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La banalizzazione del merito

In un’epoca durante la quale ci si appella sempre più frequentemente al merito e alla meritocrazia, il nuovo governo italiano, insediato il 23 ottobre, ha istituito il Ministero dell’istruzione e del merito.

Ha detto Luciana Littizzetto durante la trasmissione televisiva Che tempo che fa del 30 ottobre 2022:

Vi accanite col merito nella scuola, ma vogliamo parlare della politica? Se c’è un campo dove non ci si arriva tutti per merito è proprio la politica… Non è che aprendo le porte del parlamento pensi: “Ehi, sono finito al CERN, per caso!?” Il merito vale per tutti, tranne che per i politici?

[…] Abbiamo avuto ministri dell’istruzione che volevano far passare i neutrini dentro tunnel che non c’erano, Ministri dei trasporti che parlavano del trasporto su gomma nel tunnel del Brennero, che non è stato ancora realizzato… Ministri degli esteri che l’unica lingua che conoscevano era quella di vitello quando la ordinavano al ristorante… Quindi se proprio vogliamo partire con il merito in questo paese, inizierei sì dalle scuole, ma durante le elezioni e non durante le lezioni”.

Nel frattempo il Gran consiglio ticinese, nella sua seduta del 17.10.2022, ha approvato l’iniziativa parlamentare generica «Rinnoviamo la scuola dell’obbligo ticinese», che era stata presentata nel 2018 dall’Unione Democratica di Centro – che di centro ha solo il nome: 43 sì, 21 no e 19 astenuti. Stando alle cronache, la maggioranza favorevole è stata favorita dalla concordanza dei deputati liberali e della lega dei ticinesi.

Va da sé che, tra i 61 punti irrinunciabili ma negoziabili che costituiscono il proposito rinnovatore della destra ticinese, non poteva mancare l’imperativo di promuovere e offrire dei percorsi selettivi e meritori sia per gli allievi che per i docenti. Gli altri 60 punti, in sostanza, portano lì.

Continuo a credere che le finalità della scuola dell’obbligo siano altre. Proprio oggi si è conclusa a Bruxelles la 3ème Biennale internationale de l’Education Nouvelle (Convergenza per la nuova educazione), promossa da numerose associazioni internazionali, che aveva al centro dei suoi lavori anche l’aggiornamento del Manifesto per l’Educazione Nuova: il mondo che vogliamo, i valori che difendiamo.

E nel medesimo ordine di idee, mi piace segnalare l’interessante contributo di Marco Viscardi, docente all’Università degli studi di Napoli, pubblicato su DOPPIOZERO all’indomani dell’istituzione del Ministero dell’istruzione e del merito: Il merito è una fantasia. L’articolo può anche essere scaricato qui in formato PDF.

Lettera a un professore di didattica dell’italiano

Caro professor Fornara,

ho letto il suo libro Lettere a una maestra, l’ho finito da un po’, ma volevo pensarci bene prima di scriverle queste brevi note. Ci conosciamo ormai da diversi anni, sa bene che non mi sono mai occupato in maniera approfondita di didattica, benché si tratti naturalmente di un complesso di conoscenze che fa parte della “cassetta degli attrezzi” di ogni insegnante. Quando seguii la mia formazione di base non c’erano le didattiche disciplinari, sostituite dalla didattica generale e da tanti “consigli pratici” da parte dei nostri assistenti di didattica. In tal senso la nostra «Bibbia» era un volume pubblicato da Armando Armando Editore nel 1968 (la mia copia è del 1970, V ristampa), col titolo Nuove lezioni di didattica, autore Robert Dottrens; per la cronaca, l’edizione originale, Éduquer et instruire, è del 1966 (Unesco/Nathan, Parigi). Chissà perché i titoli tradotti in Italia sono spesso ben diversi dagli originali; il cinema, a questo riguardo, offre esempi spassosi.

