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La scuola non deve abbandonare nessuno

Ormai siamo alla frutta, pur avendo saltato diverse portate. Così è arrivato il momento di chiudere con la domanda delle domande: ma che scuola è la scuola dell’obbligo ticinese, quella che termina con la licenza di scuola media (anche se non a tutti va bene)? Dipende dai punti di vista.

Nei confronti internazionali la scuola ticinese esce sempre con buoni voti. Prendiamo PISA, che è la verifica più conosciuta e che ogni tre anni valuta in tre ambiti – lettura, matematica e scienze – il livello dei quindicenni di una sessantina di paesi industrializzati. Da noi le analisi si concentrano su paesi simili al nostro: i paesi confinanti, alcuni paesi bilingui (tra cui il Canada) e la Finlandia, che sin dalle prime indagini PISA ha ottenuto risultati tra i migliori del mondo. Per contro, non avrebbe un gran senso il confronto con paesi culturalmente diversissimi.

Se guardiamo i punteggi ottenuti nell’ultimo rilevamento (2018) vediamo che la scuola svizzera è risultata, in media, tra le migliori di questo gruppo e che quella ticinese è tra le migliori in Svizzera. Ma le medie, come si sa, descrivono alcune cose e ne tralasciano altre. In tutti i paesi scolarizzati ci sono i primi della classe, in proporzioni diverse. Ma dall’altra parte della classifica ci sono quelli così tanto lontani dalla media da risultare del tutto incompetenti nei tre settori considerati. In Svizzera sono circa uno su dieci.

Diceva don Milani che «la scuola ha un problema solo, i ragazzi che perde». Non siamo più negli anni ’50 dell’Italia rurale – non lo siamo più da un pezzo – eppure, ancor oggi, c’è un numero importante di ragazzi che a venticinque anni non ha in mano lo straccio di un diploma: tanto che il cantone Ticino ha istituito la norma che mira ad assicurare che tutti i giovani residenti, dopo la scuola obbligatoria e fino alla maggiore età, siano seguiti e accompagnati in un progetto individuale di formazione che permetta loro di ottenere un diploma – ad esempio un certificato di formazione professionale. È difficile pensare che, tra gli allievi malmessi già alla fine della scuola obbligatoria, non vi siano quelli che si erano già persi prima, e che continueranno a brancolare senza un orizzonte.

I confronti internazionali servono anche a mettere in luce queste difficoltà dei sistemi formativi, benché di solito si tenda a mettere sotto i riflettori i cannonieri, le partite vinte e il posto in classifica. Il paese ha bisogno anche dei suoi campioni, ma il compito della scuola dell’obbligo è un altro. Sono convinto che per mirare all’educazione di futuri cittadini consapevoli, critici e liberi serva in primo luogo un ambiente sereno, che accolga e accompagni tutti. Il numero dei «fuori classifica», sommato a quello dei «minimo per la sufficienza», non fornisce grandi garanzie di cooperazione e di crescita. La competizione per stare a galla assorbe troppe energie preziose.

Non so in cielo, ma a scuola non è vero che gli ultimi sono beati, anzi. D’accordo, non siamo al punto di quegli stati dove la competitività scolastica esasperata ti porta a buttarti giù da un ponte se boccheggi o fallisci. Ma forse sarebbe utile sostenere con maggiore convinzione quelle discipline, che già fanno parte dei piani di studio, come la storia, la geografia e le arti – senza scordare la filosofia – che contribuirebbero a un’educazione civica più viva e sensata.

Insomma, proprio per chiuderla qui: «La scuola potrebbe fare di più!», per usare un’espressione che le è tanto cara.


