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Schtrunk!

Avevo concluso «A cosa potrà mai servire proporre Ovidio a ragazzini di dieci anni?» con toni tra l’apocalittico e l’ironico, mettendo insieme una celebre battuta di Fantozzi e l’attualità della scuola dell’obbligo. Sempre più spesso, avevo scritto, sono lì lì per spararla grossa e parafrasare il Fantozzi Rag. Ugo: «Per me… La scuola dell’obbligo…». Mi ero fermato lì, per evitare ruzzoloni scatologici. Un lettore del mio blog ha però voluto commentare, frugando in YouTube: 92 minuti di applausi.

Nella sua rubrica settimanale su Il Caffè del 27 settembre 2015, Renato Martinoni ha citato un bell’articolo che Pier Paolo Pasolini aveva pubblicato sul Corriere della Sera nel 1975. Martinoni fa sua, nel titolo e pur con gli inevitabili e necessari distinguo, la duplice proposta pasoliniana di quarant’anni fa: Abolire la scuola e oscurare la tivù – un titolo che, per certi versi e da altri punti di vista, fa il paio con quella mia conclusione, un poco sovversiva, dell’articolo appena citato.

Non conoscevo questo articolo di Pasolini, di grande interesse, che si può leggere nell’archivio del Corriere della Sera (oppure lo si può recuperare qui).

Pier Paolo Pasolini al Festival del Film di Locarno del 1973 (la foto è mia).
Pier Paolo Pasolini al Festival del Film di Locarno del 1973 (la foto è mia).

L’anno precedente questo grande intellettuale – poeta, scrittore, regista, sceneggiatore, drammaturgo, editorialista e giornalista: ma la «definizione» è perfino riduttiva – aveva pubblicato uno «Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia», sempre sul Corriere della sera (10 giugno 1974, col titolo «Gli italiani non sono più quelli»), completato il mese dopo (11 luglio 1974) con «Ampliamento del “bozzetto” sulla rivoluzione antropologica in Italia», apparso sul settimanale politico «Il Mondo» sottoforma di intervista a Guido Vergani. Tra l’altro ne avevo parlato in un precedente articolo: Di competenze, conoscenze, valutazioni e regole del gioco.

Entrambi gli scritti sono stati pubblicati nel bel volume Scritti corsari: ho l’edizione dell’editore Garzanti del 1975; lo stesso editore ha nuovamente dato alle stampe il volume nel gennaio del 2015. È una raccolta di articoli, pubblicati tra il gennaio del 1973 e il febbraio del 1975, che bisognerebbe conoscere, anche perché sono anni che hanno profondamente marchiato l’Occidente e la scuola, non solo quella dell’obbligo.

Ai tempi della mia formazione professionale, alla Magistrale ancora seminariale, avevo intuito che la scuola è un Apparato Ideologico di Stato. Il mio insegnante di pedagogia era partito da Louis Althusser, il filosofo francese attivo negli anni di Claude Lévi-Strauss e di Michel Foucault. La scuola, secondo questa teoria, è uno strumento dello Stato per educare il popolo piegandolo all’ideologia dominante, a braccetto con le chiese, le università, i sindacati e i partiti politici. Mi scuso per la sintesi estrema, che naturalmente non rende giustizia al professor Althusser, e neanche al mio insegnante di pedagogia.

Oggi il quadro sembra più complesso.

Se sfoglio i Programmi per le scuole obbligatorie del Cantone Ticino del 1959 il progetto dello Stato per l’educazione dei futuri cittadini è chiaro e lineare. I Programmi per scuola elementare del 1984, invece, risentono già di quel «politicamente corretto» che sarebbe diventato più famoso qualche anno dopo, tanto che si incontrano i primi eccessi di pedagogismo, il progetto educativo si annacqua d’un certo universalismo di maniera – più cittadini del mondo che attori consapevoli in loco, almeno, umilmente, come punto di partenza – e i contenuti dell’istruzione sono attenti al massimo grado di neutralità ed equidistanza. Insomma: se nel 1959 si poteva ancora leggere che «A suscitare amore per la patria e per le sue istituzioni devono contribuire tutte le discipline scolastiche e le manifestazioni patriottiche», nel 1984 di “patri” restano solo i patriziati e il patrimonio.