Ma, per chiarirci, in quei primi anni ’70 del secolo scorso avevamo superato da un pezzo la preistoria della pedagogia, della didattica e delle cosiddette scienze dell’educazione. Tutt’al più continuo a credere che, per tanti versi, la scuola reale, quella di tutti i giorni, non è cambiata molto nei decenni, ma questo è naturalmente un altro discorso.

Un’immagine di Simone Fornara, presidente della giuria e scrittore ospite della III edizione del «Premio Luca Franscella», concorso di scrittura per gli allievi di 5ª elementare delle scuole comunali di Locarno, quell’anno sul tema «Scrivo per ricordare». È il 12 giugno del 2009 ed eravamo nella corte interna del castello visconteo di Locarno, durante la cerimonia di consegna delle licenze e la premiazione del concorso.

La lunga premessa, tuttavia, è per sottolineare che non ho i numeri per entrare nel merito scientifico dei tanti capitoli che lei ha toccato lungo le diciotto Lettere a una maestra sull’insegnamento (non solo) dell’italiano. Così la mia lettura si è arricchita – forse, per taluni, sarebbe stata viziata – con diversi rimandi, del tutto personali, mi creda, all’opera di alcuni grandi protagonisti della storia della pedagogia che lei ha citato: in ordine di apparizione sono Mario Lodi, Alberto Manzi, don Milani, Gianni Rodari, Jerome Bruner e Lev Vygotskij.

Ciò che ho letto io – ma sono sereno, non ho fatto una lettura sviata da pregiudizi – mi porta a condividere con un certo entusiasmo la didattica dell’italiano che ha in mente lei. Vorrei che tutte le didattiche avessero in comune la tensione etica che mette al primo posto ciò che gli allievi imparano, piuttosto che la loro riuscita scolastica, che è tutt’altra cosa. Le sue proposte sono davvero impregnate di quella scuola attiva che rimanda a Lodi, Manzi, Milani, Rodari (aggiungerei Célestin Freinet, tra i tanti), un approccio basato sulla mobilitazione dell’allievo, ma anche sulla cooperazione tra allievi. È una didattica, quella delle lettere a una maestra, che chiama a gran voce la scuola attiva, anche grazie a quel «non solo» che lei ha messo tra parentesi nel sottotitolo.

Il mio timore è che questo affascinante approccio didattico inciampi in qualche vecchia pedagogia poco differenziata, individualista, selettiva, competitiva – una pedagogia “bancaria”, per dirla con Paulo Freire. Negli anni ho visto passare tante didattiche, ognuna più magica e miracolosa della precedente. La didattica che lei propone con queste lettere è impegnativa. Per rispettarne il senso non la si può uniformare, con il vecchio e ambiguo slogan delle “pari opportunità”. Ha scritto il sociologo Walo Hutmacher:


Les politiques d’égalité des chances n’ont pas réduit les inégalités de résultat, comme la recherche le montre depuis des années et l’enquête internationale PISA une fois de plus. En comparaison internationale, au terme de la scolarité obligatoire, en moyenne, les niveaux de compétences mathématiques des jeunes Suisses sont bons, la 
culture scientifique
est moyenne, les compétences lectrices plutôt médiocres. A côté
 des moyennes, il faut 
aussi regarder les disparités. Parmi les pays européens, la Suisse se caractérise par des disparités particulièrement fortes, dans l’absolu et entre classes sociales. Et l’OCDE d’insister sur le rôle que joue chez nous le caractère séparatif du secondaire I. Elle met aussi en exergue les résultats de pays qui (…) visent explicitement non pas l’égalité des chances, mais l’égalité des résultats à un niveau élevé. Ils y réussissent avec les mêmes objectifs d’apprentissage renonçant à toute division sociale ou culturelle avant la fin de la scolarité obligatoire.