Qualche nota, oltre l’articolo

In occasione di tutti i miei articoli pubblicati sul Caffè a partire dal 1° novembre, il giornalista Andrea Bertagni ha curato le Analisi di tanti operatori della scuola ticinese sui temi che avevo proposto. È stato certamente un lavoro non facile, anche perché i tempi sono sempre stati molto stretti. Lo voglio ringraziare per questo lavoro prezioso. Non ho mai messo il naso nelle sue scelte, solo in pochi casi posso dire che conoscessi la persona invitata a parlare dei «miei» temi. Questa è l’ultima Analisi pubblicata, un colloquio con la maestra Raffaella Moresi, che, appunto, non conosco.


Oggi il Caffè è uscito per l’ultima volta. Ha scritto in prima pagina il suo direttore Lillo Alaimo:

GRAZIE. Questa è l’ultima edizione del Caffè, nato 28 anni fa come quindicinale e 23 anni fa diventato settimanale. Un grazie particolare va ai lettori che in questi anni ci hanno premiati. Riconoscenza va a coloro che hanno contribuito alla nascita e alla crescita di questo giornale. Non può mancare un augurio a quanti e a quanto verrà dopo il Caffè, «la Domenica».

Poche parole che dicono molto sulla chiusura del domenicale, che era stata annunciata, sempre in prima pagina, sull’edizione del 9 maggio.

Segnalo due articoli pubblicati in quei giorni su Naufraghi/e:

Questa è stata l’ultima puntata della mia collaborazione con il Caffè. Era iniziata il 12 luglio di un anno fa, con una seria di cinque articoli, Verso la ripresa delle lezioni – si andava  all’apertura di un nuovo anno scolastico, dopo le tribolazioni di Covid-19 – l’ultimo dei quali era apparso sull’edizione del 30 agosto. Poi la collaborazione è continuata sulla scorta di un accordo con il direttore Lillo Alaimo, che non ho neanche rispettato fino in fondo [La formazione scolastica alla prova del tempo. Materia per materia così la scuola si rinnova].

Quest’ultimo contributo parla, indirettamente, del perché non ho rispettato a 360° la proposta di Lillo Alaimo (ma gliel’avevo detto, non ho ordito nessun intrigo).

È stata una bella esperienza. Grazie.

La cultura professionale non può nascere dal nulla

La storia delle idee pedagogiche – che non si deve confondere con la storia delle istituzioni scolastiche – è un percorso che dura da secoli, innescata da quei pensatori che, nell’antichità, erano pure scienziati o matematici: basti pensare ad Aristotele, che già nel IV secolo a. C. affermava che le cose che bisogna imparare, «prima di farle noi le apprendiamo facendole: per esempio, si diventa costruttori costruendo, e suonatori di cetra suonando la cetra». Col passare dei secoli il quadro si è vieppiù affollato e ha arricchito il dibattito di idee e sperimentazioni con gli sguardi del medico, dello psicologo, del sociologo…

Continuo a essere convinto che la storia delle idee pedagogiche sia un strumento che non può mancare nella cassetta degli attrezzi di chi opera nella scuola. È una storia appassionante, con temi che, anche in tempi recenti, non hanno mancato di innescare discussioni accese. Si pensi a Pestalozzi, che nel 1798 accoglieva a Stans gli orfani della rivoluzione francese, bambini e ragazzi allo sbando: «erano nella condizione alla quale conduce l’estrema degenerazione della natura umana. Arrivavano con occhi pieni d’angoscia e con fronti cariche di rughe della diffidenza e della preoccupazione, alcuni pieni di audace sfrontatezza, abituati alla mendicità, all’ipocrisia e ad ogni falsità, altri oppressi dalla miseria, pazienti ma sospettosi, incapaci di amore e timorosi».

Pestalozzi e gli orfani di Stans nel 1798.

Nella storia della pedagogia vi sono molte vicende appassionanti. Potrei raccontare di Janusz Korczak e dei suoi ragazzi del ghetto di Varsavia, dove elaborò interessanti strategie per risolvere i conflitti tra allievi – prima di essere deportato con i suoi ragazzi nel campo di sterminio di Treblinka nel 1942. O quella di un altro medico, Jean-Gaspard Itard, convinto che fosse possibile educare chiunque (la sua storia è quella raccontata dal film «Il ragazzo selvaggio» di Truffaut). O, ancora, delle esperienze di Jean Piaget, Don Lorenzo Milani, Maria Montessori, Célestin Freinet, la nostra Maria Boschetti-Alberti, tanto per citare qualche nome tra i più popolari.

