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Un’etica per la scuola e una deontologia per gli insegnanti

Al di là di un certo fervore riformista e d’un dinamismo concitato, sembrerebbe che mai come oggi la scuola sia avvolta da una nebbia fitta, che impedisce di intravedere il cammino da percorrere. Da diverso tempo, ormai, si fa fatica a trovare il filo del discorso, a capire se la scuola sia (ancora) al servizio del Paese, nel difficile progetto di educare futuri cittadini democratici, cólti, dotati di spirito critico, amanti del bello e del rispetto; oppure se la precedenza sia assegnata all’economia e alla produttività, con lo sforzo di fornire le necessarie competenze e, nel contempo, orientare e selezionare i lavoratori di domani. Ma la scuola non è un’impresa, nell’accezione economica del termine. In nessun caso, anche se la condivisione è sempre più vaga e sfilacciata, la scuola deve produrre utili immediatamente spendibili, al di là degli slogan un po’ logori sull’educazione come investimento per il futuro: perché bisognerebbe mettersi d’accordo sulle sue finalità, dato che le mie, per dire, sono diverse da quelle del CEO di una qualsiasi impresa «too big to fail».

Ridotto all’osso, è forse questo il quadro generale che ha indotto il Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI e l’Istituto universitario federale per la formazione professionale a organizzare, lo scorso 25 novembre a Locarno, il convegno di studio intitolato «Un’etica per la scuola. Verso un codice deontologico per l’insegnante?». In un’aula magna gremita, il tema è stato trattato da alcuni punti di vista essenziali. Il filosofo Fabio Merlini ha esposto i quesiti del convegno, muovendo, in particolare, dalla sempre più debole legittimazione sociale della scuola, per chiedersi se non sia necessario e urgente riconoscersi in un’etica condivisa. Dick Marty ha proposto una testimonianza su etica e società, con una conclusione ovvia quanto per nulla scontata: i cittadini consapevoli, con un’alta tensione etica, devono essere formati, perché consapevoli non si nasce.

Eirick Prairat, docente di filosofia dell’educazione all’università della Lorena, ha affrontato il tema con un accenno specifico alla funzione moralizzatrice dei docenti, che sono al servizio di una cultura per la costruzione della cittadinanza. Silvano Tagliagambe, filosofo ed epistemologo, ha messo a fuoco il codice deontologico dell’insegnante, sottolineando alcuni vincoli, che rappresentano confini chiari e ineluttabili: imparare è un processo lento, che non ammette scorciatoie, e l’insegnante deve avere la capacità di prendersene cura e di coltivare invenzione e creatività, dentro un sistema formativo aperto e dinamico, tenendo costantemente presente che la scuola è anche il luogo del dialogo tra generazioni diverse. Infine Marcello Ostinelli, docente-ricercatore al DFA, si è soffermato sull’ambiguità di quel ruolo, sempre in bilico tra valori interni, determinati dalle caratteristiche intrinseche della professione, e valori esterni, ricavati dall’interpretazione personale del contesto sociale e politico entro cui si esercita la professione.

È stato un convegno di elevato livello. Ora è necessario che non restino solo quello e gli atti che sono stati promessi. È importantissimo rilanciare l’etica per la scuola, che non può toccare solo docenti e dintorni, ma deve interessare l’intera nostra società, compresi quei politici che, ogni tanto, pur sapendo solo pressappoco di cosa stanno parlando, riescono ad approvare leggi inutili e a volte pure dannose. Fermarsi ora, infatti, non sarebbe eticamente accettabile: sarebbe come gettare il convegno alle ortiche.

Le proposte del ministro su HarmoS e il Piano di studi

Parrebbe che ai piani alti del nostro dipartimento dell’educazione ci sia un po’ di nervosismo. O, almeno, il clima sembra un po’ concitato. A inizio ottobre è apparsa sul Corriere una lettera aperta a Manuele Bertoli, direttore del DECS, con qualche domanda critica relativa all’obbligo della frequenza per i bambini di quattro anni. È una delle novità dell’accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria, noto come HarmoS, che sta muovendo i primi passi proprio quest’anno scolastico.