Il paradosso è tutto nell’istituzione in cui lei opera. A metà degli anni ’80 nacque la magistrale post liceale, a cui seguirono l’ASP e, oggi, il DFA della SUPSI. La storia delle idee pedagogiche ha perso di importanza (eufemismo). Nei miei anni la chiamavamo pedagogia, si parlava di Rousseau, Claparède, Dewey, Bruner…

Continuo a credere che nella Scuola ci debba essere una gerarchia di valori, conoscenze e competenze che non può essere modificata a seconda dei bisogni della politica e dell’economia. O viceversa. In vetta devono restare gli aspetti istituzionali, etici e deontologici. Da questi discendono le scelte pedagogiche e quelle didattiche: scegliere se educare o selezionare, se istruire o orientare per rispondere al mondo del lavoro, se inserire gli allievi dentro la curva di Gauss o se mirare all’equità dei risultati ad alto livello.

Senza queste scelte – concrete, oltre gli slogan – tutto diventa vacuo.

In ogni modo: complimenti per le sue Lettere a una maestra. Sono lettere profonde. Se saranno travisate o svuotate per mezzo di scelte pedagogiche sballate non sarà un suo problema. Ormai viviamo questi tempi. Un giorno o l’altro bisognerà ricominciare a parlare di pedagogia con i futuri insegnanti.

La saluto cordialmente, e pedagogicamente attivo.

AT

P. S. Non mi spaventa fa parola FINE. La disprezzo.


La citazione di Walo Hutmacher è tratta dall’articolo «Réclamer l’égalité des chances, c’est s’empêcher de viser l’égalité des résultats à un niveau élevé», in Éducateur – Les bâtisseurs du «siècle de l’enfant» | Cent ans de recherches et d’innovations pédagogiques, Numero speciale nel centenario di fondazione dell’Institut Jean-Jacques Rousseau, 24.02.2012.


Ecco un esempio spassoso di titoli del cinema in traduzione italiana. Domicile conjugal, film di François Truffaut del 1970, uscì in Italia col titolo Non drammatizziamo… è solo questione di corna. Tanto per dirne una.


SIMONE FORNARA, Lettere a una maestra – Sull’insegnamento (non solo) dell’italiano, 2021, Einaudi ragazzi

 


Qual è il senso di ricordare Summerhill?

Philippe Meirieu, nella sua Petite histoire des pédagogues, lo liquida in poche righe:

Alexander Sutherland Neill (1883-1973): figura emblematica della pedagogia libertaria, fondatore, nel 1921, della scuola di Summerhill in Inghilterra. Fecero scandalo, all’epoca, le sue opzioni molto “liberali” in tema di sessualità. Neill è un discepolo di Rousseau e di Reich: crede nella natura fondamentalmente buona e dinamica del bambino. Istituisce una “scuola” basata sulle libere scelte dell’allievo, che decide dei suoi apprendimenti e beneficia dell’aiuto del “maestro” solo su sua richiesta.
Neill fu però costantemente confrontato con la questione dell’autorità: Bruno Bettelheim disse di lui che la sua personalità era così forte e affascinante che i suoi allievi, per ottenere la sua stima, avrebbero fatto qualunque cosa! In realtà Neill, più che fondare una “pedagogia”, creò solo un “luogo di educazione” il cui successo fu essenzialmente dovuto alla sua persona (alcuni avrebbero detto: “alla sua ditta”).

Il 1921 è stato anche il centenario di Summerhill, la scuola fondata da Neill pochi mesi dopo la nascita della Lega Internazionale per l’Educazione Nuova, di cui lo stesso pedagogista scozzese fu tra i fondatori durante il congresso di Calais in agosto.

Il collega Enrico Bottero ha ben sintetizzato il clima di quegli anni in un suo intervento su RAI Scuola del novembre scorso.