Sin dalle prime righe dei programmi dell’84 si legge che «Nulla (…) di ciò che costituisce l’umanità della persona può essere trascurato nella formazione scolastica: essa favorirà lo sviluppo del pensiero, dei sentimenti, del corpo dell’allievo: lo introdurrà a una cultura che gli permetta di partecipare pienamente alla vita sociale; formerà in lui responsabilità e senso civico, la coscienza dei legami che ci uniscono agli altri e l’impegno morale». Ma ritrovare questa dichiarazione d’intenti nel corpus dei programmi è difficile.

Per giungere all’attualità più stretta, sono in arrivo i nuovi piani di studio della scuola dell’obbligo, che nascono in un contesto globalizzato mondialmente e (H)armonizzato(S) a livello svizzero. Sarà interessante vedere come sarà la Scuola che verrà, che passerà proprio, in prima istanza, da questi corposi nuovi piano di studio.

Io, che sono più vicino alle idee di scuola di un Célestin Freinet, di un Don Milani, di un Pestalozzi o di un Lombardo-Radice, faccio fatica a capire il progetto di questa scuola che perde un sacco di tempo in verifiche, tempo sottratto all’insegnamento, e che, senza dichiararlo schiettamente, è divenuta utilitarista a oltranza. Chi sia a dettare l’agenda scolastica allo Stato non è chiaro, e già questo dovrebbe costituire un motivo di apprensione.

Il che porta a chiedersi: dov’è finito il tanto vituperato Apparato Ideologico di Stato, benché le analisi marxiane non siano più di moda? Chi tiene le briglie dell’Educazione dei futuri cittadini? Magari la scuola di oggi è proprio quella che vuole la gente: più democratico di così, insomma, si muore. Si può reclamare tutto e il contrario di tutto e la politica è lì, pronta a cavalcare tutto e il contrario di tutto. Solitamente senza neanche arrossire.

Va da sé che non sono un fautore dell’illustre benevolent dictator, del dittatore illuminato; ma faccio fatica a capire perché, in pochi anni, e attraverso un movimento di sinistra com’è stato il Sessantotto, si sia arrivati a questa società così poco umana e umanista, a questo contesto sociale dominato dalla competitività più spinta e da una marea di procedure alienanti e frustranti, da una scuola selettivissima, che, al contempo, illude le persone con la balla delle pari opportunità. Ma non si sa a chi dare la colpa, non si conosce l’avversario politico, non è possibile preparare una strategia politica per combattere. Il muro è sempre più gommoso e attaccaticcio. Tutto sembrerebbe iniziato con Margaret Thatcher e Ronald Reagan, non propriamente dei politici di sinistra.

Così, visto che mi piace prendere a prestito comici e artisti del passato, sento il bisogno, per concludere, di rubare le parole a quell’indimenticabile personaggio di Charlie Chaplin che è Adenoid Hynkel: democracy schtrunk, liberty schtrunk, freesprächen schtrunk.

Educazione schtrunk.

A cosa potrà mai servire proporre Ovidio a ragazzini di dieci anni?

La parola in piazza, al mercato del giovedì.
La parola in piazza, al mercato del giovedì.

È la terza volta, in poco tempo, che torno a scrivere di «Piazzaparola», che quest’anno ha fatto conoscere Ovidio e alcune sue metamorfosi a ragazzine e ragazzini di nove o dieci anni, naturalmente adattate per la loro età e per il loro (presunto e presumibile) retroterra di conoscenze. L’ho fatto nel giugno scorso («Perque omnia sæcula vivam!») e poi ancora ai primi di settembre (Rieccomi).

Se ci torno nuovamente oggi è per due o tre ragioni che vanno al di là della classicità, dei miti dell’antichità, della manifestazione pubblica e di ogni altro motivo legato all’attualità, alla cronaca, all’autocelebrazione o alla visibilità di chi ha comunque il coraggio di sostenere proposte di tal fatta. Tra le tante cose che mi prescrive il medico a scadenze regolari, non c’è che mi debba impegnare a organizzare «Piazzaparola» o altri eventi sui generis.