La risposta del ministro, un po’ piccata ma rassicurante, è giunta di corsa. Passa un giorno ed ecco una fulminante opinione di Lauro Tognola, uomo di scuola ora in pensione. Siamo ancora dalle parti di HarmoS e Tognola spara ad alzo zero sul «Piano di studio della scuola dell’obbligo», di recente pubblicazione. Lo giudica linguisticamente nauseante, pesante, ripetitivo e zeppo di ovvietà. E cita qualche passaggio un poco astruso: la «rendicontazione sociale dei risultati della produttività dell’azione scolastica» o la «pietra angolare intorno a cui si sviluppa la proposta curricolare», tanto per dirne un paio.

Anche stavolta, nel giro di ventiquattr’ore, giunge la risposta di Bertoli, che parte proprio dalla lingua del documento: «Può darsi – concede il ministro – che il linguaggio possa qua e là apparire ostico, ma il piano di studio non è un bestseller, bensì uno strumento di lavoro per i docenti».

Il problema non è la qualità letteraria del Piano o lo slancio appassionato che la trama del racconto dovrebbe scatenare. Tuttavia l’intreccio ha le sue singolarità e il linguaggio, qua e là, è ostile, condito con dosi smodate d’un pedagogichese fumoso benché di moda: ciò che non contribuisce a spianare la strada all’intento dichiarato di «affrontare la formazione in modo esplicito».

La chiarezza e il divieto perentorio di equivocare, o di interpretare secondo i propri comodi, sono irrinunciabili, soprattutto se si intende dar vita a una svolta storica, che rivolti la scuola come un calzino e, con alcune mosse ben studiate, dia scacco matto a tutti i suoi problemi, a partire dalla pesante selezione che interviene già dopo la seconda media, benché sia socialmente predisposta con largo anticipo.

Questo è l’anno del passaggio concreto ad HarmoS e ai suoi comandamenti. Poi ci si immergerà nell’ormai celebre «Scuola che verrà», un progetto che sarà presentato in primavera, dopo il lancio pubblicitario di un anno fa.

Non so da dove salti fuori questa fregola della rivoluzione copernicana a tutti i costi. Per iniziare sarebbe stato più utile avere il coraggio politico di metter mano alla Legge della scuola, per chiarire se la scuola dev’essere al servizio del Paese, dell’economia e della finanza, o di chi altro. In altre parole, bisognerebbe dichiarare a chiare lettere se la scolarizzazione obbligatoria a quattro anni deve mirare con determinazione alla formazione di base elevata di ogni futuro cittadino, oppure se sia più conveniente intervenire precocemente sulla selezione degli individui in base a criteri tutti da definire (si potrebbe chiedere ad Avenir Suisse, a costo zero).

Chi segue questa rubrica sa da che parte sto. I programmi della scuola dell’obbligo chiamano a gran voce essenzialità e chiarezza. Qualcuno, frattanto, dovrà spiegarci quando, come e con quali mezzi si procederà all’informazione dei docenti sul nuovo Piano di studi, come supplemento alla normale formazione continua.

Schtrunk!

Avevo concluso «A cosa potrà mai servire proporre Ovidio a ragazzini di dieci anni?» con toni tra l’apocalittico e l’ironico, mettendo insieme una celebre battuta di Fantozzi e l’attualità della scuola dell’obbligo. Sempre più spesso, avevo scritto, sono lì lì per spararla grossa e parafrasare il Fantozzi Rag. Ugo: «Per me… La scuola dell’obbligo…». Mi ero fermato lì, per evitare ruzzoloni scatologici. Un lettore del mio blog ha però voluto commentare, frugando in YouTube: 92 minuti di applausi.

Nella sua rubrica settimanale su Il Caffè del 27 settembre 2015, Renato Martinoni ha citato un bell’articolo che Pier Paolo Pasolini aveva pubblicato sul Corriere della Sera nel 1975. Martinoni fa sua, nel titolo e pur con gli inevitabili e necessari distinguo, la duplice proposta pasoliniana di quarant’anni fa: Abolire la scuola e oscurare la tivù – un titolo che, per certi versi e da altri punti di vista, fa il paio con quella mia conclusione, un poco sovversiva, dell’articolo appena citato.