Siamo alla fine dell’800, inizi del ’900. Nascono la scuola sperimentale a Chicago promossa da John Dewey, le scuole montessoriane, la scuola di Abbotsholme in Inghilterra, l’École des Roches in Francia, gli internati di campagna di Hermann Lietz in Germania. Erano, tutti questi, educatori diversi tra di loro: c’erano teosofi, socialisti, anarchici, libertari, liberali, credenti e non credenti: ma li univa la critica radicale della pedagogia tradizionale, la critica a un’educazione libresca e autoritaria, la separazione tra scuola e vita. Li univa una certa istanza naturalista, vitalista, il pacifismo, la necessità della co-educazione tra i sessi, il cosmopolitismo.

Qual è il senso di ricordare oggi Alexander S. Neill? Scarso, se solo si pensa ad altre esperienze pedagogiche che sono giunte fino a noi, pur faticando – inconcepibilmente! – a diffondersi nella scuola pubblica europea, benché, già in quegli anni tra le due guerre, tra i sostenitori di un’Educazione nuova c’era un dibattito acceso tra chi aspirava a una scuola ideale, al di fuori della scuola pubblica, e chi, invece, puntava a portare le innovazioni al cuore della scuola pubblica. Neill apparteneva certamente ai primi, tanto da fondare la sua scuola, che chiamò «Summerhill».

Alexander S. Neill e la scuola di Summerhill.

Summerhill e il suo fondatore ebbero un momento di successo attorno al Sessantotto. Nel 1971 Neill pubblicò Summerhill – Il metodo per progredire nell’educazione dei figli. Sembrava un testo fatto apposta per i cambiamenti di cui la scuola aveva bisogno: l’anti-autoritarismo, la “fantasia” al potere, la cooperazione, le arti, la libertà, il sesso, la religione, la morale.

Questa è la storia di una scuola moderna: Summerhill è stata fondata nel 1921. La scuola è situata nelle vicinanze del villaggio di Leiston, nel Suffolk, a circa cento miglia da Londra.
Poche parole sui ragazzi che la frequentano. Alcuni entrano all’età di cinque anni, altri a quella di quindici. Di solito rimangono fino all’età di sedici anni. In media abbiamo venticinque ragazzi ed una ventina di ragazze.
Vengono divisi in tre gruppi a seconda dell’età: i più giovani hanno dai cinque ai setti anni, il gruppo intermedio è formato da quelli che hanno dai sette agli undici anni, gli anziani sono i ragazzi dagli undici ai sedici anni.
Generalmente molti ragazzi provengono da Paesi stranieri. Quest’anno (1960) ci sono fra di noi cinque scandinavi, un olandese, un tedesco, un americano.
I ragazzi vengono alloggiati tenendo conto dell’età e ad ogni gruppo è preposta una assistente. Il gruppo di mezzo alloggia in una costruzione di pietra, gli anziani in casette di legno. Solo un paio dei ragazzi più anziani dispongono di una camera tutta per loro. Gli altri vivono in tre o quattro per stanza e lo stesso vale per le ragazze. Gli allievi non devono subire alcuna ispezione alla camera e nessuno li sorveglia. Vengono lasciati completamente liberi. Nessuno dice loro come debbano vestirsi: in ogni momento possono indossare quello che vogliono.

Si intuisce da queste poche righe che Summerhill, il progetto libertario che ispirò questa scuola, ha più punti in comune con l’Ivan Illich di Descolarizzare la società che, poniamo, con l’opera pedagogica di Célestin Freinet.

Nel frattempo è passato un secolo. L’Educazione Nuova continua a essere una scelta di nicchia. Di Neill e di Summerhill se ne ricordano solo alcuni maestri nati attorno agli anni ’50 e qualche nostalgico di una rivoluzione, o anche solo una seria riforma, che non arrivò mai.

Forse qualcuna delle idee libertarie di Summerhill non farebbero male a una scuola che continua, imperterrita, a riprodursi sempre uguale a sé stessa, decennio dopo decennio. Magari porterebbe un po’ di serenità, un momento di rottura tra un prima e un dopo.

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Note

La citazione di Enrico Bottero è tratta da L’Educazione Nuova a cento anni dal Congresso di Calais – Intervista a Enrico Bottero e Pietro Lucisano (RAI Scuola, novembre 2021).

