Anch’io, come molti coetanei, quand’ero un ragazzetto dovevo sorbirmi giornalmente il notiziario. Mario Casanova, a mezzogiorno e mezzo in punto, leggeva il bollettino dell’Agenzia Telegrafica Svizzera, che qualche volta riusciva ad attirare l’attenzione anche di noi sbarbatelli, mentre è pur vero che, solitamente, non afferravamo granché, al di là della memorizzazione un po’ acritica di qualche nome della politica internazionale e nazionale (Eisenhower e Adenauer, che gran confusione). Poi capitava che se ne parlasse coi grandi, ma di solito ci si limitava ad ascoltarli, e non sempre suonavano in piena armonia. Ricordo, ad esempio, che nell’agosto del ’64 anche Radio Monteceneri dedicò diversi notiziari all’agonia, alla morte e alle esequie di Palmiro Togliatti, uomo che anche da noi non faceva certo il pieno di consensi: e giù lunghe dispute. Non rammento quando Casanova andò in pensione – e forse non c’era già più in quell’estate spensierata. Ma «quel» notiziario era «il» notiziario.
Poi taluni temi si ritrovavano sui giornali e, naturalmente, sul leggendario «Almanacco Pestalozzi», che riportava anno dopo anno i nomi dei consiglieri federali e dei governanti cantonali, accanto, un po’ alla rinfusa, a concetti di civica, di storia e di geografia; e poi l’alfabeto Morse, le regole della geometria, l’elenco dei Cantoni e molte altre nozioni ritenute importanti dalla cultura pedagogica dell’epoca. Anche se il notiziario non l’ascolto più con tale consuetudine, è quello il contesto educativo in cui si è formata la mia conoscenza della ‘res publica’ e si è sviluppato il mio senso dello Stato: un impasto di elementi formali (l’«Almanacco», qualche sporadica lezione specifica) e di situazioni informali (il notiziario subìto e le discussioni dei grandi). Poi, come no!, sentivo dire che «la politica l’è ’na roba sporca», e qualche anno più tardi scoprii l’esistenza del «tavolo di sasso», che non era solo una metafora. Ma ero già sufficientemente smaliziato per capire che, lì attorno, non sedessero solo mitici eroi da additare quali fulgidi esempi alle generazioni future.
Oggi l’educazione civica sembrerebbe diventata un affare esclusivo della scuola, soprattutto da quando, nel 2001, il Gran Consiglio ha modificato alcuni testi legislativi introducendo norme relative all’insegnamento dell’educazione alla cittadinanza – come viene chiamata oggi. Ma dalla scuola non ci si possono attendere magie, anche perché i nostri insegnanti si formano all’Alta Scuola Pedagogica, mica alla fantastica scuola per maghetti di Hogwarts. Così la recente interrogazione di Abbondio Adobati, che vuol sapere dal Consiglio di Stato quali sono i risultati di quella minuscola modifica legislativa di cinque anni fa, è per lo meno un po’ leziosa. Anche perché la risposta era già indirettamente contenuta nel rapporto della commissione speciale scolastica che aveva proposto alcune soluzioni, poi divenute norma di legge. Scriveva il relatore Franco Celio, che «lo studio delle istituzioni deve necessariamente seguire – non precedere – la sensibilizzazione all’interesse per la ‘cosa pubblica’».
Cioè a dire: per educare futuri cittadini «in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società» occorre lo sforzo di tutti. Ma la scuola – luogo privilegiato di educazione formale – non può in nessun caso raggiungere da sola obiettivi di questo tipo. Non ne era capace cinquant’anni fa, quando le dinamiche sociali e culturali erano più lineari e uniformi, ed è ancor più in affanno oggi, confrontata com’è con una moltitudine di individui che diventano maggiorenni senza essere minimamente sfiorati dal dibattito politico: perché non ascoltano nessun notiziario né seguono il tiggì, perché dei giornali leggono solo lo sport, perché asfaltopoli, il fiscogate e lo scandalo dei permessi facili – di cui avranno pure qualche eco lontana – sono solo un alibi per confermare a se stessi che la politica è una cosa sporca.
