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Insegnamento dell’italiano e principi fondamentali della scuola

Per imparare è sempre necessario fare una cosa che non si è in grado di fare per imparare a farla. Questo sofismo, che affonda le sue radici in Platone (*), mi è venuto in mente un paio di settimane fa leggendo sul settimanale della Coop un servizio dedicato all’italiano, «una lingua da salvare». Raccontava uno studente del liceo: «l’anello debole è la scuola media. Per mia esperienza, in un anno di temi ne ho scritto solo tre». Sarà che, come un’unica rondine non fa primavera, la testimonianza di uno studente non fa statistica. Però – dài e dài – è proprio questa l’impressione che si ha: si scrive sempre meno e non solo alla scuola media. Eppure, per tornare a Platone, sembrerebbe logico che per imparare a suonare la cetra sia necessario suonarla. Ma, allora, se la si suona, è perché lo si sa già fare?
Anni fa, durante un festival del film di Locarno, avevo intervistato il critico di «Repubblica» e teorico del cinema Alberto Farassino. Erano gli anni in cui l’«educazione all’immagine» era un tema emergente e molto sentito. Come fare a «insegnare» il cinema ai nostri allievi? gli avevo chiesto, con una buona dose di ingenuità. La risposta era stata alquanto scettica. In poche parole, Farassino aveva sostenuto che se per imparare a suonare la tromba era comunque inevitabile passare qualche ora al giorno a fare perepè-perepè, non si capiva bene come fosse possibile imparare a capire – e magari “scrivere” – il cinema senza guardare almeno giornalmente dei film.
Per restare all’esercizio della scrittura, non esisterà mai nessuna trovata didattica in grado di insegnare a scrivere prescindendo dall’atto assiduo dello scrivere. Non ci sono scorciatoie; imparare è faticoso. Poi è vero che per superare l’idea di un’educazione del tutto spontaneista, occorrono insegnanti che sappiano stimolare e correggere in maniera esemplare, offrendo dei modelli grammaticali, sintattici, lessicali e semantici. Eppure si dice che all’Alta Scuola Pedagogica entrino studenti che l’italiano lo praticano a stento: io speriamo che me la cavo. Il bello è che provengono per lo più dal liceo, scuola che, a ben vedere, non ha tra i suoi obiettivi quello di insegnare l’italiano, così come insegnare l’italiano non è compito dell’ASP. Ma, in definitiva, chi se l’assume questo compito?
In realtà dovrebbe essere una finalità di tutta la scuola: si comincia alla scuola dell’infanzia e si finisce alla media superiore o alle scuole professionali, ma ognuno è tenuto a fare la sua parte. Perché se conoscere la lingua significa anche saper riflettere e organizzare il proprio pensiero, allora non è immaginabile un sistema scolastico che schivi l’oliva, oggi con un’attenuante, domani con l’altra. Prima o poi qualcuno diventerà insegnante – forse un generalista della scuola elementare; forse, invece, uno specialista del liceo. Ma non è immaginabile che un docente insegni – o faccia finta di insegnare – una competenza che non possiede, convinto di esserne provvisto per il solo fatto d’avere in mano il classico «pezzo di carta». Anche questa è democratizzazione dei diplomi, che fa a pugni con la democratizzazione degli studi.
Il problema è certamente complesso e ha molteplici cause. È però interessante ricordare che verso la fine del ’02 il DECS aveva costituito un gruppo di lavoro denominato «Potenziamento dell’italiano». Il gruppo di esperti provenienti da tutti i settori scolastici del Cantone aveva lavorato con particolare solerzia, tanto che già nel luglio dell’anno dopo aveva rassegnato un corposo rapporto che premetteva come «in ogni ordine di scuola gli esiti linguistici sono insoddisfacenti». E scriveva tra l’altro: «Si ritiene anzitutto che la soluzione del problema sia da ricercare in una ridefinizione della politica scolastica che porti a (…) evitare il rischio di trasformare la scuola in un “supermercato formativo”, individuando invece i curricoli di base fondati su essenzialità formative (un diverso atteggiamento della politica scolastica di fronte alle continue richieste di formazioni contingenti e utilitaristiche)». Eccolo lì, il sempre più indispensabile ritorno ai principi fondamentali della scuola.