ALEXANDER S. NEILL, Summerhill – Il metodo per progredire nell’educazione dei figli, 1971, Forum Editoriale, con prefazione di Erich Fromm. Titolo originale: Summerhill, a radical approach to child rearing. All’interno del volume, dopo l’introduzione dell’autore, compare pure un altro titolo: »Summerhill« una proposta contro la società repressiva. La breve citazione è tratta dall’incipit (L’idea di Summerhill, p. 9).

Riflessioni sparse, per chiudere il 2021

Avevo concluso il mio testo augurale di un anno fa (Saluti dal 2020, auguri per il 2021) con un’affermazione avventata e sempliciotta: «Prima o poi anche le truppe del generale Covid avranno la loro Little Bighorn», e avevo riportato una bella filastrocca di Gianni Rodari (L’anno nuovo, 1960).

Si è rivelato un altro anno orribile. Stavolta, quindi, conviene prendere qualche precauzione, come ha fatto il vignettista Vauro. In una recente vignetta afferma beffardamente che l’anno nuovo sarà una variante di quello vecchio.

Per il mondo dell’educazione e della scuola, se il 2020 è stato l’anno di Gianni Rodari, il 2021 è stato contrassegnato dal centesimo anniversario della Lega Internazionale per l’Educazione Nuova, la cui nascita avvenne il 6 agosto 1921 a Calais, in occasione del Congresso fondatore (Buon compleanno, vecchia “Educazione nuova”!). Oddìo, forse parlare di «contrassegnato» parrebbe un’esagerazione. Ci sono stati alcuni festeggiamenti anche in Ticino, il più importante dei quali è stato certamente quello di CEMEA – Il Villaggio dell’Educazione Attiva per i 50 anni dei Cemea Ticino e centenario dell’Educazione Nuova.

Ma, per lo più, non se n’è accorto nessuno. Il dibattito sulle possibili (e necessarie) riforme della scuola dell’obbligo continua con toni tra il battagliero e il polemico. Chi non è d’accordo con le proposte del Dipartimento dell’Educazione – praticamente tutti – insiste con soluzioni che, tutto sommato, non sono così diverse. Le solite idee, poche ma confuse, come avrebbe detto Flaiano. Di chiaro c’è che continua, ormai da qualche decennio, la corsa al massacro dei più indifesi, attraverso la selezione scolastica; con le solite armi, convenzionali e scontate, ma sempre di moda: un piano di studio velleitario e illusorio, appoggiato dai soliti meccanismi di selezione scolastica – anche se, mi è stato detto, non ci sono più allievi che ripetono la classe; semplicemente si applicano dei rallentamenti.

Di proposte davvero originali non se ne vedono, neanche leggendo benevolmente tra le righe.

Continuo a credere che alla scuola dell’obbligo servirebbe serenità. Ha detto Philippe Meirieu durante un’intervista su Teleticino: Penso che sia necessario che i luoghi deputati all’educazione diventino dei luoghi di resistenza alla reattività e all’immediatezza, dove si impari a fare delle cose che non si sanno fare. In quest’ottica io sono estremamente convinto che tutti gli esseri umani siano educabili e possano crescere, migliorare. Si tratta di virtuosismi? Io dico che docenti, istituzioni, anche gli allievi, debbano sforzarsi di non vedere soltanto il limite nell’altro, le sue mancanze, le sue difficoltà, ma riconoscere dentro sé stesso ciò che ci motiva. Bisogna uscire quindi da questa pedagogia che procede per mancanze e deficit, per avere una pedagogia che guarda all’altro e anche alle difficoltà in generale in maniera positiva, per aiutarsi reciprocamente a superare i propri limiti. [Meirieu: “La scuola dev’essere capace di parlare al cuore, Decoder-Teleticino, 2.10.2021, servizio a cura di Romano Bianchi].