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A scuola per il piacere di apprendere
È indubbio che la scuola – soprattutto quella dell’obbligo – sta vivendo un po’ in tutto il mondo occidentale una crisi di identità che si manifesta attraverso un dibattito, a volte conflittuale, tra i partigiani dell’utilitarismo e del darwinismo educativo, e chi invece continua a credere nel potere liberatorio del pensiero e dell’educazione, allo scopo di forgiare cittadini consapevoli, competenti e democratici.
Da diversi anni la Conferenza dei Direttori degli istituti scolastici comunali del Cantone Ticino persegue un percorso di formazione e di riflessione che intende contribuire allo sviluppo di una politica scolastica basata sulla convinzione che a scuola sia più importante capire che riuscire, e che in tal senso la scuola deve diventare un luogo dove l’allievo possa sbagliare senza rischi (Philippe Meirieu, 2004). Analogamente è importante che la scuola recuperi il piacere di acquisire anche ciò che non è immediatamente spendibile: la padronanza della lingua italiana e del suo sterminato retroterra culturale, «per pensare, sentire ed essere»; le basi del linguaggio matematico, che favoriscono la speculazione intellettuale e lo sviluppo del pensiero razionale; la conoscenza della storia, delle arti e della cultura, affinché ognuno possa costruire la sua identità e contribuire con piena coscienza allo sviluppo della nostra società e alla realizzazione delle istanze di giustizia e di libertà (Legge della scuola, 1990).
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Quella scuola che sfrittella il pensiero
Questo articolo è apparso nell’inserto culturale del Corriere del Ticino del 12 gennaio 2004 (Eccolo!).
Sarà l’effetto del Supercampiello 2004, vinto con il romanzo Una barca nel bosco, fatto sta che questo La scuola raccontata al mio cane, della torinese Paola Mastrocola, è diventato in pochi giorni uno dei libri più acquistati in Italia, successo di vendite non così scontato se si pensa che il volume è una sorta di saggio su un «mestiere che non c’è più». «Io insegnavo facendo letteratura» scrive unel prologo. «Tutto qui. Per me, il mio mestiere era semplicemente questo: insegnare letteratura. Adesso, improvvisamente, direi da un giorno all’altro, chi la pensa così è tagliato fuori».
La scuola raccontata al mio cane è un’aspra e circostanziata requisitoria contro il liceo italiano, giocata sui registri dell’ironia e del sarcasmo, della rabbia e dell’amore profondo nei confronti della Scuola e della gioventù: confrontata con i POF – i cosiddetti Progetti d’Offerta Formativa della riforma morattiana – e con il primato della lingua “che comunica”, Paola Mastrocola reagisce con una forza argomentativa inusitata per denunciare senza mezzi termini una Scuola che «Si adegua pari pari al mondo, non gli va contro neanche un po’, combacia perfettamente: lo riflette, lo copia, lo reduplica. Non oppone nulla di alternativo. È una scuola che “connive” con la società. Lo so che il verbo connivere non esiste, ma vorrei usarlo lo stesso; in latino voleva dire: “chiudere gli occhi”, quindi far finta di niente, essere complici». POF e comunicazione: con i POF la scuola si prostituisce, adeguandosi a richieste bottegare, che mettono il corso di chitarra o quello di giardinaggio davanti a Dante e ad Alessandro Manzoni. La lingua “per comunicare” è l’altra perversione, che intacca e avvolge anche l’insegnamento delle lingue straniere. «La nostra prima e forse unica preoccupazione – scrive in uno tra i tanti gustosi capitoli – è di renderli in grado [gli studenti] di… andarsi a comprare la baguette a Parigi! E va anche bene così, ma… forse ci sarebbe un altro modo, più “alto”: il modo indiretto e alto della letteratura. Potrei far leggere loro i romanzi di Gide e Stendhal, le poesie di Rimbaud e Apollinaire. Lì non sta scritto come si chiede una baguette in panetteria, è vero: c’è scritto molto di più! E davvero noi crediamo che un ragazzo che sappia leggere Rimbaud non sia poi in grado di andarsi a comprare una stupida baguette? Crediamo questo veramente? Diamo così poca fiducia alla letteratura? Sì. Non la riteniamo in grado di “fornire gli strumenti adeguati”. Diamo invece un’enorme fiducia… agli strumenti adeguati in sé: insegniamo per cinque anni a chiedere una baguette! Non pensiamo che, se è facilissimo scendere da Rimbaud alla baguette, non è invece affatto facile, anzi, forse è impossibile, salire dalla baguette a Rimbaud: questo vuol dire che noi priviamo per sempre i nostri ragazzi dell’“altezza” di Rimbaud, e li releghiamo per sempre alla “bassezza” quotidiana e concreta della baguette».
