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Il sogno pedagogico di un uomo di scienza

Capita, ogni tanto, che qualche amico o conoscente mi segnali articoli, libri, situazioni o documenti tratti dal web. Nel grande magma dell’informazione oggi si trova proprio di tutto.

Oggi pomeriggio mi è arrivata la segnalazione del video di una conferenza. Il titolo mi ha incuriosito, visto che il tema – o, almeno, la parola chiave, «competenze» – è famosa un po’ in tutta la Svizzera e genera non poche inquietudini: «Per una scuola delle competenze, non dei voti».

Si tratta di una conferenza di una decina di minuti, tenuta in un teatro da tale Salman Khan: mai sentito nominare. Come tutti ho dato un’occhiata alla rete e, con quel nome, ho trovato un attore indiano, una stella di Bollywood. Mica possibile.

Allora ho affinato la ricerca e ho trovato quel che cercavo: Salman Amin Khan è un educatore e imprenditore bengalese, naturalizzato statunitense. Diciamo che la voce Wikipedia in inglese è un po’ meno fuorviante rispetto alla versione italiana. Per tagliar corto, Salman Khan ha alle spalle tre titoli conseguiti al prestigioso MIT, Massachusetts Institute of Technology: due bachelor in scienze e in matematica, poi un master in ingegneria elettronica e informatica, a cui ha aggiunto un altro master a Harvard.

Ecco la presentazione del video: «Costruireste mai una casa su fondamenta lasciate a metà? Naturalmente no! Perché, allora, avanziamo a marce forzate lungo i programmi scolastici quando gli studenti non hanno ancora assimilato i concetti di base?»

Cosa racconta durante la breve conferenza quest’uomo di scienza e imprenditore dell’educazione, fondatore della Khan Academy? Prendetevi dieci minuti e guardatela, perché ne vale la pena: è chiara e accessibile, a tratti divertente.

Per un pedagogista «classico» come potrei essere io, la vera notizia non è quel che racconta, che si rifà sostanzialmente a tanti anni di storia della pedagogia: da Rousseau e Pestalozzi, per giungere a Célestin Freinet e Don Lorenzo Milani, senza scordare quel grande movimento utopistico e pacifista che è stata la Ligue Internationale pour l’Éducation Nouvelle, l’unica lega che mi sento di applaudire, quella fondata a Calais, nel 1921, da personaggi quali John Dewey, Jean Piaget, Maria Montessori, Beatrice Ensor, Adolphe Ferrière e Elisabeth Rotten.

Per contro la notizia da prima pagina è che sul pulpito c’è uno che normalmente, nelle nostre scuole medie, medio-superiori e terziarie, non muoverebbe un dito per proibire le monoclassi e le certificazioni annuali, per sopprimere i dannosi, costosi e dispendiosi livelli della scuola media e i tassi spropositati di bocciatura al liceo; perché invece  costoro stanno vigili e sornioni all’ombra delle barricate, a difendere e rafforzare tutti i bracci armati della scuola pubblica.

E invece cosa dice il nostro professore bengalese?

Per esempio che non si può continuare un percorso di apprendimento se vi sono anche delle seppur minime lacune.

«In un’arte marziale – dice – ci si esercita sulle abilità di cintura bianca fino ad assimilarle bene, e solo a quel punto si avanza e si diventa una cintura gialle. Anche gli strumenti musicali si imparano così: continuate a esercitarvi sul brano più semplice, e solo quando l’avete imparato bene passate a uno più avanzato».

Di transenna: è un principio già applicato da Freinet sessanta e più anni fa col suo sistema dei brevetti.

Aggiunge: «Tradizionalmente a scuola raggruppiamo tutti gli studenti di solito per età. Poi, durante la scuola media, li dividiamo per età e voti, e li spingiamo come pecore tutti allo stesso ritmo. Così di solito succede che, diciamo in una lezione di pre-algebra alle medie, dove si insegnano gli esponenti, l’insegnante fa una lezione sugli esponenti. Poi andiamo a casa e facciamo un po’ di compiti. Il mattino dopo correggiamo i compiti. Poi un’altra lezione, compiti, lezione, compiti. Questo continua per circa due o tre settimane, e infine c’è un test. In quella verifica, magari io prendo un 75%, tu forse il 90% e lui il 95%. E anche se il test ha rivelato alcune nostre lacune – io non avevo un quarto del programma, e c’era un 5% che anche lo studente migliore non sapeva – l’intera classe passerà all’argomento successivo, probabilmente più avanzato, che prevede cioè la conoscenza delle lacune. Potrebbero essere i logaritmi o gli esponenti negativi. Il processo continua e subito emerge l’assurdità della situazione».