Non conoscevo questo articolo di Pasolini, di grande interesse, che si può leggere nell’archivio del Corriere della Sera (oppure lo si può recuperare qui).

Pier Paolo Pasolini al Festival del Film di Locarno del 1973 (la foto è mia).
Pier Paolo Pasolini al Festival del Film di Locarno del 1973 (la foto è mia).

L’anno precedente questo grande intellettuale – poeta, scrittore, regista, sceneggiatore, drammaturgo, editorialista e giornalista: ma la «definizione» è perfino riduttiva – aveva pubblicato uno «Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia», sempre sul Corriere della sera (10 giugno 1974, col titolo «Gli italiani non sono più quelli»), completato il mese dopo (11 luglio 1974) con «Ampliamento del “bozzetto” sulla rivoluzione antropologica in Italia», apparso sul settimanale politico «Il Mondo» sottoforma di intervista a Guido Vergani. Tra l’altro ne avevo parlato in un precedente articolo: Di competenze, conoscenze, valutazioni e regole del gioco.

Entrambi gli scritti sono stati pubblicati nel bel volume Scritti corsari: ho l’edizione dell’editore Garzanti del 1975; lo stesso editore ha nuovamente dato alle stampe il volume nel gennaio del 2015. È una raccolta di articoli, pubblicati tra il gennaio del 1973 e il febbraio del 1975, che bisognerebbe conoscere, anche perché sono anni che hanno profondamente marchiato l’Occidente e la scuola, non solo quella dell’obbligo.

Ai tempi della mia formazione professionale, alla Magistrale ancora seminariale, avevo intuito che la scuola è un Apparato Ideologico di Stato. Il mio insegnante di pedagogia era partito da Louis Althusser, il filosofo francese attivo negli anni di Claude Lévi-Strauss e di Michel Foucault. La scuola, secondo questa teoria, è uno strumento dello Stato per educare il popolo piegandolo all’ideologia dominante, a braccetto con le chiese, le università, i sindacati e i partiti politici. Mi scuso per la sintesi estrema, che naturalmente non rende giustizia al professor Althusser, e neanche al mio insegnante di pedagogia.

Oggi il quadro sembra più complesso.

Se sfoglio i Programmi per le scuole obbligatorie del Cantone Ticino del 1959 il progetto dello Stato per l’educazione dei futuri cittadini è chiaro e lineare. I Programmi per scuola elementare del 1984, invece, risentono già di quel «politicamente corretto» che sarebbe diventato più famoso qualche anno dopo, tanto che si incontrano i primi eccessi di pedagogismo, il progetto educativo si annacqua d’un certo universalismo di maniera – più cittadini del mondo che attori consapevoli in loco, almeno, umilmente, come punto di partenza – e i contenuti dell’istruzione sono attenti al massimo grado di neutralità ed equidistanza. Insomma: se nel 1959 si poteva ancora leggere che «A suscitare amore per la patria e per le sue istituzioni devono contribuire tutte le discipline scolastiche e le manifestazioni patriottiche», nel 1984 di “patri” restano solo i patriziati e il patrimonio.

Sin dalle prime righe dei programmi dell’84 si legge che «Nulla (…) di ciò che costituisce l’umanità della persona può essere trascurato nella formazione scolastica: essa favorirà lo sviluppo del pensiero, dei sentimenti, del corpo dell’allievo: lo introdurrà a una cultura che gli permetta di partecipare pienamente alla vita sociale; formerà in lui responsabilità e senso civico, la coscienza dei legami che ci uniscono agli altri e l’impegno morale». Ma ritrovare questa dichiarazione d’intenti nel corpus dei programmi è difficile.

Per giungere all’attualità più stretta, sono in arrivo i nuovi piani di studio della scuola dell’obbligo, che nascono in un contesto globalizzato mondialmente e (H)armonizzato(S) a livello svizzero. Sarà interessante vedere come sarà la Scuola che verrà, che passerà proprio, in prima istanza, da questi corposi nuovi piano di studio.