Giovedì scorso, a Locarno, abbiamo ospitato poco meno di 300 alunni delle scuole elementari della regione. Nessun maestro, presumo, è stato obbligato dal suo direttore a portare la sua classe a seguire le nostre parole in piazza. Eppure si trattava di una mattinata esigente e difficile.

L’appuntamento con allievi e maestri era per le nove al Teatro di Locarno. I primi dieci minuti sono passati con il benvenuto del direttore del DFA della SUPSI, Michele Mainardi, e un’introduzione a ciò che sarebbe successo di lì a poco.

Ai giardini Rusca
Cristina Zamboni e Simona Meisser narrano due metamorfosi ai giardini Rusca, accanto alla scultura del toro che l’artista Remo Rossi (1909-1982) ha donato alla città di Locarno nel 1976.

Io e Silvia Demartini, la mia impagabile complice nelle cose di «Piazzaparola», abbiamo spiegato al nostro pubblico cosa sarebbe successo nei prossimi cinquanta minuti: perché per 23 e passa minuti la platea avrebbe ascoltato La via Lattea, l’origine del mondo dal caos, la nascita dell’uomo, in un nostro adattamento (più di Silvia che mio, a dirla tutta). D’accordo, c’era la suggestiva ed evocativa fantasia musicale di Giovanni Galfetti, composta per l’occasione; c’erano le voci suadenti di Marco Fasola e Beppe Vedani; e c’era il racconto di Ovidio, così come l’avevamo trasformato, con quel qualcosa che ancora mancava, quell’essere più nobile e più intelligente, che sapesse gestire gli altri, l’Uomo, impastato con acqua piovana e terra.

A seguire Eco e Narciso, messi in scena da Sara Giulivi e Cristina Zamboni, che hanno piegato la narrazione alle loro dolcezze attoriali: creando sul palco spoglio un pathos mica da niente.

Insomma, dieci minuti di protocollo, ventitre minuti di ascolto al buio, con alcuni giochi di luce, discreti. Poi un altro un quarto d’ora di storie d’altri tempi, ma con emozioni moderne. Eppure in quei cinquanta minuti nessuno ha fatto caciara, non ci sono stati schiamazzi da stadio, non si sono visti insegnanti furibondi, a gridare «Silenzio!» e a minacciare improbabili e feroci punizioni. Segno che i nostri ragazzi sono bene educati.

Da lì in poi, almeno per me e per Silvia, la strada è stata in discesa: è più facile raccontare storie quando ci sono la bravura e l’emozione di attrici come Sara Giulivi e Cristina Zamboni, che hanno duettato con un artista eclettico – Daniele Dell’Agnola, qui in veste di musicista, con la sua superba fisarmonica – e con un’illustratrice brava quanto affascinante – Simona Meisser. Insomma: all’udito abbiamo concesso qualche altro organo di senso in più…

Il ratto di Europa, secondo Simona Meisser.
Il ratto di Europa, secondo Simona Meisser.

Che concludere? Che si possono offrire cose difficili e impegnative anche a ragazze e ragazzi di nove o dieci anni. Che per fare cultura con i futuri adulti, i cittadini di domani, non è obbligatorio farli ridere a tutti i costi, con le banalità più grossolane e chiassose, e non è nemmeno così democratico interagire con loro minuto dopo minuto, chiedendo di esporre le tesi più improvvisate, condite dall’immancabile commento dell’adulto, che tutto sa e tutto accredita: basta divertirsi, fingere di essere alla mano, giocare al buon democratico e sdoganare ogni scemenza sparata al microfono volante dal piccolo narcisista di turno, che ha ben memorizzato le dinamiche televisive – mentre, per restare a quel giovedì ovidiano, non ha capito la storia di Narciso (a tempo debito bisognerà fargli leggere il capolavoro di Oscar Wilde, con test al seguito).

