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La scuola non deve abbandonare nessuno

Ormai siamo alla frutta, pur avendo saltato diverse portate. Così è arrivato il momento di chiudere con la domanda delle domande: ma che scuola è la scuola dell’obbligo ticinese, quella che termina con la licenza di scuola media (anche se non a tutti va bene)? Dipende dai punti di vista.

Nei confronti internazionali la scuola ticinese esce sempre con buoni voti. Prendiamo PISA, che è la verifica più conosciuta e che ogni tre anni valuta in tre ambiti – lettura, matematica e scienze – il livello dei quindicenni di una sessantina di paesi industrializzati. Da noi le analisi si concentrano su paesi simili al nostro: i paesi confinanti, alcuni paesi bilingui (tra cui il Canada) e la Finlandia, che sin dalle prime indagini PISA ha ottenuto risultati tra i migliori del mondo. Per contro, non avrebbe un gran senso il confronto con paesi culturalmente diversissimi.

Se guardiamo i punteggi ottenuti nell’ultimo rilevamento (2018) vediamo che la scuola svizzera è risultata, in media, tra le migliori di questo gruppo e che quella ticinese è tra le migliori in Svizzera. Ma le medie, come si sa, descrivono alcune cose e ne tralasciano altre. In tutti i paesi scolarizzati ci sono i primi della classe, in proporzioni diverse. Ma dall’altra parte della classifica ci sono quelli così tanto lontani dalla media da risultare del tutto incompetenti nei tre settori considerati. In Svizzera sono circa uno su dieci.

Diceva don Milani che «la scuola ha un problema solo, i ragazzi che perde». Non siamo più negli anni ’50 dell’Italia rurale – non lo siamo più da un pezzo – eppure, ancor oggi, c’è un numero importante di ragazzi che a venticinque anni non ha in mano lo straccio di un diploma: tanto che il cantone Ticino ha istituito la norma che mira ad assicurare che tutti i giovani residenti, dopo la scuola obbligatoria e fino alla maggiore età, siano seguiti e accompagnati in un progetto individuale di formazione che permetta loro di ottenere un diploma – ad esempio un certificato di formazione professionale. È difficile pensare che, tra gli allievi malmessi già alla fine della scuola obbligatoria, non vi siano quelli che si erano già persi prima, e che continueranno a brancolare senza un orizzonte.

I confronti internazionali servono anche a mettere in luce queste difficoltà dei sistemi formativi, benché di solito si tenda a mettere sotto i riflettori i cannonieri, le partite vinte e il posto in classifica. Il paese ha bisogno anche dei suoi campioni, ma il compito della scuola dell’obbligo è un altro. Sono convinto che per mirare all’educazione di futuri cittadini consapevoli, critici e liberi serva in primo luogo un ambiente sereno, che accolga e accompagni tutti. Il numero dei «fuori classifica», sommato a quello dei «minimo per la sufficienza», non fornisce grandi garanzie di cooperazione e di crescita. La competizione per stare a galla assorbe troppe energie preziose.

Non so in cielo, ma a scuola non è vero che gli ultimi sono beati, anzi. D’accordo, non siamo al punto di quegli stati dove la competitività scolastica esasperata ti porta a buttarti giù da un ponte se boccheggi o fallisci. Ma forse sarebbe utile sostenere con maggiore convinzione quelle discipline, che già fanno parte dei piani di studio, come la storia, la geografia e le arti – senza scordare la filosofia – che contribuirebbero a un’educazione civica più viva e sensata.

Insomma, proprio per chiuderla qui: «La scuola potrebbe fare di più!», per usare un’espressione che le è tanto cara.