Io, che sono più vicino alle idee di scuola di un Célestin Freinet, di un Don Milani, di un Pestalozzi o di un Lombardo-Radice, faccio fatica a capire il progetto di questa scuola che perde un sacco di tempo in verifiche, tempo sottratto all’insegnamento, e che, senza dichiararlo schiettamente, è divenuta utilitarista a oltranza. Chi sia a dettare l’agenda scolastica allo Stato non è chiaro, e già questo dovrebbe costituire un motivo di apprensione.

Il che porta a chiedersi: dov’è finito il tanto vituperato Apparato Ideologico di Stato, benché le analisi marxiane non siano più di moda? Chi tiene le briglie dell’Educazione dei futuri cittadini? Magari la scuola di oggi è proprio quella che vuole la gente: più democratico di così, insomma, si muore. Si può reclamare tutto e il contrario di tutto e la politica è lì, pronta a cavalcare tutto e il contrario di tutto. Solitamente senza neanche arrossire.

Va da sé che non sono un fautore dell’illustre benevolent dictator, del dittatore illuminato; ma faccio fatica a capire perché, in pochi anni, e attraverso un movimento di sinistra com’è stato il Sessantotto, si sia arrivati a questa società così poco umana e umanista, a questo contesto sociale dominato dalla competitività più spinta e da una marea di procedure alienanti e frustranti, da una scuola selettivissima, che, al contempo, illude le persone con la balla delle pari opportunità. Ma non si sa a chi dare la colpa, non si conosce l’avversario politico, non è possibile preparare una strategia politica per combattere. Il muro è sempre più gommoso e attaccaticcio. Tutto sembrerebbe iniziato con Margaret Thatcher e Ronald Reagan, non propriamente dei politici di sinistra.

Così, visto che mi piace prendere a prestito comici e artisti del passato, sento il bisogno, per concludere, di rubare le parole a quell’indimenticabile personaggio di Charlie Chaplin che è Adenoid Hynkel: democracy schtrunk, liberty schtrunk, freesprächen schtrunk.

Educazione schtrunk.

«La buona scuola è innanzi tutto un’idea»

È bello, di tanto in tanto, imbattersi in qualche opinione sulla scuola che sia in grado di sfuggire ai discorsi che s’ispirano alle solite tiritere, in parte conservatrici e in altra parte utilitariste, ma nel complesso attente ai tornaconti individuali o di casta, tanto da rasentare spesso la bugia.

È il caso di un bell’articolo di Ernesto Galli Della Loggia apparso sul Corriere della sera di domenica 8 marzo 2015 con un doppio titolo: La scuola cattiva è questa, in prima pagina, con un rimando diretto alla situazione italiana e alle attuali proposte di riforma, e La visione che manca alla buona scuola a pagina 28.

Lo storico e pubblicista italiano sta alla larga dalla baraonda delle tesi e contro tesi che caratterizzano un po’ dappertutto le pseudo-discussioni sull’istituzione scolastica, ma risale alle sorgenti. Scrive che «La buona scuola non sono le lavagne interattive e non è neppure l’introduzione del coding, la formazione dei programmi telematici; non sono le attrezzature, e al limite – esagero – neppure gli insegnanti. La buona scuola è innanzi tutto un’idea. Un’idea forte di partenza circa ciò a cui la scuola deve servire: cioè del tipo di cittadino – e vorrei dire di più, di persona – che si vuole formare, e dunque del Paese che si vuole così contribuire a costruire».

E ancora: «La scuola – è giunto il momento di ribadirlo – o è un progetto politico nel senso più alto del termine, o non è. Solo a questa condizione essa è ciò che deve essere: non solo un luogo in cui si apprendono nozioni, bensì dove intorno ad alcuni orientamenti culturali di base si formano dei caratteri, delle personalità; dove si costruisce un atteggiamento complessivo nei confronti del mondo, che attraverso il prisma di una miriade di soggettività costituirà poi il volto futuro della società. La scuola, infatti, è ciò che dopo un paio di decenni sarà il Paese: non il suo Prodotto interno lordo, il suo mercato del lavoro: o meglio, anche queste cose ma soprattutto i suoi valori, la sua antropologia, il suo ordito morale, la sua tenuta».