Chi mi ha segnalato questo filmato ha chiosato: «Sant’Iddio, quanto vero è ciò che afferma e propugna questo docente indiano: tutti possono farcela a capire e ad appropriarsi della conoscenza e, quindi, della cultura». Ma, sostiene lui, dobbiamo cambiare a fondo il nostro modo di insegnare!

Ma toh!?

Io aggiungerei: la scuola dello Stato – dai politici agli insegnanti, dai funzionari ai direttori, dagli studenti ai genitori – deve smetterla di essere indifferente alle differenze, deve rispettare la storia e il profilo culturale e cognitivo di ognuno, deve continuare a garantire le pari opportunità in entrata, ma poi deve battersi affinché vi sia concretamente l’opportunità di raggiungere risultati elevati per ognuno all’uscita dalla scuola dell’obbligo.

Per finire, ecco il sogno e l’auspicio del professor Khan, l’attualizzazione di aspirazioni pedagogiche centenarie e mai realizzate, quelle di una pedagogia che dovrebbe far rima con democrazia e benessere e, stavolta sì!, con delle pari opportunità che non restino fermi ai blocchi di partenza.

Non sarebbe solo ‘una gran bella cosa’. Penso che sia un imperativo sociale. Stiamo uscendo da quella che chiamereste l’era industriale e stiamo entrando nella rivoluzione dell’informazione. È chiaro che sta succedendo qualcosa.

La società industriale era piramidale. Alla base della piramide serviva lavoro umano. In mezzo alla piramide c’era l’elaborazione dell’informazione, ossia una classe di burocrati, e in cima alla piramide c’erano i proprietari del capitale, vale a dire gli imprenditori e la classe intellettuale, creativa.

Ma sappiamo cosa sta già succedendo, entrando nella rivoluzione informatica. Il fondo di questa piramide, l’automazione, sta decollando. È l’elaborazione dell’informazione, è la specialità del computer. Come società dobbiamo chiederci: tutta questa produttività sta avvenendo grazie alla tecnologia, ma chi vi partecipa? Sarà solo la cima della piramide? In tal caso, cosa faranno gli altri? Che ruolo avranno?

Oppure facciamo qualcosa di più ambizioso? Cerchiamo cioè di invertire la piramide, con una grande classe creativa, dove quasi tutti possono partecipare come imprenditori, artisti, ricercatori.

Non penso che sia utopistico. Credo che in realtà sia tutto basato sull’idea che se lasciamo attingere al loro potenziale padroneggiando i concetti, riuscendo a gestire in autonomia la propria formazione, le persone possono farcela. Pensateci: da cittadini del mondo è veramente esaltante. Pensate al genere di equità che potremmo avere, e a che passo la civiltà potrebbe progredire.

Quindi sono molto ottimista. Penso che sarà un periodo molto esaltante in cui vivere.

Anch’io, a dirla tutta. Con dei lunghi momenti di grande sconforto.

Perché vivano Janusz Korczak e i suoi insegnamenti

Sul numero di novembre 2016, il mensile Illustrazione Ticinese, rivista familiare illustrata fondata nel 1931, ha dedicato il suo servizio di copertina al direttore del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI, oggi noto con la sigla DFA, che sarebbe poi la vecchia scuola magistrale cantonale: Michele Mainardi. Tra scienza, formazione e apprendimento.

Ne parlo in questa sede – al di là della segnalazione del servizio, interessante di per sé – per un dettaglio che non sarà sfuggito agli addetti ai lavori o presunti tali (benché sia necessario lasciare aperto qualche spiraglio al sospetto…). La scheda biografica che correda il reportage si conclude con una dichiarazione che sicuramente non è fortuita: «Pedagogo di riferimento: Janusz Korczak, un dottore ebreo riuscito nell’impresa che sembrava folle, di far funzionare una comunità di orfani nel ghetto di Varsavia».

[Su Janusz Korczak si veda la voce in Wikipedia; meglio ancora – purtroppo è solo in tedesco – si può consultare il sito del Janusz Korczack Institut].