(*): questo articolo era apparso sul Corriere del Ticino nel 2007. Questa nota, invece, è postuma, giunge quasi un decennio dopo. Non so dove avevo preso la frase «Questo sofismo, che affonda le sue radici in Platone». In realtà non si tratta di un sofismo (meglio, di un sofisma). In più Platone non c’entra nulla. Il riferimento esatto è ad Aristotele, più precisamente al Libro II: La virtù ha per presupposto l’abitudine dell’Etica a Nicomaco. Dove l’allievo di Platone osserva come Le cose che bisogna avere appreso prima di farle, noi le apprendiamo facendole: un prezioso principio della scuola attiva.

A scuola per il piacere di apprendere

È indubbio che la scuola – soprattutto quella dell’obbligo – sta vivendo un po’ in tutto il mondo occidentale una crisi di identità che si manifesta attraverso un dibattito, a volte conflittuale, tra i partigiani dell’utilitarismo e del darwinismo educativo, e chi invece continua a credere nel potere liberatorio del pensiero e dell’educazione, allo scopo di forgiare cittadini consapevoli, competenti e democratici.

Da diversi anni la Conferenza dei Direttori degli istituti scolastici comunali del Cantone Ticino persegue un percorso di formazione e di riflessione che intende contribuire allo sviluppo di una politica scolastica basata sulla convinzione che a scuola sia più importante capire che riuscire, e che in tal senso la scuola deve diventare un luogo dove l’allievo possa sbagliare senza rischi (Philippe Meirieu, 2004). Analogamente è importante che la scuola recuperi il piacere di acquisire anche ciò che non è immediatamente spendibile: la padronanza della lingua italiana e del suo sterminato retroterra culturale, «per pensare, sentire ed essere»; le basi del linguaggio matematico, che favoriscono la speculazione intellettuale e lo sviluppo del pensiero razionale; la conoscenza della storia, delle arti e della cultura, affinché ognuno possa costruire la sua identità e contribuire con piena coscienza allo sviluppo della nostra società e alla realizzazione delle istanze di giustizia e di libertà (Legge della scuola, 1990).

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L’italiano non è un malato immaginario