Quest’anno ricorre il centenario della fondazione della Lega internazionale per l’educazione nuova (LIEN), che fu fondata a Calais nel 1921 e che, nel 1927, tenne a Locarno il suo IV congresso, con oltre mille partecipanti provenienti da ogni continente. Nelle intenzioni dei suoi fondatori LIEN riunisce e promuove quel movimento che, ancora oggi, si ispira alla scuola attiva, alla collaborazione e alla cooperazione tra allievi. Essa appartiene alla storia delle idee pedagogiche e quel congresso fu ospitato dalla scuola normale di Locarno.

A festeggiare il centenario dell’Educazione nuova anche in Ticino non ci sarà però il DFA, erede istituzionale della scuola normale di un secolo fa. Da oltre un trentennio la formazione dei docenti non passa più dalla storia delle idee, degli ideali, e, sì, a volte anche delle utopie, che per tanti anni hanno ispirato le politiche scolastiche e contribuito a costruire le democrazie.

Credere che sia possibile reinventare una nuova pedagogia per questi tempi complicati dimenticando la storia dell’educazione – che a volte si è incrociata con la storia della scuola – è una scelta vanitosa o imprudente,  perché la cultura professionale non può nascere dal nulla. Le epoche e i contesti economici, culturali e sociali dove questa storia ha proseguito il suo percorso non erano semplici, né banali.

A questo punto ci si potrebbe pure chiedere chi sono i cattivi maestri.


Nota aggiuntiva

Mi piace, in questa occasione, pubblicare il parere del prof. Franco Zambelloni, interpellato da Andrea Bertagni, giornalista del Caffè, e pubblicato dal domenicale insieme al mio articolo (uscito col titolo Non si può non conoscere la storia della pedagogia).

«Zambelloni ha insegnato filosofia e pedagogia nei licei del Cantone Ticino», ha scritto Bertagni. Ma Zambelloni è pure stato direttore della scuola magistrale di Lugano, che ebbe vita breve negli anni ’70.

In quegli anni la massa di studenti che frequentavano la magistrale “storica”, quella di Locarno, per diventare insegnanti di scuola dell’infanzie, elementare e di economia domestica indusse l’istituzione di una sede a Lugano, dapprima solo per le prime tre classi (il quarto anno, quello più professionalizzante, si svolgeva ancora a Locarno), poi come istituto completo e autonomo, alla guida del quale si alternarono Franco Zambelloni e Alberto Cotti.

L’avventura della vecchia scuola magistrale, però, stava per giungere al capolinea. È in quegli anni che, oltre allo storico liceo di Lugano, furono istituiti i licei di Bellinzona, Locarno e Mendrisio. Ed è pure di quegli anni la decisone di trasformare la scuola magistrale da seminariale (vi si accedeva a quindici anni) a post-liceale.

Per la cronaca: entrata in funzione nella seconda metà degli anni ’80, la magistrale post-liceale divenne poi Alta Scuola Pedagogica (ASP) nel 2002, più o meno in concomitanza con l’avvio del Processo di Bologna. A partire dal 2009/10 l’ASP – che era un istituto gestito interamente dal Cantone tramite il Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport – confluì nella Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana come suo dipartimento (poi denominato DFA, Dipartimento Formazione e Apprendimento).

È comunque negli anni post-liceali che inizia la lenta discesa della pedagogia nella scala dei valori della cultura professionale degli insegnanti.

L’informatica è straordinaria, ma è il mezzo e non il fine

È da una trentina d’anni che c’è chi invoca un maggiore coinvolgimento della scuola nell’ambito delle TIC, le Tecnologie dell’informazione e della comunicazione: computer, reti, telefonini, robot… Le TIC sono dappertutto, anche quando non ce ne accorgiamo. Così, di pari passo con la loro vertiginosa evoluzione, si chiede da sempre che la scuola si metta al passo coi tempi: praticamente un ossimoro.