Korczak è un autore che è entrato nella storia della pedagogia e delle idee pedagogiche solo in tempi recenti. All’epoca della mia formazione pedagogica, dapprima alla Magistrale negli anni ’70, poi all’università di Ginevra dieci anni dopo, non ricordo di averlo incontrato. Eppure il suo contributo all’educazione di bambini e adolescenti ha ancora una forza insolita e autorevole. Korczak non è «soltanto», mi si passi l’avverbio, uno degli ispiratori e dei padri fondatori della Carta internazionale dei Diritti del bambino. Ha scritto Philippe Meirieu: Profondément convaincu que l’enfant a le droit d’exister et d’être respecté en tant que tel, il énoncera, pour la première fois, l’idée de «droits de l’enfant». Il n’est pas, pour autant, partisan du laisser-faire, bien au contraire. Toujours exigeant, il met en place des dispositifs permettant à l’enfant de surseoir à ses impulsions (comme la «boîte aux lettres» où l’on écrit demandes et griefs, le «parlement» qui statue sur les règles nécessaires au fonctionnement de la collectivité, le tribunal, la gazette, etc.).

Ho parlato più volte di Janusz Korczak in queste pagine. Mi piace rammentare A settant’anni dalla morte di Korczak a Treblinka (Corriere del Ticino, 8.9.2012) e il più recente Per capire e (ri)conoscere la barbarie (29.10.2016). In quest’ultimo scritto suggerivo la lettura di un bell’album illustrato, coi testi di Philippe Meirieu e le illustrazioni di PEF: Korczak. Perché vivano i bambini (2014, Editore Junior). Nei giorni scorsi l’amico Pino Boero, professore ordinario di Letteratura per l’infanzia e Pedagogia della lettura presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova, mi ha segnalato un altro bellissimo libro destinato a ragazzi dai 10/11 anni: «L’ultimo viaggio. Il dottor Korczak e i suoi bambini» (di Irène Cohen-Janca, con le illustrazioni di Maurizio A. C. Quarello): come sempre, i libri per bambini e ragazzi dovrebbero interessare tutti gli educatori, dai genitori in là.

IRÈNE COHEN-JANCA, MAURIZIO A. QUARELLO, L’ultimo viaggio. Il dottor Korczak e i suoi bambini, 2015, Orecchio Acerbo Editore

Si può leggere nell’ultima pagina del volume, dopo la fine del racconto, così intenso e commovente:

Poveri e senza famiglia, di migliaia di bambini – ebrei, ma non solo – Janusz Korczak si prese cura per oltre trent’anni. Pediatra, subito capì che per prendersene davvero cura alla medicina avrebbe dovuto affiancare la pedagogia. Nacque così una delle più straordinarie esperienze che la storia ricordi, con i bambini protagonisti attivi della loro crescita, della loro formazione.

Un’esperienza che continuò anche tra le mura del ghetto di Varsavia, con Janusz Korczak sempre al fianco dei suoi bambini.

Né, pur potendo, volle abbandonarli quando i nazisti decisero di trasferirli, per l’ultimo viaggio, nel campo di Treblinka.

La sua impronta, insieme a quelle dei suoi bambini, resta, indelebile, nella Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza approvata dall’Onu a New York il 20 novembre del 1989.

È giusto, o almeno lo sarebbe, far conoscere agli adolescenti questa figura di Uomo, un medico, che ha creduto profondamente e intensamente nel potere dell’educazione. Sarebbe bello se anche gli insegnanti, i Maestri del mondo intero, riuscissero a mettere l’educazione in vetta agli obiettivi della loro quotidianità, ben prima di pensare alle competenze più o meno disciplinari e alle immancabili valutazioni: che quasi sempre sono il certificato del riconoscimento sociale, dell’esclusione o degli esami di riparazione.

L’insegnamento di Janusz Korczak – e di tanti altri – dovrebbe interrogare e intrigare ogni insegnante, soprattutto quelli della scuola pubblica e obbligatoria: che non è stata pensata e istituita per selezionare le élite – che sarebbe come dire per dare una spintarella a chi comanderà in un futuro più o meno prossimo – ma per ragioni ben più alte e fondatrici.

Oltre tante invenzioni della moderna tecnocrazia didattica, sarebbe utile andare sempre al cuore delle preoccupazioni e delle riflessioni che hanno ispirato le donne e gli uomini che hanno fatto la storia delle idee pedagogiche. Il contributo di Korczak ci dice che il rispetto si impara vivendolo, attraverso la mediazione di un adulto consapevole. Per logica deduzione ci dice anche che non ci sono altre scorciatoie didattiche per arrivarci: perché il Rispetto è figlio della Cultura.