Certo, il liceo italiano non è il liceo ticinese, così come l’attuale Ministero Italiano dell’Istruzione ha apparentemente poco a che vedere col più nostrano e metamorfico DECS, che in fondo – come nell’intera Europa occidentale – null’altro ha fatto se non adeguarsi alle tendenze più pacchiane e diffuse. In fondo, come annota argutamente Paola Mastrocola, il ’68 è la matrice primigenia dell’attuale stato delle cose: «… era giusto volere una scuola meno autoritaria, nozionistica, severa, elitaria, separata, astratta, non socialmente attenta. Giusto. Ma era giusto trent’anni fa! La Battaglia è stata fatta, e ha ottenuto esiti direi molto positivi. Bene. Quello che oggi mi sconcerta è il constatare che si continua imperterriti quella stessa Battaglia, una Battaglia cioè che non solo è già stata vinta, ma che oggi non ha più alcun senso combattere, dal momento che il nemico è cambiato, anzi… è esattamente il nemico opposto a quello che avevamo allora». Che fare dunque? Come tentare di avviare una nuova Rivoluzione affinché la scuola – e il liceo in particolare – riesca a uscire in fretta e con prepotenza dallo strapiombo strumentale in cui si è ficcata, in parte per comodità e in parte per cecità? Come rimediare alla realtà, che ha disinvoltamente trasformato l’utopica democratizzazione degli studi nella democratizzazione dei diplomi e dei titoli di studio?
A Paola Mastrocola piace vestire i panni dell’«avvertitore di verità». Nella fiaba I vestiti nuovi dell’imperatore «…c’è un bambinetto da nulla che, in mezzo al corteo osannante, avverte: l’imperatore è nudo!». Ed è nudo proprio in virtù di una formazione annientata dai bisogni immediati, mercantili, utilitaristici e – soprattutto – facili. Chiaro: per imboccare un nuovo corso consacrato all’educazione inutile – la letteratura italiana, secondo Paola Mastrocola; ma si potrebbero ricordare per analogia la storia e la filosofia, le lingue ‘morte’ e tutto quanto rende grande la tradizione umanistica – ci vogliono Maestri in gamba, la cui definizione non è davvero facile: «Diciamo che noi, quando uscivamo dalla lezione di un maestro, camminavamo per un bel po’ a un metro da terra. Diciamo che quel metro da terra fa la differenza. […] Diciamo che forse questo contraddistingue un maestro: ti contagia». Il problema è come misurarlo, quel metro in più, considerato che «… un insegnante che non insegna procura un danno davvero incalcolabile al singolo allievo, e quindi anche all’intera società: condanna all’ignoranza, […] quindi al vagolamento professionale infinito».
La scuola raccontata al mio cane non è e non pretende di essere un libro di pedagogia, scritto da addetti ai lavori per addetti ai lavori, e nemmeno contempla un catalogo di soluzioni. Paola Mastrocola si diverte a raccontare la sua storia di insegnante di lettere del liceo italiano, confrontata oggi con una miriade di interferenze e di pedagogismi che hanno finito per stravolgere il senso stesso della Scuola: da luogo di trasmissione e di formazione, a parco giochi e centro sociale, dove il pensiero si sfrittella invece di strutturarsi. L’autrice, che rivendica dalla prima all’ultima pagina il suo diritto di essere solo e semplicemente un’insegnante di lettere, mette in luce con grande intelligenza le derive che scaturiscono dal primato della pedagogia e della didattica sulle competenze disciplinari. Essere bravi insegnanti, oggi più di ieri, significa riuscire a destreggiarsi in perfetto equilibrio tra la profonda conoscenza di ciò che s’insegna e la cultura pedagogica per saperlo insegnare. Dal ’68 in poi si è fatto un gran parlare dell’importanza del “saper essere” e del “saper fare” rispetto al “sapere-e-basta”: ogni pedagogista accorto sa però che non è possibile costruire tali attitudini sul vuoto pneumatico. In tutta evidenza il discorso non tocca solo il liceo, né quello italiano in particolare.