Quando si parla di potenziare la dotazione scolastica TIC, prima del «Cosa» bisognerebbe chiedersi «Per fare cosa». Non è attrezzando le scuole di tutta la mercanzia tecnologica immaginabile che si possono risolvere problemi educativi e formativi nati ben prima del 1984 – che non è solo il titolo del romanzo di Orwell, ma anche l’anno di nascita di Macintosh, la rivoluzionaria famiglia di computer che avrebbe dato il via alla diffusione dei PC nelle nostre case e nei luoghi più inverosimili.

Però, diciamoci la verità: se, da un lato, una percentuale altissima di alunni della scuola dell’obbligo ha imparato a interagire col touch screen prima di imparare a parlare, e anche se la gran parte degli insegnanti possiede uno smartphone e probabilmente usa un computer, il sistema scuola non si è mai chinato seriamente sulla formazione degli insegnanti. In realtà si continua a dare per scontata la capacità degli insegnanti di padroneggiare www e dintorni; nel contempo non si è mai affrontata una riflessione a 360° sulle TIC e su come queste hanno cambiato da così a così l’intero contesto formativo.

Un esempio significativo l’abbiamo sperimentato giusto un anno fa. A metà marzo si sono chiuse le scuole, riaperte in maggio. In quei tre lunghi mesi, a salvare l’anno scolastico ha contribuito la scuola a distanza. Gli ostacoli sono stati tanti e di varia natura. C’era chi, a casa, il computer non l’aveva, o ne aveva uno solo per più di un figlio. Dall’altra parte dello schermo c’erano docenti che riuscivano a fornire prestazioni all’altezza, mentre altri erano del tutto a disagio, con competenze informatiche rudimentali. L’estrema urgenza ha imposto di mantenere quel minimo di contatti, benché virtuali, e di garantire la continuazione dell’attività didattica, per quanto limitata ad alcune discipline. Tuttavia è probabile che le pratiche messe in atto in quei mesi dagli insegnanti non divergessero nella sostanza dagli stili di insegnamento precedenti.

È però dimostrato che quel breve periodo di scuola a singhiozzo, con presenze ridotte e altrettanto ridotta continuazione dei percorsi didattici, abbia danneggiato soprattutto gli allievi delle fasce sociali più disagiate. In tal senso, quindi, si può dire che, almeno in quel frangente, messo in piedi in fretta e furia, gli «ambienti informatici» disponibili hanno mostrato la loro assoluta inadeguatezza pedagogica. Malgrado ciò, c’è già chi afferma che grazie alla pandemia abbiamo scoperto la scuola del futuro prossimo, precorritrice di nuovi e fantastici orizzonti formativi. Di sicuro c’è chi favoleggia una scuola a regime ibrido, un po’ in presenza e un altro po’ davanti a uno schermo, ognuno a casa propria.

Sono convinto che la tecnologia nasconda straordinarie possibilità per contribuire al progetto politico e culturale della scuola obbligatoria. Ma le TIC, di per sé, sono un mezzo, non una finalità. Si cresce e si impara attraverso l’impegno individuale, ma anzitutto lavorando in gruppo e contribuendo alla vita di quella piccola comunità di cui ciascuno è protagonista.

Le difficoltà di imparare tra ricerca e azione didattica

Una premessa doverosa

Da almeno un paio di decenni, se non di più, la nostra scuola dell’obbligo si china con attenzione su alcuni disturbi dell’apprendimento allo scopo di saperli riconoscere e proporre delle soluzione didattiche per tentare di affrontarli positivamente: penso, in particolare, a disturbi di origine neurobiologica, quali la dislessia o la discalculia.