L’italiano ha ormai perso conoscenza. E allora? Non è certo la prima preoccupazione del nostro dipartimento dell’educazione – e della cultura e dello sport e del doposcuola e delle mense. Sì certo, qualcosa si farà. Cosa, non è dato sapere. Ma come: la nostra bella lingua italiana – che tanto inchiostro ha fatto scorrere e tante parole ha affidato al vento in questi ultimi mesi, per avversare la chiusura di qualche cattedra universitaria nella Svizzera confederata – la nostra bella lingua, dicevo, non è un tormento di cui curarsi in fretta? Forse…
Non tutti sanno, in effetti, che alla fine del 2002, nel pieno del tumulto provocato dalla decisione del Consiglio di Stato d’introdurre l’insegnamento obbligatorio dell’inglese a partire dalla III media, il nostro DECS aveva istituito in tutta fretta un «Gruppo potenziamento dell’italiano», forse perché accortosi – appunto – che la lingua se non di Dante almeno di Francesco Chiesa destava a dir poco qualche preoccupazione. Hai voglia: a furia di fingere che “l’italiano si pratica e si impara dentro tutte le aule, essendo usato nell’insegnamento di ogni materia”, sarebbe stato un miracolo se fosse riuscito a sopravvivere senza prendere un cronico febbrone da cavallo. Come invece è capitato.
In ogni modo, per l’appunto, ecco lì un bel gruppo di lavoro, con dentro rappresentanti di un po’ tutti i settori scolastici, designati con una bella risoluzione dipartimentale. I commissari speciali non si sono fatti pregare più di tanto: con l’entusiasmo dei giovani, in men che non si dica hanno scodellato il loro bel rapporto, all’indirizzo del direttore del DECS e di quello della divisione della scuola, con l’inevitabile copia a mezzo dipartimento. Il rapporto è un impietoso ritratto di una lingua a pezzi, sia dal punto di vista della quotidianità comunicativa di allievi e studenti – “Gli allievi sono spesso in difficoltà per quanto attiene a un uso funzionale della lingua e dei testi, finendo per scontare queste difficoltà in ogni ambito dell’accesso alla conoscenza” – che sul piano culturale. Come dire: Sono talmente maldestri con l’italiano che non riescono a penetrare nelle altre discipline.
Il documento meriterebbe la pubblicazione integrale, mentre non si capisce come mai dal 4 luglio del 2003 – data della pubblicazione – a oggi nessuno ne abbia parlato. Eppure il rapporto è pubblico, anche se nessuno – nemmeno i membri del gruppo – ha pensato di divulgarlo come si deve: la sua lettura è avvincente e una maggior diffusione avrebbe giovato a tutti. Perché il committente e i commissari stessi si siano improvvisamente fatti tanto pudichi resta un mistero. Forse le stesse proposte finali del gruppo di lavoro – che, a dirla tutta, sono un po’ raffazzonate – li hanno messi in totale imbarazzo: dopo una disamina così acuta, ci si potevano attendere proposte altrettanto sagaci. Invece le scelte terapeutiche sono a metà strada tra l’enunciazione retorica («una chiara scelta di indirizzi della politica della scuola dell’obbligo nel nuovo contesto sociale ed economico, eccetera eccetera») e le solite proposte trite e ritrite, vale a dire le prime che vengono in mente: aumentare le ore e diminuire il numero di allievi.
Fatto sta che intanto l’italiano boccheggia e nessuno se ne cura seriamente. Giustamente il gruppo di lavoro dipartimentale osserva come «debba essere seriamente presa in considerazione la questione – davvero fondamentale – della formazione linguistica degli insegnanti. Ci si può chiedere infatti se nei curricoli oggi previsti (che si tratti di insegnanti comunali o cantonali) è posta sufficiente attenzione agli aspetti linguistici e culturali; ci si può chiedere se […] è sufficientemente considerata, nella professionalizzazione della carriera dell’insegnante, la necessaria competenza linguistico-espressiva e comunicativa. Le risposte purtroppo non possono essere affermative». Insomma, l’italiano non è un malato immaginario: e allora che qualcuno corra ai ripari, sperando che non sia troppo tardi.