Qualche nota, oltre l’articolo

In occasione di tutti i miei articoli pubblicati sul Caffè a partire dal 1° novembre, il giornalista Andrea Bertagni ha curato le Analisi di tanti operatori della scuola ticinese sui temi che avevo proposto. È stato certamente un lavoro non facile, anche perché i tempi sono sempre stati molto stretti. Lo voglio ringraziare per questo lavoro prezioso. Non ho mai messo il naso nelle sue scelte, solo in pochi casi posso dire che conoscessi la persona invitata a parlare dei «miei» temi. Questa è l’ultima Analisi pubblicata, un colloquio con la maestra Raffaella Moresi, che, appunto, non conosco.


Oggi il Caffè è uscito per l’ultima volta. Ha scritto in prima pagina il suo direttore Lillo Alaimo:

GRAZIE. Questa è l’ultima edizione del Caffè, nato 28 anni fa come quindicinale e 23 anni fa diventato settimanale. Un grazie particolare va ai lettori che in questi anni ci hanno premiati. Riconoscenza va a coloro che hanno contribuito alla nascita e alla crescita di questo giornale. Non può mancare un augurio a quanti e a quanto verrà dopo il Caffè, «la Domenica».

Poche parole che dicono molto sulla chiusura del domenicale, che era stata annunciata, sempre in prima pagina, sull’edizione del 9 maggio.

Segnalo due articoli pubblicati in quei giorni su Naufraghi/e:

Questa è stata l’ultima puntata della mia collaborazione con il Caffè. Era iniziata il 12 luglio di un anno fa, con una seria di cinque articoli, Verso la ripresa delle lezioni – si andava  all’apertura di un nuovo anno scolastico, dopo le tribolazioni di Covid-19 – l’ultimo dei quali era apparso sull’edizione del 30 agosto. Poi la collaborazione è continuata sulla scorta di un accordo con il direttore Lillo Alaimo, che non ho neanche rispettato fino in fondo [La formazione scolastica alla prova del tempo. Materia per materia così la scuola si rinnova].

Quest’ultimo contributo parla, indirettamente, del perché non ho rispettato a 360° la proposta di Lillo Alaimo (ma gliel’avevo detto, non ho ordito nessun intrigo).

È stata una bella esperienza. Grazie.

La cultura professionale non può nascere dal nulla

La storia delle idee pedagogiche – che non si deve confondere con la storia delle istituzioni scolastiche – è un percorso che dura da secoli, innescata da quei pensatori che, nell’antichità, erano pure scienziati o matematici: basti pensare ad Aristotele, che già nel IV secolo a. C. affermava che le cose che bisogna imparare, «prima di farle noi le apprendiamo facendole: per esempio, si diventa costruttori costruendo, e suonatori di cetra suonando la cetra». Col passare dei secoli il quadro si è vieppiù affollato e ha arricchito il dibattito di idee e sperimentazioni con gli sguardi del medico, dello psicologo, del sociologo…

Continuo a essere convinto che la storia delle idee pedagogiche sia un strumento che non può mancare nella cassetta degli attrezzi di chi opera nella scuola. È una storia appassionante, con temi che, anche in tempi recenti, non hanno mancato di innescare discussioni accese. Si pensi a Pestalozzi, che nel 1798 accoglieva a Stans gli orfani della rivoluzione francese, bambini e ragazzi allo sbando: «erano nella condizione alla quale conduce l’estrema degenerazione della natura umana. Arrivavano con occhi pieni d’angoscia e con fronti cariche di rughe della diffidenza e della preoccupazione, alcuni pieni di audace sfrontatezza, abituati alla mendicità, all’ipocrisia e ad ogni falsità, altri oppressi dalla miseria, pazienti ma sospettosi, incapaci di amore e timorosi».

Pestalozzi e gli orfani di Stans nel 1798.

Nella storia della pedagogia vi sono molte vicende appassionanti. Potrei raccontare di Janusz Korczak e dei suoi ragazzi del ghetto di Varsavia, dove elaborò interessanti strategie per risolvere i conflitti tra allievi – prima di essere deportato con i suoi ragazzi nel campo di sterminio di Treblinka nel 1942. O quella di un altro medico, Jean-Gaspard Itard, convinto che fosse possibile educare chiunque (la sua storia è quella raccontata dal film «Il ragazzo selvaggio» di Truffaut). O, ancora, delle esperienze di Jean Piaget, Don Lorenzo Milani, Maria Montessori, Célestin Freinet, la nostra Maria Boschetti-Alberti, tanto per citare qualche nome tra i più popolari.