I Disturbi Specifici dell’Apprendimento – noti in italiano con l’acronimo DSA – sono naturalmente molti e, per certi versi, le loro definizioni dipendono anche da tradizioni culturali e accademiche dei contesti scolastici nazionali e/o dalle aeree linguistiche; in tal senso la definizione generica di DSA può variare più o meno sostanzialmente da un paese all’altro. A questo proposito è curioso dare un’occhiata alle definizioni che ne dà Wikipedia nelle molteplici versioni: Disturbi specifici di apprendimento (DSA), Learning disability, Trouble d’apprentissage, Lernbehinderung, …

Al di là, tuttavia, delle definizioni, delle cause, delle ricerche, degli studi e dei riconoscimenti giuridici, è fondamentale il fatto che si tratta assai spesso di problemi di apprendimento che possono manifestarsi sin dall’età più tenera: così la scuola si accorgerà della difficoltà, senza necessariamente saperla riconoscere e, di conseguenza, trovandosi nell’imbarazzante situazione di non sapere quali strategie adottare per aiutare l’allievo a superarla – considerando pure che molti DSA si svelano proprio nell’ambito della lettura, della scrittura o dell’aritmetica, ciò che fa scattare, in un gran numero di casi, i malefici meccanismi dell’insuccesso scolastico.

Fatta questa premessa molto generica, segnalo un articolo molto interessante apparso sull’ultimo numero della rivista Scuola Ticinese, periodico della Divisione della scuola del Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport: Le difficoltà di lettura: limiti o soglie calpestabili?, di cui sono autori Sara Giulivi, docente-ricercatore presso il Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI (DFA), Claudia Cappa, ricercatrice presso l’Istituto di Fisiologia Clinica (CNR) di Pisa, e Marcello Ferro, ricercatore presso l’Istituto di Linguistica Computazionale (CNR) di Pisa.

Un dato allarmante

Gli autori partono da una constatazione: I risultati dell’ultima indagine internazionale OCSE-PISA sulle abilità di lettura e comprensione del testo restituiscono un quadro complessivamente allarmante, da cui la Svizzera, di fatto, non si discosta. Le prestazioni degli allievi ticinesi si collocano al di sopra della media nazionale; tuttavia il 17% dei ragazzi di 15 anni si colloca al di sotto del cosiddetto Livello 2 della scala OCSE-PISA, che corrisponde alle competenze di base considerate indispensabili per affrontare la vita di tutti i giorni e conseguentemente per garantire una partecipazione attiva nella società e future opportunità accademiche e professionali. Evidentemente è necessario agire in fretta, e a partire dalle fasi precedenti della scolarizzazione.

Per poi chiedersi: Da dove derivano le difficoltà che gli adolescenti incontrano quando si avvicinano a un testo scritto? Cosa si frappone, in maniera così significativa, al loro accesso al testo, alle loro possibilità di coglierne gli scopi, interpretarne i significati, metterne i contenuti in relazione con le conoscenze che già possiedono sul mondo?

Un protocollo formativo

I ricercatori hanno così messo a punto uno strumento per una valutazione ‘ecologica’ delle abilità di lettura e comprensione del testo che ha un triplice obiettivo:

  • attuare una valutazione accurata delle abilità di lettura del bambino;
  • comprendere se può contare oppure no su una lettura efficiente;
  • in caso di difficoltà, progettare un sostegno mirato.

Il protocollo di valutazione, che è stato messo a punto e testato anche grazie alla partecipazione di alcune scuole elementari e medie nella Svizzera italiana e in Italia, permette di raccogliere abbastanza facilmente una grande quantità di dati da parte degli stessi insegnanti, attraverso una piattaforma informatica, offerta per la prima volta in italiano. I test che compongono il protocollo – sottolineano i ricercatori – sono da svolgere su tablet e valutano la decodifica, la comprensione del testo in lettura silente, la comprensione del testo tramite ascolto.