In America non c’è educazione senza censura

Sesso, religione, blasfemia, volgarità sono tra le principali ragioni che hanno spinto l’autorità di vigilanza a censurare, senza troppi patemi d’animo, alcuni libri giudicati diseducativi per i giovani studenti americani. Nello stato di Washington, ad esempio, negli ultimi due anni ben 34 titoli sono stati oggetto di controversie; di questi, dieci hanno subito delle restrizioni d’accesso e sei sono stati garbatamente sottratti dagli scaffali. Nel Texas un ponderoso rapporto intitolato «Free People Read Freely» riferisce di ben 62 titoli rimossi da questa o quell’altra biblioteca scolastica e di 33 altri volumi colpiti da restrizioni.
Fin qui non ci sarebbe nulla da eccepire. Però, immergendoci in qualche maggiore dettaglio, se ne scoprono delle belle. Ad esempio che «Le avventure di Huckleberry Finn» non è accessibile a chiunque, perché il nostro eroe smoccola un po’ troppo; oppure che tutta la saga di Harry Potter è andata incontro ad alterne fortune in questa o quell’altra scuola, perché incita alla stregoneria. Altri libri assai noti – e straletti da schiere di adolescenti, almeno fino a qualche anno fa, quando leggere era ancora un’attività assai diffusa dentro e fuori dall’aula – sono incappati nelle maglie censorie dell’«American Civil Liberties Union»: ad esempio «Ragazzo negro» di Wright e «Il colore viola» della Walker (razzialmente scorretti); «Ritorno al mondo nuovo» di Huxley, «1984» di Orwell e «Peter Pan» (contenuti sessuali); «Uomini e topi» di Steinbeck (linguaggio scurrile e violenza). E via inventariando.
E a noi, abitanti delle vecchia Europa, ce ne deve forse importare qualcosa? In fondo si tratta solamente di procedure assai coerenti con quell’America puritana e bacchettona che tutti noi conosciamo, che certo fa a pugni con le professoresse che si portano a letto gli studenti o con le insulse serie televisive che imperversano anche da noi, soprattutto dopo la liberalizzazione dell’etere; ma che è nel contempo in linea con quell’elevata percentuale di americani che diffida delle teorie di Darwin sull’evoluzione della specie ed è invece più propensa a dar credito scientifico al mito di Adamo ed Eva. Eppure c’è da inquietarsi, perché l’espansione della “correttezza politica e sessuale” sta lambendo anche le nostre contrade. Come interpretare, sennò, talune crociate dai toni un po’ apocalittici messe in atto negli ultimi tempi dal nostro governo? Se addirittura uno come Giuseppe Zois, disquisendo sulla proposta di vietare il fumo nei locali pubblici,  arriva a parlare di «Sicurezza ad altimetria variabile», siamo proprio al capolinea della Libertà, così come l’abbiamo intesa fino all’altro ieri.
Il vento della globalizzazione – che non è solo economica e finanziaria (anzi!), ma ha caratteristiche antropologiche e culturali – spira impetuoso dagli Stati Uniti, e dopo la Coca-Cola e i miti hollywoodiani ora sta imponendo con modi suadenti il liberismo più sfrenato in tutti i campi. Quale sarà – ad esempio – lo sviluppo futuro del cosiddetto “Accordo di Bologna” sull’armonizzazione delle università (un modello formativo molto americano, of course!)? Già stiamo assistendo impotenti al taglio di qualche ramo ritenuto troppo vizzo e deficitario, ma quali sorprese ci riserveranno i prossimi anni? Esisteranno ancora atenei dove si sviluppa la ricerca fondamentale? Sopravvivranno facoltà improduttive come quelle delle lingue classiche? Sarà ancora possibile “fare cultura” senza produrre indotti misurabili in denaro sonante?
E allora cerchiamo almeno di tenere alta la guardia, affinché prima o poi non ci si venga a dire ciò che i nostri bambini e adolescenti possono o non possono leggere. Perché anche qui il ridicolo è sempre più dietro l’angolo, e non vorremmo veder incenerito «Il fondo del sacco» per i suoi contenuti troppo disincantati o la leggenda di Guglielmo Tell messa all’indice perché razzialmente sgarbata (gli austriaci vengono a fare i turisti in Ticino, o no?). Come ha scritto il filosofo Zambelloni, dopo il divieto di Bacco e Tabacco toccherà pure a Venere, prima o poi. E perché non ai libri?

«Devi leggere di più!» Sì, ma quando?