Nel frattempo abbiamo letto che Michele Mainardi lascerà la direzione della scuola magistrale a fine agosto 2017, ma continuerà, al DFA, a guidare il Centro di competenza denominato Bisogni educativi, scuola e società: l’augurio è che gli insegnamenti di Janusz Korczak e di chi gli è pedagogicamente vicino possano diventare quanto prima uno gli elementi centrali della formazione dei docenti di ogni ordine e grado. Perché l’approccio epistemologico alla professione di educatore prima e di insegnante poi sta diventando un imperativo etico.

La porta, a questo punto, sembrerebbe aperta: con un sorriso ottimista.

© Foto Gabriele Campeggio, Illustrazione Ticinese, N° 11-Novembre 2016

Un ricordo piacevole, una bella storia

La Rivista, mensile illustrato del Locarnese e valli, ha pubblicato una toccante intervista a Dario Catti, un ragazzo affetto da distrofia muscolare (N° 11/2016). Nato nel 1995, Dario ha frequentato per due anni la scuola dell’infanzia di Locarno. Nel 2001/02 iniziò la 1ª elementare alla scuola pratica annessa alla Scuola magistrale cantonale, con la maestra Silvana Fiori. Alla fine di quell’anno scolastico la Scuola magistrale, nel frattempo diventata Alta Scuola Pedagogica, rinunciò alla scuola pratica e la chiuse, così che allievi e docenti confluirono nelle Scuole comunali di Locarno.

Dario continuò la sua avventura nella scuola elementare alla sede dei Saleggi, in 2ª ancora con la maestra Fiori, per poi frequentare il II ciclo nella classe del maestro Angelo Morinini. Ricordo con tanto piacere quell’esperienza, perché la scuola fece il possibile per agevolarlo, facilitandone gli spostamenti, dal momento che la malattia avanzava rapida e inesorabile. I maestri, dal canto loro, lo accolsero con grande sensibilità, senza mai trattarlo con pietismo, ma pretendendo ciò che lui poteva e doveva dare.

Ho il ricordo incancellabile del giorno in cui, il 9 giugno 2006, fu festeggiato assieme ai suoi compagni nella corte interna del Castello visconteo. Al momento della consegna delle licenze di scuola elementare, iniziai proprio da lui. «Siete più di cento – dissi, rivolgendomi agli allievi e al pubblico che li applaudiva – per cui ci vorrà un po’ di tempo. Non c’è un ordine preciso per chiamarvi, né alfabetico né – ci mancherebbe – basato su altre classifiche. Ma, stavolta, voglio fare un’eccezione e cominciare con un allievo al quale la vita ha voluto mettere qualche ostacolo in più, ma che comunque ha dimostrato di saperci fare, malgrado le difficoltà: Dario Catti».

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Naturalmente non voglio qui vantare meriti che non ho. Mi ero limitato a far sì che non si alzassero ostacoli oltre a quelli che già c’erano. Dario era un ragazzo in gamba, sostenuto da una famiglia che non ha mai preteso la luna, ma solo il rispetto verso un figlio svantaggiato, certo, ma senza inadeguatezze che avrebbero potuto suggerire machiavelliche esclusioni (scolastiche). I maestri che hanno avuto a che fare con lui erano bene in chiaro sul ruolo della scuola pubblica e obbligatoria, e operarono coerentemente: con rigore e sensibilità, senza nessun pietismo manierato.

Naturalmente si potrebbe dire che questo tipo di accoglienza dovrebbe valere per tutti i bambini e i ragazzi che sono obbligati a frequentare le nostre scuole. Ma, senza i buonismi tanto di moda, bisogna pur dire che, ogni tanto, l’inclusione deve fare i suoi conti mettendo a confronto i sogni con la realtà (si veda «L’inclusione tra sogni e realtà», un testo di due anni fa, che mi sembra ancora molto attuale).

Dice: «Tutta un’altra scuola! (quella di oggi ha i giorni contati)»

Tutta un'altra scuolaNel mese di luglio il Corriere del Ticino ha dedicato quattro pagine ad alcune segnalazioni librarie da parte delle sue firme (le quattro puntate sono apparse il 7, il 12, il 14 e il 28 luglio). Ho avuto il piacere di poter proporre anch’io un libro, e – pensa te! – ho scelto un argomento scolastico: Tutta un’altra scuola! (quella di oggi ha i giorni contati) di GIACOMO STELLA (2016, Giunti Editore, p. 128, € 10).