Siamo, a pieno titolo, dentro una delle scelte pedagogiche fondamentali per una scuola dell’obbligo coerente con le proprie finalità: dapprima una valutazione delle abilità (in questo caso di lettura), poi la differenziazione dell’insegnamento, per poter aiutare ogni alunno ad affrontare il percorso che porta ad essere un lettore adeguato.

Scrivono i ricercatori nella conclusione che Oltre alle difficoltà, lo strumento consente di mettere in evidenza anche le prestazioni eccellenti, grazie alla struttura dei test e alle caratteristiche dei testi e delle domande che li accompagnano. Capire a fondo come ‘funzionano’ gli allievi è indispensabile per poterli sostenere al meglio negli apprendimenti. Gli insegnanti hanno in questo senso una grande responsabilità. Uno strumento come quello che è stato elaborato può aiutarli in quella che forse è la loro principale sfida quotidiana: fare in modo che le difficoltà scolastiche non siano vissute come ‘limiti’ (all’apprendimento, al successo scolastico, alle opportunità professionali, alla realizzazione personale), ma come soglie da spostare sempre in avanti o da trasformare in trampolini di lancio.

Nondimeno, una conclusione importante della ricerca appare già nella parte introduttiva dell’articolo. Scrivono gli autori che i docenti sono sempre più sensibili, informati e aggiornati sul tema delle difficoltà e dei disturbi della lettura. Ciò che ancora sfugge – proseguono – è l’estrema eterogeneità dei profili dei “piccoli lettori”, e la reale natura delle difficoltà che possono manifestarsi in età scolare. Consideriamo, per esempio, una delle cause di tali difficoltà: la dislessia, il disturbo specifico dell’apprendimento (DSA) che impedisce l’automatizzazione della decodifica del testo scritto. Si tratta di un disturbo di origine neurobiologica; ciò non significa, tuttavia, che si manifesti in modi sempre uguali o costanti nel tempo.

Dalla ricerca alla pratica

È soprattutto con l’istituzione dell’Alta Scuola Pedagogica (ASP, 2002) e il successivo passaggio dell’ASP alla Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana (SUPSI), con l’acronimo DFA (Dipartimento Formazione e Apprendimento, 2009), che il ruolo della ricerca in educazione si è imposto come ambito di formazione degli insegnanti della scuola dell’infanzia, elementare e media: difficile dire con quali risultati concreti, anche solo tenendo conto della grande e mutevole complessità di ogni sistema scolastico.

Nel caso specifico della ricerca, riassunta nell’articolo di Scuola Ticinese, siamo di fronte a uno strumento che è serve ai ricercatori per rilevare e mettere in relazione le tante variabili che differenziano le cinque grandi tipologie di lettori:

Nel contempo il medesimo strumento può diventare un utile strumento per gli insegnanti, perché fornisce un quadro complessivo che dovrebbe guidare l’organizzazione dell’insegnamento, affinché ogni allievo prosegua il suo percorso di apprendimento mirando al traguardo più alto, quello caratterizzato dall’ottima comprensione del testo e dall’ottima velocità di lettura.

In mezzo c’è tutto il resto, vale a dire, per prima cosa, la determinazione degli elementi che intralciano l’apprendimento. Del resto gli stessi ricercatori ci mettono in guardia.

Ogni dislessia […] è diversa da ogni altra e ogni dislessia evolve nel tempo insieme all’allievo. […] I DSA possono cambiare per una molteplicità di fattori, che spaziano dalle caratteristiche cognitive ed emotive del singolo, a quelle dei contesti in cui vive, agisce, apprende: la scuola, la famiglia, gli spazi di svago e socializzazione. Riuscire a gestire a scuola questo genere di complessità significa creare le condizioni per trasformare potenziali barriere in trampolini di lancio; significa permettere a tutti gli allievi, anche a coloro che devono fare i conti con un disturbo o una difficoltà di lettura, di trarre il massimo dal luogo primariamente preposto agli apprendimenti e all’educazione. [Il grassetto è mio].