«Devi leggere di più!»: se penso alla mia esperienza di bambino, o ai racconti di mia nonna, che la scuola elementare l’ha frequentata nei primissimi anni del secolo scorso, quel devi-leggere-di-più sembra un archetipo pedagogico trasversale alle generazioni. Naturalmente con l’avvento della TV, della Play Station e dei videogiochi in genere, il prosaico detto ha guadagnato connotazioni ben più moraliste. Forse settant’anni fa il genitore che si sentiva il predicozzo del Maestro, secondo cui il figliolo “doveva leggere di più”, andava a rimestare in quella scansia dei valori della società contadina: devi leggere di più… invece che mungere le capre, oziare, pescare di sfroso… invece che far la serva di casa.
Oggi no. «Devi leggere di più!» è un invito all’ipocrisia e all’incoerenza. Vediamo di ricapitolare. A scuola elementare è difficile che qualcuno t’imponga di leggere un libro. Tutt’al più, qua e là, c’è il libro di lettura, ma molti si affidano all’estro del momento, e propongono qualche racconto o narrazione fotocopiato alla bell’e meglio, quasi sempre fuori da un percorso logico e comprensibile. Leggere non è obbligatorio, tutt’al più un consiglio. O un avvertimento. Anche se – pare – «Leggere di più!» aiuterebbe. Cosa, non si sa. Alle medie cambia tutto. Chissà se c’è ancora l’antologia? Una volta c’era “Situazioni e testimonianze” dei compianti Giovanni Bonalumi e Vincenzo Snider: da una parte aiutava a conoscere nomi e generi ed epoche letterarie, mentre dall’altra lanciava piste appassionanti. Invece durante la scuola dell’obbligo è più facile incappare nell’onere delle tabelline a memoria o d’una traduzione, che non nell’impegno di leggere un libro dalla prima all’ultima pagina.
Più in là ci sono il liceo e le formazioni post-obbligatorie. Per chi prosegue gli studi è tutto un arrabattarsi per stare a galla: matematica, fisica, chimica, biologia, un paio o tre di lingue straniere, storia; e poi economia, diritto, musica, storia dell’arte… un fiorire di test. E chi lo trova, oggettivamente, il tempo per amare la ragazza di Bube, per trascorrere una bella estate, per divertirsi in compagnia del visconte dimezzato, per soggiornare idealmente un anno sull’altipiano o, in alternativa, per 23 giorni d’avventurosa villeggiatura nella città di Alba? Chi può permettersi il lusso di appassionarsi alle vicende di Anna Karénina o di Madame Bovary, di Ivanhoe o di Robinson Crusoe? E chi li conosce quelli?
Al massimo i più favoriti, quelli che si concedono il lusso di affrontare la scuola con le mani in saccoccia perché madre natura li ha fatti nascere con la camicia, leggeranno ciò che passa il convento multinazionale: i piccoli brividi durante l’infanzia o Harry Potter qualche anno più tardi (nulla contro la sig.ra Rowling, m’intenda il Prof. Origoni): ma, insomma!, si legge ciò che detta il mercato. Laddove leggere, in fondo, è qualcosa che va al di là del semplice arricchimento linguistico: percorrere un romanzo è un’avventura tra guerra e pace, che ti sprofonda nella storia e nella filosofia. La lettura è un contributo all’identità individuale e sociale, ti fa conoscere Eros e Thánatos.
Non possiamo però prendercela con i nostri ragazzi, che svicolano – e c’irridono un po’ – quando diciamo loro «Devi leggere (di più)!»: perché, materialmente, leggere anche solo un po’ qualcosa che non sia Topolino o AutoSprint è un atto eroico. Potremmo limitarci a un più dimesso «Sforzati di leggere (qualcosa che non sia Topolino o AutoSprint)!», ma è poco pedagogico. Però rendiamoci conto che tra il dire e il fare – tra il «Devi leggere di più!» e il leggere per davvero – c’è di mezzo il test. E allora, visto che dopodomani i nostri figli saranno in vacanza – per ben diciassette giorni filati, e noi genitori con loro –, sfoghiamoci a colpi di libri: storie d’amore e commedie assurde, racconti un po’ spregiudicati e avventure dello spirito, thriller e saggi inquieti. Affinché, almeno in vacanza, il nostro cervello possa godere delle gioie terrene. Forza: è Natale (nella speranza che il 10 gennaio non sia in programma un espe).