato la sperimentazione hanno annunciato il lancio di un referendum. Ha detto il ministro Manuele Bertoli: «Il referendum è senz’altro legittimo, ma in questo caso è arrivato all’ultimo momento, un po’ tra il lusco e il brusco».
Il Corriere de Ticino del 15 marzo ha chiosato la reazione del direttore del DECS: Questa la reazione a caldo del direttore del DECS Manuele Bertoli, all’indomani della decisione dell’UDC di lanciare un referendum contro l’avvio della sperimentazione de «La scuola che verrà». Una presa di posizione, quella democentrista, annunciata a soli sei mesi dall’inizio della fase di sperimentazione. Fase pilota che, nel caso in cui le 7’000 firme fossero raccolte entro il termine dei 45 giorni previsto, slitterebbe ancora di un anno. E la conferma giunge dallo stesso Bertoli: «È un peccato, già abbiamo subito il rinvio l’anno scorso, e questo sarebbe il secondo stop al progetto. Infatti, in caso di riuscita del referendum, sarebbe troppo tardi per poter partire come previsto a settembre».
Sulla genesi del referendum il direttore del DECS si dice in parte perplesso: «Dal punto di vista procedurale i motivi sono democraticamente corretti, ma dal profilo della trasparenza e della deontologia politica mi permetto di esprimere dei dubbi». Bertoli lancia quindi una frecciatina al fronte contrario al progetto: «Il referendum credo poggi su due questioni. Da un lato la volontà espressa anche onestamente dal presidente dell’UDC di profilarsi, utilizzando la scuola come terreno di scontro eminentemente politico, in vista delle elezioni del prossimo anno. Atteggiamento questo che non è illegittimo, ma semmai indelicato perché la scuola è di tutti, oltre che un’istituzione estremamente delicata e sulla quale avrei preferito che una battaglia non si facesse. La seconda questione invece è più un confronto di visioni. La nostra proposta intende ammodernare la scuola ticinese secondo la tradizione, che è da sempre inclusiva e permette di dare ai docenti la possibilità di seguire uno per uno i ragazzi e all’interno di un contesto unico. Invece la proposta che La Destra aveva portato avanti era quella di una scuola selettiva, dove i bravi vincono mentre gli altri non si sa dove vanno a finire».
Ora resta da capire quale sarà la composizione definitiva del fronte referendario. Certo il sostegno di AreaLiberale e UDF, al riguardo i rappresentanti della Lega al momento preferiscono ancora non sbilanciarsi.
Io non avrei sollecitato il voto del Parlamento confidando nell’appoggio dei tre partiti citati (e tenendo conto delle importanti condizioni poste, nel merito e nella procedura sperimentale).
C’è un filo che unisce la scuola che verrà al voto sull’educazione alla cittadinanza
Non posso scordare, per restare ai temi scolastici, che pochi mesi fa il Ticino era stato chiamato alle urne sull’Educazione alla cittadinanza, per avallare una decisione parlamentare della maggioranza dei parlamentari, poi fatta propria dal popolo (v. Ecco perché non si deve banalizzare l’educazione civica).
Ricordo, per chi ha la memoria corta e/o a geometria variabile, com’era andato il voto in Gran Consiglio:
presenti 85
favorevoli 70 (La Destra 4, Lega 19, Montagna Viva 1, PLR 16, PPD 17, PS 8, Verdi 5)
contrari 9 (MPS-PC 2, PLR 3, PS 4)
astenuti 4 (PLR)
Esprimendosi sull’Educazione alla cittadinanza ci si esprimeva anche su una visione della scuola. Già in quell’occasione erano emersi i soliti trasformismi, il più appariscente dei quali è stato, a parer mio, quello del Partito socialista, che è il partito del ministro Manuele Bertoli: in quell’occasione aveva sostenuto il voto contrario durante la campagna in vista del voto popolare, benché in parlamento i contrari erano stati solo 4 (su 12 votanti).
Il voto parlamentare su La scuola che verrà è stato, peraltro, ben più sfumato:
Non so se il giovane d’anni e già vecchio presidente dell’UDC cantonale ha frequentato la scuola media, quasi sicuramente sì. Probabilmente era già la scuola che aveva abbassato il livello di istruzione (a volte, scherzando con amici – anche loro già insegnanti – veniamo a dire che se la scuola pubblica, media e liceo, fosse stata più rigorosa e quindi meno generosa, certi giovani e non più giovani… leoni della politica ticinese non sarebbero lì dove sono, con grande guadagno per loro stessi e per chi deve sopportarli, soprattutto per chi deve sopportarli).
A questo punto – benché le 7’000 firme per la riuscita del referendum non siano ancora state raccolte – possiamo chiederci davvero come sarà la scuola che verrà, quella del futuro prossimo, perché chi ha promosso il referendum non si limita a chiedere lo statu quo, e nemmeno un semplice miglioramento della scuola pubblica e obbligatoria di questi anni.
L’idea è invece un’altra, punta alla selezione precoce delle future élite – poi, dall’élite in giù, ci si può immaginare la possibile scala gerarchica. Se ciò succedesse ci allontaneremmo ancor più dal modello virtuoso delle scuole dell’Europa settentrionale (v. Qual è il segreto della scuola finlandese?) e rischieremmo di avvicinarci a taluni sistemi scolastici asiatici, noti per le procedure “scientifiche” di selezione dei quadri, ma anche per gli elevati tassi di suicidio tra i giovani.
A quel punto qualcuno dovrà pur assumersi le responsabilità del disastro civico e culturale.
Personalmente avrei scelto la prima Scuola che verrà, quella del 2014, senza livelli e senza soglie per l’accesso alla formazione terziaria attraverso la scuola medio-superiore.
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