Che la scuola di oggi abbia i giorni contati non è ovviamente un dato certo. Ma questo pamphlet è una lettura assai tonica per tutti quelli che soffrono mal di pancia infiniti a contatto con «l’esperienza più importante della nostra vita»: una scuola vecchia con il vestito nuovo. Detto dei «10 motivi per cui la scuola fa male», l’autore spiega come e perché la scuola potrebbe essere un posto dove la paura non esiste, un luogo da cui guardare il mondo dei grandi non per distruggerlo, ma per cambiarlo. Tutto lì.

Trovo utile che sui temi della scuola, la scuola come istituzione, siano pubblicati di tanto in tanto libri per il grande pubblico, fuori da quel grande terreno troppo spesso recintato col filo spinato solitamente gestito dagli addetti ai lavori. Un esempio di due anni fa (che peraltro non mi aveva granché elettrizzato, malgrado il successo editoriale…) è L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, di Massimo Recalcati (2014, Einaudi).

Giacomo Stella è conosciuto in Italia e in Europa per i suoi studi sulla dislessia e, in genere, sui disturbi specifici di apprendimento. Ed è proprio osservando a scuola tanti allievi in difficoltà che è nata la sua riflessione, riassunta nel titolo di uno dei primi capitoli: «La cosa più grave che si può fare a scuola è sbagliare». Appunto.

Eccoli qua, allora, i «10 motivi per cui la scuola fa male (lo faccio per il tuo bene)»:

  1. Non riesci a imparare le tabelline? Devi ripassarle tutti i giorni e fare i calcoli senza la tavola pitagorica. Devi sforzarti, altrimenti non imparerai mai. È per il tuo bene!
  2. Sottolinea tutti i miei errori di ortografia in rosso. Ogni pagina sembra un campo di battaglia. «Correggi tutto e ricopia in bella grafia. È per il tuo bene!».
  3. Devi scrivere in corsivo. Mi rifiuto di leggere i tuoi temi se sono scritti in stampato, eppoi alle medie non si può scrivere in stampatello. Usare il computer? Troppo comodo ragazzo mio, bisogna esercitarsi per ottenere risultati. Lo dico per il tuo bene.
  4. Alle prove di verifica ho sempre tutto il compito come gli altri: fotocopie che non riesco a leggere con parti da completare. Se non riesco a finire la maestra mi fa stare in classe durante la ricreazione per terminare. Gli altri giocano e io scrivo. Perché? «Per il tuo bene!»
  5. L’inglese non lo capisco per niente. Le lettere non si leggono mai allo stesso modo. L’insegnante però dice che devo studiare perché l’inglese è importante eppoi lei non può fare differenze con gli altri. L’inglese è una lingua indispensabile per comunicare. Ma allora, se serve per comunicare, perché non posso impararlo solo all’orale? «È per il tuo bene!».
  6. Non hai risposto con sicurezza all’interrogazione, come al solito non hai studiato abbastanza. Eppoi mi chiedi di essere comprensiva con te, per le tue difficoltà. Cosa dovrei fare? Darti la sufficienza? No, non posso farlo, debbo darti un voto insufficiente, così la prossima volta studierai di più. Lo faccio per te, per il tuo bene!
  7. Non riesco a ricordare a memoria i verbi ma la prof dice che me li chiederà tutti i giorni. Lo fa per il mio bene.
  8. Ho ricevuto una nota perché non prendo appunti durante le lezioni. lo non riesco a scrivere e ascoltare. Ho chiesto di registrare la lezione, ma mi hanno detto che non si può, per la privacy.
  9. Leggere ad alta voce davanti a tutti, incespicandomi a ogni parola con il sottofondo delle risatine dei miei compagni. Perché? «Per il tuo bene».
  10. Non amo la scuola, detesto gli insegnanti e quando i miei genitori mi dicono di studiare mi chiudo in camera mia e ascolto la musica. Lo faccio per il mio bene.

Non si tratta, a ben vedere, di pratiche scolastiche che nuocciono solo a bambini e ragazzi affetti da disturbi particolari, ad esempio di natura neurologica. Sappiamo invece, e lo vediamo giornalmente, che tante abitudini così presenti tra le quattro mura dell’aula arrivano a produrre disagio e insuccesso scolastico per le cause più diverse, dalla plus-dotazione intellettuale alle differenze socio-culturali, passando naturalmente per tante tipologie di disturbi specifici dell’apprendimento.