Siamo insomma lontani anni luce dai soliti discorsi che infarciscono le campagne elettorali, quelli con un fervorino agli imprenditori e uno ai sindacati, qualche proposta per risolvere tutto – l’educazione civica, il salmo svizzero, il tablet, le varie “educazioni mirate”… – e tanta, tanta ipocrisia.

Ne tenga conto chi vede volentieri una “nuova e diversa” scuola che verrà e chi, invece, sta facendo di tutto per non lasciarla neanche partire. Nell’uno come nell’altro caso la sostanza delle cose non cambierà.

Naturalmente non m’illudo che, così all’improvviso, chi è nella stanza dei bottoni sia capace di uscire dai percorsi tradizionali (e conservatori). Lo dico dunque così, per scaramanzia. Però, secondo me, ha ragione Galli Della Loggia: la scuola o è un progetto politico nel senso più alto del termine, o non è.

 

[È possibile risalire all’articolo nel sito del Corriere della sera – La scuola cattiva è questa – o scaricarne il testo qui.]

Chi si ricorda più del «Profilo degli insegnanti»?

Si trattava in realtà di un documento del dicembre 2007, così definito: «Per profilo professionale è intesa la descrizione accurata delle competenze e dei comportamenti attesi dai docenti e riferiti  al lavoro in sezione con gli alunni,  alla preparazione,  alla formazione,  alla vita di istituto,  alle relazioni con i colleghi, le autorità, i genitori, la comunità locale»: mica minuzie. Il documento, come ho accennato, aveva avuto una larga diffusione, benché si trattasse di una proposta in consultazione e non ancora di una sorta di contratto impegnativo tra le parti. In particolare l’avevano ricevuto, oltre ai soliti uffici cantonali e gli ispettorati, i direttori, l’Alta Scuola Pedagogica, le autorità comunali, le associazioni magistrali e la Conferenza cantonale dei genitori. Naturalmente, anche la stampa ne aveva parlato, erano apparsi articoli e riflessioni, c’erano state serate pubbliche. Non mi interessa qui entrare nel merito di questo «Profilo», che chiunque può consultare nella sua versione originale e incompiuta (basta digitarne il titolo in un qualsiasi motore di ricerca). Invece vi sono un paio di dettagli di un certo interesse, anche per capire le cose di questo cantone e della nostra scuola. Nella lettera che accompagnava la trasmissione del documento si può leggere che «tra i numerosi fattori che concorrono a determinare la qualità del complesso sistema scolastico, la professionalità dei vari attori è e rimarrà uno degli elementi centrali. Per questo motivo il Collegio degli ispettori ha riservato una riflessione importante, nel corso di questi ultimi tre anni scolastici, alla figura e al mandato dei docenti di scuola dell’infanzia ed elementare». Infatti già il 23 novembre 2006 il direttore dell’USC, prof. Mirko Guzzi, aveva presentato un documento, a quell’epoca un pochino diverso, ai direttori delle scuole comunali, riuniti in seduta plenaria a Sementina. Solo che il titolo era un altro: «Valutazione docenti». I direttori avevano applaudito l’iniziativa, ma avevano altresì consigliato, con un po’ di sdegno, di non “bruciare” tutto sull’altare della valutazione. Anzi: meglio togliere del tutto l’accenno alla valutazione e pensare invece a valorizzare i docenti. Ohibò: vuoi vedere che chi vive di valutazione quotidiana, ha poi paura della valutazione? Tant’è. Sta di fatto che per la fine del 2010 gli ispettori avrebbero dovuto esaminare il «Profilo» nell’ambito dei loro nove circondari e inviare poi il loro parere e le loro proposte all’USC, affinché il documento fosse calibrato e approvato dal DECS, per diventare quindi uno strumento operativo e impegnativo per valorizzare, correggere, aiutare, formare e, perché no?, liberarsi degli insegnanti «diversamente bravi»… Il circondario di cui facevo parte – il VI – aveva fatto i compiti e aveva inviato entro i termini le sue riflessioni e le sue proposte: mi sembra un documento interessante e per questo motivo lo metto a disposizione di chi fosse interessato [Profilo professionale – Documento del VI circondario] E qui sta la seconda curiosità, perché non se n’è saputo più nulla.