***

Rio Bo
(Aldo Palazzeschi, 1909)

Tre casettine
dai tetti aguzzi,
un verde praticello,
un esiguo ruscello: Rio Bo,
un vigile cipresso.
Microscopico paese, è vero,
paese da nulla, ma però…
c’è sempre di sopra una stella,
una grande, magnifica stella,
che a un dipresso…
occhieggia con la punta del cipresso
di Rio Bo.

 Una stella innamorata!
Chi sa
se nemmeno ce l’ha
una grande città.

Questa è la mia Rio Bo (46°10′05″N 8°47′19″E). D’accordo, nel cielo del mio microscopico paese non c’è una stella. Si vedono un pianeta, Venere, e una falce di luna crescente. Ma tutto il resto è uguale.

***

Il periodico Scuola ticinese ha dedicato la sua edizione apparsa in questi giorni al tema (ri)costruire la realtà. Andrea Vosti, giornalista e corrispondente per la RSI dagli Stati Uniti, ha pubblicato un mirabile articolo dal titolo L’era della mistificazione. Parte dall’assalto al Campidoglio degli Stati Uniti del 6 gennaio di un anno fa. «Quel giorno – che per sempre sarà ricordato e letto e riletto nei libri di storia come il ‘giorno dell’assalto a Capitol Hill’ – ha significato il punto di non ritorno, l’apice di una pericolosissima e antidemocratica parabola che non è cominciata soltanto con la presidenza di Donald Trump, istigatore di quel folle attacco, ma che affonda le sue radici e le sue origini nella sempre più pervasiva polarizzazione politica e sociale che gli Stati Uniti hanno conosciuto negli ultimi tre decenni».

Vosti percorre lucidamente l’antidemocratica parabola, che passa per Newt Gingrich, i social media e il fenomeno delle fake news, le teorie complottiste come Q-anon e il Deep State, per giungere a una conclusione drammatica.


La presidenza Trump ha dimostrato che basta un personaggio scaltro, ma con un innegabile fiuto politico e una innegabile capacità comunicativa, per far deragliare le regole non scritte della decenza e minare le fondamenta stesse di una grande e indispensabile democrazia come quella americana. Trump non è stato rieletto, certo, ma l’esperimento sociale chiamato Donald Trump è stato comunque un tragico successo, alla luce dei 76 milioni di cittadini che lo hanno rivotato nel 2020 e che sono pronti a riportarlo alla Casa Bianca: il terreno è stato contaminato, la falda acquifera della democrazia inquinata, il populismo incurante della scienza e della verità sdoganato. L’era della mistificazione è appena iniziata.

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In un clima del genere – a cavallo della pandemia e della mistificazione globale – può diventare improvvido fermarsi al tradizionale e scialbo «Buon Anno». Forse un augurio potrebbe essere che ognuno riesca a potenziare i suoi ottimismi e relativizzare i pessimismi, con le sensibilità e i sentimenti che gli sono propri. Ripartendo, in altre parole, da Gianni Rodari:

Di più per ora scritto non trovo
nel destino dell’anno nuovo:
per il resto anche quest’anno
sarà come gli uomini lo faranno.

«Se il cucciolo d’uomo non impara, muore»

Nessuno nasce imparato è un bel volumetto sull’educazione, sull’imparare e l’insegnare, sull’apprendimento formale, che si impara (o si dovrebbe imparare) a scuola; e quello informale, che si impara, spesso casualmente, fuori da quel 10% occupato dalla scuola.

Un anno ha 365 giorni, un giorno 24 ore, ovvero 8’760 ore all’anno. I primi anni di vita sono passati prevalentemente in famiglia.

La scuola in Ticino dura 36.5 settimane (notare lo 0.5), a 5 giorni la settimana e 5 ore di lezione al giorno fanno 912 ore all’anno.

Stimiamo che un bambino trascorra un tempo analogo con attività sportive, musicali, campi sci, campi scout e altro.