Voglio dire: in quel giovedì mattina si è dimostrato che i nostri decenni, se rispettati e presi sul serio, sanno comportarsi come o anche meglio di tanti adulti, che a certi congressi VIP magari s’addormentano o fanno i giochini con lo smartphone.

E allora, dov’è l’inghippo?

Me lo chiedo. Nei prossimi giorni chiunque potrà scaricare dal sito del DFA della SUPSI tutti i materiali utili per capire cos’è successo quel giovedì mattina. Tutto sarà disponibile al link della manifestazione: Torna Piazzaparola! Metamorfosi: storie sull’origine del mondo secondo Publio Ovidio Nasone.

«Ieri un calice si è spezzato a causa di tutto questo fracasso, e il mio vino si è rovesciato sulla mia toga nuova!», disse Bacco, dio del vino e della vendemmia.
«Ieri un calice si è spezzato a causa di tutto questo fracasso, e il mio vino si è rovesciato sulla mia toga nuova!», disse Bacco, dio del vino e della vendemmia.

 

Intendiamoci: chi ha partecipato a «Piazzaparola», quest’anno come negli anni scorsi, ha vissuto un avvenimento caratterizzato dall’essere insieme, dal vivere con altri un momento artistico emozionante. Ma i racconti di Ovidio sono lì, a disposizione di chi li vuole. Per primi, ovvio, chi era con noi, perché il piacere di ripercorrere, capire e approfondire è maggiore se legato alla partecipazione concreta. Un conto è aver visto e sentito «Eco e Narciso» recitato dalle nostre attrici, un altro conto è leggerlo personalmente.

Ma la forza del racconto resta intatta.

E allora sarebbe interessate riuscire a sensibilizzare quelle centinaia di maestre e maestri che operano lontano da Locarno, e che ben difficilmente potrebbero partecipare alle nostre offerte. Ma, ancora una volta, non mi faccio troppe illusioni: de facto Ovidio e i classici – i classici di tutte le arti – interessano poco alla scuola o alla scuola dell’obbligo. Basterebbe pensare che «Piazzaparola junior», manifestazione che a Lugano ha mosso i primi passi, da quest’anno non ha più organizzato nulla per le migliaia di allievi della grande Lugano e dell’intera regione.

E avanti con le supposizioni.

Ho detto che le maestre e i maestri che hanno accolto il nostro invito sono una quindicina. Dalla maggiore parte di loro ho riscosso, a fine mattinata, apprezzamenti molto lusinghieri. Modestamente mi vien da dire che, magari, sono stati solo educati e gentili, perché hanno rispettato un lavoro preparatorio che hanno stimato intenso e disinteressato. Ma sono sicuro che nessuno di loro, rientrato in classe, si è messo a fare i test e a dare le note agli allievi.

Proserpina - Meisser
La nascita delle stagioni nell’illustrazione di Simona Meisser.

E qui giungiamo a un punto cruciale. Questi insegnanti hanno la possibilità di arricchire la giornata rileggendo le storie di Ovidio, discutendole, confrontandole col presente, cercando di coglierne gli insegnamenti e gli intendimenti morali o etici. Volendo, potranno tuffarsi nell’antichità e nella romanità, nel greco antico, nel latino e nel percorso affascinante e appassionante della nascita delle lingue romanze. E potranno anche chinarsi sulla vicenda di quell’uomo impastato con acqua piovana e terra, così simile all’Adamo biblico, sgorgato dalla penna del poeta latino quando Gesù Cristo aveva meno di dieci anni.

Tre anni fa ho colto lo stuzzicante invito di «Piazzaparola», quello di proporre anno dopo anno del classici della letteratura e della cultura italiana ad allievi di scuola elementare. Lo faccio con passione, anche grazie a chi mi asseconda, mi sostiene o – come Silvia Demartini – fa in modo che sia possibile passare dalle chiacchiere alla realtà: perché personalmente non ho i numeri per presentare ad altri Ovidio (o Leonardo nel 2014 o Boccaccio due anni fa o chissà chi negli anni a venire).