Teste ben piene e teste ben fatte
Qualcuno che si firma “Una mamma di Massagno” è intervenuto sabato scorso su questo giornale per “…portare alla ribalta un’altra problematica sull’argomento «scuola», quella relativa ai programmi per la scuola elementare”. Lo so che bisogna sempre diffidare di chi si firma “Una mamma”, sia essa di Vaglio o – come in questo caso – di Massagno, perché non si sa mai bene chi scrive e per quale motivo; ma questa volta le domande poste sono tutt’altro che peregrine. La “mamma” in questione, che dice d’aver frequentato le scuole in Italia e di essere sobbalzata sulla sedia quando ha letto i nostri programmi della scuola elementare, si chiede: “Perché in Ticino un bambino di terza elementare deve affrontare un programma di storia che ha come unico oggetto il proprio nucleo familiare, più tardi la parentela più allargata? Che posto è relegato alla conoscenza dell’evoluzione dell’uomo dalla preistoria alle civiltà classiche, dalle invasioni barbariche in Europa al Medioevo, e via dicendo?”.
Brava “mamma”, belle domande. Qualche normale cittadino, leggendo la lettera, avrà trovato naturale prendersela con pedagoghi e psicologi, giacché è purtroppo vero che programmi siffatti sono tipici prodotti di chi mette al centro dei propri assilli il “come” insegnare, senza troppo preoccuparsi dei contenuti stessi dell’insegnamento. Nel nostro caso la faccenda ha però contorni un pochino diversi. Diciamo, per cominciare, che questi programmi sono nati, all’anagrafe, nel 1984. Per dei programmi scolastici lo scadere dei diciott’anni dovrebbe coincidere col meritato pensionamento, piuttosto che con la maggiore età. “Questi” programmi sono invece anche più vecchi e, per una volta, il padre è uno solo – il Consiglio di Stato – mentre le madri sono molteplici e di svariate età. Ricordate il vecchio ’68? Beh, questi programmi sono figli suoi, nati purtroppo in provetta da un intruglio di ovuli dalle più incredibili origini, quasi a dimostrare che è sempre sbagliato buttar via il bambino con l’acqua sporca.
All’inizio degli anni ’70 era saggio e doveroso prendersela con l’eccessivo e sterile nozionismo che caratterizzava la scuola. Erano gli anni in cui si proclamava che “imparare a imparare” e “imparare a essere” erano processi assai più importanti che declamare il nome dei villaggi della Valcolla o recitare a memoria l’elenco dei cantoni svizzeri con relativo capoluogo. Che occorresse cambiare quella scuola non l’ho mai dubitato; ma più che lottare contro il più torvo nozionismo, il cui unico scopo sembrava essere quello di selezionare le aristocrazie future, era necessario agire per una scuola più giusta e democratica, dove anche i figli dei meno accreditati potessero rivelarsi i migliori, se solo si fosse anteposta la sottigliezza di mente alle capacità mnemoniche.
Invece cos’è successo? Che i tempi sono andati per le lunghe, e mentre gli anni passavano le commissioni e i gruppi di lavoro erano ancora concentrati sugli slogan ormai d’antan. Tanto per dirne una: mentre il Consiglio di Stato approvava i “nuovi” programmi, la Apple aggrediva il mercato con Macintosh, di cui i “nuovi” programmi manco immaginavano l’esistenza. Nel frattempo sono passati quasi quarant’anni. La scuola si è fatta anche più selettiva di prima, naturalmente con altri crivelli, e a rimetterci son rimasti gli stessi poveri diavoli d’un tempo. Ci sono cose che a scuola si chiamano nozioni, ma se non le sai sei un ignorante. Il problema è che non si può “imparare a imparare” e “imparare a essere” affondando le proprie radici nel vuoto assoluto. Da qui a dire che nella scuola elementare ci si debba occupare “…dell’evoluzione dell’uomo dalla preistoria alle civiltà classiche, dalle invasioni barbariche in Europa al Medioevo…” ce ne corre: non se la prenda la “mamma” in questione, ma le sue imbeccate decisamente rétro sembrano voler rivalutare le “teste ben piene”, che noi vorremmo sostituire con delle “teste ben fatte”.
L’ora di civica a scuola, un rattoppo?