Siamo quindi confrontati con una prima necessità per colmare il divario tra la teoria e la pratica: l’insegnante dovrà essere in grado di leggere i risultati per declinarli dal punto di vista dell’insegnamento e dell’eventuale efficacia che si riscontra nell’apprendimento, affinché il protocollo, che è stato messo a punto e fornito su una piattaforma “tecnicamente” facile da usare (cioè il tablet), serva a stabilire quali siano le competenze didattiche a disposizione e/o a indicare la necessità di coinvolgere altri specialisti (lo psicologo, il logopedista, il pediatra, il docente di sostegno pedagogico…). C’è quindi una prima necessità, che tocca in particolare la didattica, per affrontare adeguatamente una difficoltà o per ampliare una capacità.

Non si può dare per scontato che lo strumento per la valutazione ‘ecologica’ delle abilità di lettura e comprensione del testo messo a punto dai tre ricercatori passi dal livello scientifico a quello didattico e pedagogico come un semplice automatismo. Un conto, per fare un esempio, è registrare l’incapacità dell’allievo di rintracciare il significato generale del testo o di individuare relazioni temporali (ho pescato un po’ a caso due capacità/incapacità tra la decina elencata nell’articolo); un altro conto è sapere come intervenire con gli strumenti della didattica di fronte al risultato dell’applicazione de protocollo. Se non si agisce puntualmente per annullare il divario tra l’impianto teorico (che precede per forza di cose la messa a punta del protocollo) e l’uso pratico dei suoi risultati, si rischia che quest’ultimi si trasformino da informazioni per programmare la migliore azione educativa in sterile lista delle incapacità: ciò di cui, sul piano della selezione scolastica, non si sente proprio il bisogno.

Ma c’è un secondo elemento fondamentale, di natura più pedagogica, che si potrebbe definire come la capacità concreta di organizzare il lavoro in classe attraverso la differenziazione dell’insegnamento.

È in questo contesto che si colloca la formazione di base e continua degli insegnanti della scuola dell’obbligo. Il maestro della scuola primaria e il professore della scuola media non possono diventare degli specialisti di ogni singolo Disturbo Specifico dell’Apprendimento – e in questa accezione gli apprendimenti coinvolgono tutte le discipline. Come ha affermato Jean Piaget l’insegnamento è arte altrettanto quanto scienza; gli insegnanti sono dunque i professionisti dell’insegnamento, un po’ artisti e un po’ artigiani, che conoscono bene ciò che insegnano, ma che sono soprattutto capaci – per citare nuovamente i nostri ricercatori – di fare in modo che le difficoltà scolastiche non siano vissute come ‘limiti’ (all’apprendimento, al successo scolastico, alle opportunità professionali, alla realizzazione personale), ma come soglie da spostare sempre in avanti o da trasformare in trampolini di lancio.

Il nodo gordiano della formazione degli insegnanti è proprio nella capacità di trasformare i limiti in soglie da spostare sempre più in là; in altre parole si tratta di capire perché, eticamente e istituzionalmente, sia importante differenziare l’insegnamento, come e con quali strumenti.

Un’immagine, da un’ottica inconsueta, della sede del Dipartimento Formazione e Apprendimento (DFA) della SUPSI. È dal 1878 che questo luogo è il principale istituto di formazione dei docenti in Ticino. Nei secoli – se ne hanno tracce già nel 1316 – l’ex convento di San Francesco ha ospitato il governo cantonale, il ginnasio, la scuola magistrale seminariale e la post-liceale, l’Alta Scuola Pedagogica e, appunto, il DFA.