Dopo averci pensato a lungo, Zeus decise di compiere una grandiosa trasformazione: posò lo scettro, ritirò il fulmine che era solito lanciare sulla terra e si tramutò in un enorme e maestoso toro.
Dopo averci pensato a lungo, Zeus decise di compiere una grandiosa trasformazione: posò lo scettro, ritirò il fulmine che era solito lanciare sulla terra e si tramutò in un enorme e maestoso toro.

Credo, lo credo fermamente, che queste cose così inutili, legate alle arti, siano un atto di resistenza di grande importanza al cospetto della scuola di oggi, così tecnocratica e selettiva, che sta invadendo il nostro paese, assieme a tanti altri. Perché non se ne può più di HarmoS, delle competenze, dei test, delle valutazioni a getto continuo, del disprezzo che la scuola mostra verso tutto ciò che non può essere misurato e pesato e proposto in modo utilitarista: la più grande fregatura da quando esiste la scuola pubblica e obbligatoria. Ovidio, assieme ai suoi colleghi artisti di tante discipline, è molto più importante, per la democrazia e la civiltà, di tanti usi perversi e fondamentalmente immorali che la scuola di oggi, giorno dopo giorno, infligge alle grandi conquiste umane e intellettuali, dall’antichità ai giorni nostri: dall’etica al diritto, dai teoremi di Euclide alla meccanica quantistica, dalla genetica alla robotica.

Sempre più spesso sono lì lì per spararla grossa e parafrasare il Fantozzi Rag. Ugo: «Per me… La scuola dell’obbligo…».

La memoria e le immagini: gli allievi di Ascona incontrano Paolo Di Stefano

LOGO Piazzaparola 2015 da locandinaÈ la seconda volta che ho il piacere di organizzare ad Ascona, nell’ambito degli Eventi letterari Monte Verità, un momento letterario con un gruppo di allievi di scuola elementare, nel solco tracciato da Piazzaparola, la manifestazione ideata e realizzata dalla società Dante Alighieri di Lugano.

Quest’anno l’appuntamento era per venerdì 27 marzo 2015 in Piazza Elvezia, sul magnifico lungolago di Ascona. Ad attenderci un’ottantina di allievi di 4ª e 5ª elementare delle scuole comunali del borgo. È stata l’occasione per discutere anche noi, come i convenuti al Monte Verità, di utopia e di memoria, ospitando il giornalista, critico letterario e scrittore Paolo di Stefano, autore, tra tanti altri testi di grande interesse, di un bel romanzo per ragazzi, I pesci devono nuotare, un libro del 2013 edito da Fabbri: un romanzo attuale e intenso, una storia di migrazione alla ricerca di un mondo migliore e di migliori condizioni di vita.

EventiLetterari_0284Condotto da me e da Raffaella Castagnola, ideatrice e trascinatrice di Piazzaparola, l’incontro si è sviluppato attraverso la lettura di tre brani da I pesci devono nuotare e di un capitolo di Pinocchio (il XIX, scelto dallo stesso Paolo Di Stefano: Pinocchio è derubato delle sue monete d’oro e, per gastigo, si busca quattro mesi di prigione) per la voce della bravissima attrice Cristina Zamboni. La (solo apparentemente) strana combinazione tra Pinocchio e Tawfik, il ragazzo egiziano protagonista de I pesci…, ha permesso la riflessione su alcune analogie tra i due protagonisti, sul valore dei sogni e della memoria, sul ruolo salvifico di alcuni personaggi femminili dei due romanzi (la fata Turchina e Marlene).

Gli allievi, attentissimi e interessati, hanno mostrato di apprezzare la proposta, tanto che, dopo le serie di letture e spiegazioni di noi adulti, hanno tempestato di domande Paolo Di Stefano: anche perché non succede tutti i giorni di poter dialogare con uno scrittore in carne e ossa.

È possibile scaricare qui uno dei brani da “I pesci devono nuotare” proposto agli allievi asconesi.

Ascona 2015 - 0298

Le foto sono di Ivana de Maria.