L’ho firmata anch’io, a suo tempo, l’iniziativa dei giovani liberali per l’introduzione dell’ora di civica. Il bello delle iniziative generiche è che le possiamo sottoscrivere anche noi barbari. Non che fossi particolarmente in fregola per un recupero della civica allo scopo di tonificare la democrazia nel nostro Paese: chi ci crede più? Onestamente, penso che il ritorno della civica nella scuola media – e nei settori scolastici a seguire – sia un appariscente rattoppo per nascondere lo squarcio sul ginocchio. Come dire: l’introduzione della civica è un’evenienza pornografica – nel senso del surrogato.
Cerchiamo di capirci, sennò rischio l’imputazione d’incoerenza. Non sono chiare le motivazioni che hanno spinto gli iniziativisti ad iniziativizzare. Un motivo potrebbe essere legato alla vecchia pedagogia veicolata dal “Frassineto”, il decrepito testo di educazione civica in auge nella scuola ticinese fino a oltre la metà del secolo scorso. Cioè a dire: grazie allo studio del “Frassineto”, i nostri giovani conquistavano l’età della ragione nella consapevolezza critica della differenza tra potere esecutivo e legislativo, e con il complemento dell’Almanacco Pestalozzi mandavano a memoria i nomi dei Consiglieri di Stato e le regole della geometria. Così riuscivano a ripartirsi tra i diversi partiti di governo con statistica precisione: tot liberali, tot conservatori, tot agrari, tot socialisti.
Viceversa, la motivazione giovanil-liberale poteva risiedere nel debito di democrazia (di cui parla Edgar Morin) radicato nella cultura occidentale, dove la maggior parte delle persone non si occupa più di politica – e per completare le liste per l’elezione dei consigli comunali son cavoli amari.
Vediamo di chiarire. Si dice che il nostro è uno Stato di diritto. Il diritto, secondo il dizionario, è “l’insieme dei principi, inerenti al concetto di giustizia, codificato allo scopo di fornire ai membri di una comunità regole oggettive di comportamento su cui fondare una ordinata convivenza”. Detto così, sembra l’elogio della rettitudine. Nello stato di diritto i tre poteri canonici sono finemente separati e se il cane del mio vicino rende insonni le mie notti, posso rivolgermi al giudice – anche se il mio dirimpettaio è Leuenberger in persona. Ora succede che quasi tutti gli Stati fondati sul diritto si servano delle scuole per erigere il loro ordinamento. E qui sta il problema, perché nelle scuole non esiste il Diritto – almeno non per tutti. Gli unici forzati della scuola sono gli allievi, i cui genitori, se svizzeri, possono eventualmente operare le loro scelte essenziali attraverso l’esercizio della democrazia rappresentativa – ma siamo ovviamente dalle parti dei massimi sistemi. Nella pratica di ogni giorno, anzi, gli allievi godono di pochi diritti.
D’altra parte lo stesso Franco Celio, relatore in Gran Consiglio sull’iniziativa, ha chiosato di transenna come “… i programmi di storia, che ad esempio nella Scuola Media spaziano, temporalmente, dal Paleolitico ai giorni nostri. (N. d. R.: con una dote di due ore settimanali) sono molto carichi, per cui l’attuale dotazione oraria è appena sufficiente per consentire di trattare i principali temi…”. Davvero la situazione, a questo livello, dovrebbe farci riflettere: a furia di aumentare il monte-ore e i contenuti specifici delle cosiddette materie scientifiche e delle lingue a scapito dell’italiano e della storia, ci siamo accorti che i giovani (solo loro? e sì che il trend è iniziato una quarantina d’anni fa) si sono disaffezionati alla Politica. Però parlano molte lingue e dànno più facilmente del tu alle più disparate tecnologie.
A ben guardare il Gran Consiglio, in tempi recenti, si era già occupato dell’educazione civica. Quando aveva messo mano alla nuova Legge della scuola, nel ’90, aveva stabilito che “La scuola promuove […] lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà”. Ora si dev’essere accorto che qualcosa è andato storto e così c’ha messo una pezza, sfruttando l’iniziativa generica dei giovani liberali. Mentre sarebbe stato più facile (si fa per dire) rimuovere qua e là qualche insostenibile garantismo, nell’intento di avvicinare le leggi dell’aula alle norme che regolano la civile convivenza: quella sì, sarebbe intensa educazione civica, senza neanche il bisogno di mercanteggiare con chi deve rimetterci del suo. In attesa dell’inglese.