SARA GIULIVI, CLAUDIA CAPPA, MARCELLO FERRO, «Le difficoltà di lettura: limiti o soglie calpestabili?», in Scuola Ticinese, Periodico della Divisione della scuola Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport, N° 339: Anno L, Serie IV, 1/2021, pp. 31-37

Leggere libri non può essere solo un noioso compito a casa

Com’è un lettore efficace e competente? E, soprattutto, come lo si diventa? A scuola capita di sentirsi dire che bisogna leggere – tanto, anzi di più – per migliorare le proprie capacità di scrittura.  Il bravo lettore non si confronta solo con la letteratura e coi suoi classici – quei libri che, secondo Italo Calvino, continuano a parlare anche alle nuove generazioni, perché non hanno finito di dire ciò che hanno da dire. Ma il lettore è efficace quando ha automatizzato la comprensione dei codici linguistici e competente quando padroneggia la lingua, sa distinguere un romanzo da un saggio, un articolo di cronaca da un commento editoriale, un testo di divulgazione da un libercolo pubblicitario. Così quel lettore sarà facilitato sull’arco della scolarità e della vita, perché capace di studiare, di risolvere nuovi problemi e imparare altre lingue. Significherà pure poter leggere per il puro piacere di farlo.

Lo ha detto di recente anche il ministro francese dell’economia e delle finanze, Bruno Le Maire, che si è rivolto ai liceali della République con un messaggio sul web, ripreso subito da diverse testate: «Leggete, staccatevi dagli schermi. Gli schermi vi divorano, la lettura vi nutre. Gli schermi vi svuotano, i libri vi riempiono. Fa tutta la differenza. La letteratura e i libri vi permetteranno di scoprire quanto siete unici e fino a che punto non assomigliate a nessun altro. È quello che fa l’umanità. Ogni persona è unica. Ed è la letteratura che ce lo insegna».

Bisogna capire se la scuola è in grado di puntare a simili traguardi, sapendo che la crescita rigogliosa della nostra lingua non dipende solamente da ciò che si riesce a fare nelle aule scolastiche, in cui confluiscono allievi abituati sin da piccoli a maneggiare, guardare e leggere libri, e allievi che crescono a stento su terreni del tutto aridi. Per prima cosa occorre creare gli spazi e i tempi per favorire lo sviluppo linguistico di ognuno. Come ha annotato su queste pagine Renato Martinoni giusto una settimana fa, «complice la mancanza di letture, l’abuso dei “sòscial”, e soprattutto la pigrizia e un peso troppo limitato dato, nelle scuole, alla lingua madre, stiamo formando generazioni di gente che si illude di possedere una lingua senza purtroppo averla per davvero. Regaliamo pertanto all’italiano più ore a scuola. Non solo in quelle di italiano, ma anche in tutte le materie. Perché abbiamo urgente bisogno di una lingua. Di una lingua davvero solida».

Quando leggere diventa un noioso compito a casa o un riempitivo tra due cose reputate più importanti, si sparge l’idea di qualcosa di scarso valore. La lettura, in primo luogo, deve ritrovare il suo peso specifico dentro la scuola, nelle ore in cui l’allievo è lì. Toccherà poi all’insegnante accompagnare, guidare e sostenere le scelte di lettura,  in modo congruo alle capacità di ognuno. Anche il lavoro sui libri dovrà essere rilevante e sensato: ad esempio favorendo la condivisione, la creazione di schede critiche, la presentazione ai compagni, la discussione e il commento critico.

Museo Plantin-Moretus, Anversa (2019)

Capita invece che, avanzando nella scolarità, il tempo per la lettura e per i libri anneghi nei troppi impegni extrascolastici, che sono dominati dallo studio supplementare per far fronte alle reiterate valutazioni di materie ritenute più utili o spendibili, soprattutto in termini di valutazioni scolastiche: le lingue due e tre, la matematica, le scienze. Mentre la lettura di un libro può attendere.


Citazioni

Le parole del ministro francese dell’Economia, delle Finanze e della Ripresa Bruno Le Mair sono tratte dal sito di Repubblica del 7 febbraio 2021. Il messaggio del ministro è in YouTube: Arrachez-vous de vos écrans ! Lisez !

L’articolo di Renato Martinoni è invece apparso sul Caffè del 14 marzo 2021, nella sua rubrica settimanale «Fogli in libertà»: Più ore di italiano per imparare l’italiano.