Serve una rivoluzione contro l’analfabetismo del pensiero

La nostra scuola si appresta a vivere molti cambiamenti in quest’anno appena iniziato. Per restare alle trasformazioni più appariscenti, sarà l’anno di HarmoS, che entrerà nel vivo a partire da settembre. Poi vi sarà il passaggio al Cantone dei docenti di sostegno pedagogico delle scuole comunali, ciò che dovrebbe pure comportare un potenziamento del servizio. Sul breve termine scadrà il concorso per l’assunzione del nuovo direttore del DFA, al quale spetterà il non facile compito di rasserenare l’ambiente e, soprattutto e finalmente, di dar vita a curricoli di formazione e di abilitazione degli insegnanti coerenti con gli obiettivi della casa madre – la SUPSI – e rispettosi delle attese del Paese. Restano poi nell’aria le tante proposte di riforma nella scuola dell’obbligo, contenute in due distinte iniziative popolari che hanno ottenuto migliaia di consensi: classi meno affollate, più sostegno pedagogico, più mense e doposcuola. L’enorme cantiere, a sentire i progettisti, dovrebbe servire a una migliore formazione dei nostri ragazzi e dei nostri giovani. La prova del nove seguirà tra un paio di decenni. Però non si è ancora entrati nel vivo del significato della «migliore formazione», che continua a essere un coacervo di inespresse visioni tanto o poco soggettive.
Oltre quarant’anni fa, in quell’epoca di confine tra un prima e un dopo, circolava uno slogan, che alcuni attribuivano a Ernesto Guevara: «El niño que no estudia no es buen revolucionario». Oddio, per dirla tutta questo motto non era tra i più gettonati, a favore di altri meno impegnativi. A me, che non sono comunista né lo sono mai stato, quella frase piace sempre più. Innanzitutto credo davvero che una rivoluzione, dentro tante aule scolastiche, sia auspicabile. Urge fornire i cittadini di domani e dopodomani degli strumenti per leggere il mondo: sono strumenti complicati, formati da tante competenze e nozioni che bisogna essere in grado di mettere in relazione tra loro. Si tratta di attitudini difficili da valutare nel loro complesso, ma sicuramente più vantaggiose per gli individui e per la società intera. Perché le famose «teste ben fatte» rappresentano l’ineludibile piedistallo sul quale erigere la libertà individuale, l’unico autentico cane da guardia della democrazia. Dovremmo riuscire al più presto a lasciarci alle spalle quella scuola che si vorrebbe immediatamente spendibile, a favore di un luogo di educazione a tutto campo, in cui la lingua italiana, la riflessione e la cultura tornino a essere al centro dell’azione della scuola, dei suoi istituti e dei suoi insegnanti. Una testa ben fatta, ad esempio, permette di difendersi dall’incretinimento televisivo, aiuta a intuire che non vale la pena indebitarsi per acquistare il SUV in leasing, scoraggia l’abituale sbornia del sabato sera, agevola il progetto della propria vita e consente di educare i figli consapevolmente. Con una testa così si prendono addirittura meno rischi quando si va a votare: perché è più difficile turlupinare il cittadino che, avendo imparato a riflettere sin dal suo accesso a scuola, continuerà a studiare perché c’ha preso gusto. Ho letto in questi giorni un bel libro di Valerio Varesi, «La sentenza». Ne cito un passaggio esemplare: «Dopo Ilio prese la parola Vampa, (…) e già dalle prime frasi apparve chiaro che avrebbe perso il confronto agli occhi della giuria partigiana. Il commissario politico aveva parlato con linguaggio semplice, ma efficace, mentre Vampa s’inceppava, stentava, bisticciava con le frasi e si vedeva che pensava in dialetto tentando di tradurre in italiano. Jim capì che si trattava di un processo squilibrato e che anche lì, tra i comunisti, c’erano le differenze di classe che Ilio a parole avrebbe voluto annullare. Sui venti partigiani quasi analfabeti l’eloquenza del commissario politico l’avrebbe avuta vinta comunque». L’analfabetismo di oggi non è più solo una questione di ignoranza del leggere e dello scrivere: c’è un analfabetismo del pensiero da affrontare in fretta.