Che poi la scuola di oggi abbia i giorni contati è ancor tutto da vedere. Come ho scritto più volte in queste Cose di scuola, bisognerebbe avere il coraggio intellettuale e politico di andare a toccare le strutture portanti della scuola stessa, che appare obsoleta a diversi livelli malgrado i continui cambiamenti interni, le riforme, le trasformazioni delle didattiche… Ma, ad esempio, non si è ancora in grado – in particolare nella scuola dell’obbligo – di superare il vetusto e iniquo dispositivo delle valutazioni reiterate, dei voti più o meno inappellabili, delle differenze enigmatiche tra un 4½ e un 5.

Tutta un'altra scuola - INDICE

La lettura di questo Tutta un’altra scuola! è piacevole, disseminata di esempi riconoscibili da chiunque, senza far capo a tecnicismi utili solo a confondere le acque. E tra un tema e l’altro, sempre presi dalla quotidianità, Stella ci conduce per mano dal decalogo introduttivo a un dodecalogo di speranze, per descrivere tutta un’altra scuola, una scuola che è il posto migliore dove andare.

  1. Perché imparare è eccitante e farlo con i miei amici è bellissimo.
  2. Perché i docenti sono sempre disponibili e sorridenti. Puoi chiedergli qualunque cosa, non gli dai fastidio, si può anche scherzare con loro.
  3. Perché posso dire sempre quello che penso ed essere ascoltato dagli altri. Il docente difende la mia idea come quella di tutti gli altri.
  4. Perché le mie idee contano, sono importanti e ho imparato ad ascoltare anche quelle degli altri.
  5. Perché a scuola trovo sempre gli strumenti migliori e si possono vedere e provare sempre le ultime novità.
  6. Perché è un posto dove posso stare quanto voglio e trovare sempre qualcuno che mi ascolta e mi dà nuove idee.
  7. Perché è un posto dove posso scegliere di fare cose diverse: musica, cinema, teatro, sport.
  8. Perché non mi sento mai uno stupido, non ho più paura di sbagliare, sento che quello che faccio è sempre qualcosa di utile.
  9. Perché sto meglio a scuola che a casa da solo e non sempre i miei mi ascoltano.
  10. Perché rispettare le regole non ci pesa. Valgono per tutti e quindi siamo tutti uguali.
  11. Perché siamo tutti belli e brutti, bravi e un po’ stupidi, capaci e incapaci, ma stiamo bene insieme.
  12. Perché la mia scuola è un posto dove la paura non esiste. Siamo tutti insieme, stiamo bene e ci sentiamo sicuri. Guardiamo il mondo da lì, guardiamo il mondo dei grandi, non vogliamo distruggerlo, vogliamo cambiarlo.

Anche i compiti a casa servono a marcare le disuguaglianze

Il sito de La Repubblica ha pubblicato il 21 luglio scorso un articolo di un certo interesse, cucito col tono un po’ scanzonato che si addice al caldo di questi giorni: Milano, la disobbedienza delle mamme sui compiti delle vacanze: “Diritto al riposo per i bimbi”. (Qualora non si riesca e leggerlo in repubblica.it lo si può scaricare qui). Racconta della «protesta organizzata in una scuola elementare, dove è partita la rivolta d’estate: “I nostri figli si danno da fare tutto l’anno, ora devono giocare e riposare”». Il succo della protesta delle mamme è già nel titolo.

Curiosi anche diversi commenti dei lettori. Scrive tal Yuri Pomè: «ma che scuole hanno fatto quelle mamme? i compiti a casa e durante le vacanze ci sono sempre stati!! il problema è che oggi i compiti li fanno i genitori e non i figli. a me mai mia madre o mio padre mi facevano i compiti, al massimo chiedevo aiuto». Gli fa eco un certo rocgreg: «Sì dai facciamoli crescere tutti ignoranti… incapaci di formulare una frase di senso compiuto e di intrattenere rapporti sociali… bella roba!!!». Aggiunge Attilio Gusmaroli: «Il trionfo dell’ignoranza e del non far niente ha obnubilato i cervelli di queste mamme. Abituare i propri figli in questo modo, ovviamente dando a loro in pasto tablet e smartphone, utili solo a mandare il cervello in “pappa” sortirà solo un effetto: crescere una generazione di incapaci buoni solo per fare gli scaricatori nei mercati generali. Ma nemmeno saranno capaci di fare ciò e vivranno alle spalle di questi genitori. PS I miei genitori erano altra cosa e li ringrazio ancora oggi nell’avermi educato allo studio che mi ha dato cultura e mi ha dato anche un ottimo tenore di vita». E via sentenziando.