Facciamo un rapido calcolo: 1000 ore a scuola, 1000 in attiviti di tempo libero, 6700 in famiglia: un bambino passa l’80% del tempo in famiglia, il 10% a scuola, e il 10% in attività associative o sportive.

Però quando si parla d’insegnamento e apprendimento ci si concentra solo sul 10%. Magari ci sono più occasioni di apprendimento e stimoli d’insegnamento nel restante 90%, ma per queste competenze non si danno diplomi e non si determina la vita professionale delle persone.

Scrive l’autore che Questo non è un libro di pedagogia e non intende proporre riforme delle strutture formative istituzionali. In effetti la lettura è piacevole, fa riflettere e a volte anche divertire. Con un linguaggio semplice ma non banale – a tratti disincantato, sornione, appassionato – Martinoni tratta temi centrali della formazione e della crescita attraverso metafore, immagini, aforismi, cioè il modo che gli è sembrato più diretto per esprimere realtà complesse e contraddittorie. Come per esempio imparare a camminare.

Il bambino che impara a camminare è “imparato” dalla forza di gravità, dal dolore nel cadere, dal sorriso della mamma, dalle braccia che lo accolgono. Qualcuno impara prima, qualcun altro dopo, ciascuno con metodologie proprie: dallo spostarsi a quattro zampe, a cercare un sostegno esterno, a tentare i primi passi eretti, ognuno con un proprio ritmo. La mamma non t’insegna a camminare, ma tu non impari da solo, in uno spazio vuoto.

Mi torna spesso l’immagine del piccolino che abbandona fiducioso le braccia di chi gli vuol bene per conquistare il mondo.

Nessuno nasce imparato si legge quasi con golosità, perché ognuno entrerà in quelle storie, che possono rievocare nel lettore esperienze personali, emozionanti o dolorose, del proprio percorso di crescita. Il professionista ci troverà tracce delle sue fonti, da Johann Heinrich Pestalozzi (i tre gruppi fondamentali: la testa, il cuore e le mani) a Ivan Illich («Quasi tutto ciò che sappiamo lo abbiamo imparato fuori della scuola. Gli allievi apprendono la maggior parte delle loro nozioni senza, e spesso malgrado, gli insegnanti») a tanti altri.

Ma – avverte l’autorevole autore – Non ho fatto citazioni in questo breve testo. Tuttavia ribadisco che ho molti debiti, con persone, autori, eventi: dovrei fare un elenco molto lungo. Quando sei attento a imparare acquisti molti debiti e sicuramente dimenticherei i più importanti. In questa sede mi limito a esprimere la mia riconoscenza e a citare alcune fonti, come esempio e per non avere l’aria di aver improvvisato tutto.

Tutti gli apprendimenti fondamentali, aver fiducia, camminare, parlare sono vitali. Non dimentichiamoci che l’uomo nasce prematuro, senza le competenze per sopravvivere. Non è come il puledro che dopo poche ore cammina. Se il cucciolo d’uomo non impara, muore. La madre, il padre, il sole, il freddo, il cibo gli “imparano”.

Ripeto, se non impara muore. Imparare è vitale.

Un bel volume, che vale la pena di leggere. Un racconto che si può cominciare da pagina uno oppure dalla fine, una lettura intrigante per chi ha a cuore l’educazione di tutti.


MAURO MARTINONI, Nessuno nasce imparato – Le persone e le cose che mi hanno imparato, mi hanno insegnato, 2021: Giampiero Casagrande editore, 118 pagine, ISBN 978.88.7795.261.5, €-CHF 10


Mauro Martinoni, nato nel 1941, ha conseguito il dottorato in Psicologia all’Università di Zurigo. Ha gestito nell’ambito pubblico e privato progetti di innovazione e di creazione di nuove strutture, tra le quali l’Università della Svizzera Italiana (USI) e la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI). È stato membro di varie commissioni federali nel campo universitario e della pedagogia specializzata.