La missione culturale della scuola

Ancora pochi anni fa c’era chi si scandalizzava se un ragazzetto non sapeva dove si trovasse l’Adula o se non aveva nessuna idea di cosa fossero il patto di Torre o il giuramento del Grütli. Oggi se ne parla ancora in alcune aule scolastiche, ma sembra evidente che la storia e la geografia – per non parlare di altre discipline ancor più “inutili”, quali la filosofia o la musica – non appartengono più al gotha della cultura scolastica, soppiantate dalle lingue due e tre, nonché dalle scienze più o meno esatte. Che poi i nostri giovani non brillino per le loro straordinarie competenze in questi ambiti poco importa. La vecchia storia e l’ancor più vetusta geografia sono state scalzate da tematiche ben più urgenti ed emergenti, legate in particolare all’accresciuta ampiezza del mondo, alla rapidità e alla complessità dei rapporti sociali e ai profondi cambiamenti socio-culturali intervenuti anche a livello locale, messi in evidenza dalla presenza in tanti comuni di una percentuale elevata di persone di altre lingue, altre religioni, altri usi e costumi. Ecco allora che, a partire da qualche parola magica, come integrazione e accoglienz, ci si è lanciati in decine di proposte didattiche che dovrebbero mettere le nuove generazioni in grado di conoscere gli altri, di capirli e di rispettarli. Anche in questo caso il fatto che di risultati non se ne vedano molti sembra non destare troppe preoccupazioni.
Intanto fuori dalle aule scolastiche non si sta certo con le mani in mano. L’educazione dipende sempre più dallo spettacolo offerto dalla quotidianità e amplificato dai mass media, apparentemente senza un obiettivo preciso, ma con un miscuglio caotico di intrattenimento, informazione e stimolo al consumo, dentro un sistema di valori banali e frivoli. In tale contesto i due sistemi educativi – quello scolastico e quello della comunità nel suo insieme – si ignorano reciprocamente, anche se il primo non se lo potrebbe permettere. E allora, che fare? Ha scritto il pedagogista Philippe Meirieu: «Tra gli elementi determinanti [di tale situazione], occorre sicuramente confermare la scomparsa del consenso su ciò che conviene insegnare. Un tempo era scontato che accanto all’educazione familiare, che funzionava largamente per imitazione, la Scuola doveva trasmettere ‘le belle cose ereditate dalla storia degli uomini’. Ma sappiamo bene che tale evidenza è andata in frantumi. L’idea stessa che sia necessario insegnare ‘il bello’ non trova più consensi: l’utile l’ha rimpiazzato massicciamente. Ridotta dall’utilitarismo contemporaneo al rango di ‘competenze funzionali’, la cultura scolastica si dissolve così in una moltitudine di savoir-faire senz’altra legittimità che una pertinenza inevitabilmente provvisoria, incerta e, dunque, perfettamente discutibile» (Le maître, serviteur public, 2008).
Analogamente è sotto gli occhi di tutti che la frammentazione dell’insegnamento da un lato e, dall’altro, la socializzazione-educazione trattata in termini universalistici e separata dalle discipline, quasi si trattasse essa stessa d’una materia di studio autonoma, ha portato alla diffusa ignoranza d’oggigiorno e al dileggio reiterato di chi non è come noi e non la pensa come noi. Osserva ancora Meirieu: «È impossibile ‘educare-socializzare’ sul nulla. La socializzazione si realizza a partire dagli apprendimenti scolastici e per il loro tramite». Insomma: la sopravvivenza della scuola con le finalità definite dalla sua specifica legge deve passare per forza di cose attraverso il recupero della sua missione culturale, una missione al servizio della democrazia. È un problema politico, dei politici, ma anche degli uffici dipartimentali, dell’alta scuola pedagogica e di tutti i cittadini che hanno a cuore il nostro futuro. Forse l’attuale periodo che vede per lo meno un po’ in affanno i meno-statisti e i fanatici del mercato che sistema ogni cosa potrebbe contribuire a rilanciare, attraverso la pedagogia, una scuola più attenta ai suoi obiettivi fondamentali. Da che parte vogliamo cominciare?