Nelle scuole elementari ticinesi vigono da alcuni decenni norme pertinenti per disciplinare i compiti a casa, riunite in modo chiaro in due documenti con lo stesso titolo, I compiti a domicilio, uno per gli insegnanti, l’altro per i genitori. Sono norme senza data, quindi attuali, sottoscritte dal Collegio degli ispettori delle scuole elementari; e, malgrado i tanti cambiamenti in atto, erano certamente ancora validi l’anno scolastico passato. Si legge infatti nelle Disposizioni per gli insegnanti del giugno 2015 che «… nella riunione d’inizio anno, ai genitori dovranno essere presentati in modo particolare gli obiettivi educativi e le competenze che s’intendono raggiungere e sviluppare con gli allievi così come il senso dei compiti a domicilio; ricordiamo le indicazioni contenute nel testo Compiti a domicilio tuttora valide sia per i genitori sia per gli insegnanti».

Tuttavia bisogna dire che, come succede con tante direttive scolastiche, tra il dire e il fare c’è di mezzo il solito mare. Questa dei compiti a casa è una delle tante norme di solito trascurate. I compiti appartengono ai dogmi della scuola. L’insegnante che non li prescrive con regolarità pignola e un poco ottusa rischia di passare per un mollaccione, uno dal quale gli allievi avranno poco da imparare. L’abitudine di assegnare compiti a casa è un segno distintivo, informa che si è un insegnante di quelli di una volta, uno che è riuscito a non lasciarsi infettare dalle menate psico-socio-peda proliferate nel Sessantotto.

D’altra parte la protesta delle mamme milanesi non è proprio nuova. Ne avevo già scritto oltre dieci anni fa, prendendo spunto da un articolo apparso sul Corriere della Sera a firma Barbara Palombelli, che avevo intitolato La scuola e il dramma dei compiti a domicilio (Corriere del Ticino, 24.11.2004). E avevo ripreso il tema stimolato da una mamma, che mi aveva scritto: «La maestra di mio figlio dice di aver ricevuto una direttiva, secondo la quale non si possono più dare compiti, nemmeno di recupero, neanche nelle vacanze o nei fine‐settimana. Mio figlio era contentissimo, ovviamente io molto meno!» (I compiti a casa, una tradizione che resiste al passare del tempo, Corriere del Ticino, 5.11.2012).

Vignetta i compiti a casa
Vignetta tratta dal blog di Barbara Gaiardoni, pedagogista

Reputo che la protesta delle mamme meneghine sia insopportabile. I commenti… anche.

Mi sa che le madri che hanno deciso di non cedere e di andare fino in fondo (tanto ci sarà sempre qualche mass-media bendisposto), siano proprio lombarde DOCG, senza troppi assilli rispetto alla propria identità economica, culturale e sociale. E a quella della prole.

Il guaio è che a scuola ci devono andare anche gli altri, quei figli che non sanno da che parte cominciare con questa storia dei compiti. Così capita che in zona cesarini salti fuori un compito non fatto, e il papà o la mamma dànno una mano, tra una ramanzina e uno sbadiglio. Ma non è detto che quel papà o quella mamma sia in grado sul serio di dare una mano al piccino: e a quel punto la frittata è servita.

Fino a tre anni fa dirigevo una scuola frequentata da tanti poveri diavoli, spesso alle prese con un’integrazione difficile e, alle spalle, una famiglia che s’arrabattava per arrivare a fine mese. Era una lotta continua con i maestri particolarmente compito-dipendenti. Credo che, con equilibrio, convenga tenere sveglio e attivo il cervello sempre, anche sotto l’ombrellone o all’ombra di un larice. Il dubbio è che la scuola, ogni tanto, chieda i compiti (serali, fine-settimanali, estivi, natalizi, carnevaleschi, pasquali…), senza pretendere il cervello acceso proprio mentre si è in classe, obbligati a essere a scuola.

In questi casi anche i compiti a casa si trasformano in esaltatori delle differenze e dei ritardi.