Quest’anno ricorre il centenario della fondazione della Lega internazionale per l’educazione nuova (LIEN), che fu fondata a Calais nel 1921 e che, nel 1927, tenne a Locarno il suo IV congresso, con oltre mille partecipanti provenienti da ogni continente. Nelle intenzioni dei suoi fondatori LIEN riunisce e promuove quel movimento che, ancora oggi, si ispira alla scuola attiva, alla collaborazione e alla cooperazione tra allievi. Essa appartiene alla storia delle idee pedagogiche e quel congresso fu ospitato dalla scuola normale di Locarno.

A festeggiare il centenario dell’Educazione nuova anche in Ticino non ci sarà però il DFA, erede istituzionale della scuola normale di un secolo fa. Da oltre un trentennio la formazione dei docenti non passa più dalla storia delle idee, degli ideali, e, sì, a volte anche delle utopie, che per tanti anni hanno ispirato le politiche scolastiche e contribuito a costruire le democrazie.

Credere che sia possibile reinventare una nuova pedagogia per questi tempi complicati dimenticando la storia dell’educazione – che a volte si è incrociata con la storia della scuola – è una scelta vanitosa o imprudente,  perché la cultura professionale non può nascere dal nulla. Le epoche e i contesti economici, culturali e sociali dove questa storia ha proseguito il suo percorso non erano semplici, né banali.

A questo punto ci si potrebbe pure chiedere chi sono i cattivi maestri.


Nota aggiuntiva

Mi piace, in questa occasione, pubblicare il parere del prof. Franco Zambelloni, interpellato da Andrea Bertagni, giornalista del Caffè, e pubblicato dal domenicale insieme al mio articolo (uscito col titolo Non si può non conoscere la storia della pedagogia).

«Zambelloni ha insegnato filosofia e pedagogia nei licei del Cantone Ticino», ha scritto Bertagni. Ma Zambelloni è pure stato direttore della scuola magistrale di Lugano, che ebbe vita breve negli anni ’70.

In quegli anni la massa di studenti che frequentavano la magistrale “storica”, quella di Locarno, per diventare insegnanti di scuola dell’infanzie, elementare e di economia domestica indusse l’istituzione di una sede a Lugano, dapprima solo per le prime tre classi (il quarto anno, quello più professionalizzante, si svolgeva ancora a Locarno), poi come istituto completo e autonomo, alla guida del quale si alternarono Franco Zambelloni e Alberto Cotti.

L’avventura della vecchia scuola magistrale, però, stava per giungere al capolinea. È in quegli anni che, oltre allo storico liceo di Lugano, furono istituiti i licei di Bellinzona, Locarno e Mendrisio. Ed è pure di quegli anni la decisone di trasformare la scuola magistrale da seminariale (vi si accedeva a quindici anni) a post-liceale.

Per la cronaca: entrata in funzione nella seconda metà degli anni ’80, la magistrale post-liceale divenne poi Alta Scuola Pedagogica (ASP) nel 2002, più o meno in concomitanza con l’avvio del Processo di Bologna. A partire dal 2009/10 l’ASP – che era un istituto gestito interamente dal Cantone tramite il Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport – confluì nella Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana come suo dipartimento (poi denominato DFA, Dipartimento Formazione e Apprendimento).

È comunque negli anni post-liceali che inizia la lenta discesa della pedagogia nella scala dei valori della cultura professionale degli insegnanti.

Sono utili i castighi? A volte sì, più spesso no

Chissà se esistono ancora i castighi, tra le quattro mura dell’aula. Ho domandato un po’ in giro, ma nessuno si sbottona, è come chiedere a qualcuno se evade il fisco. Una volta c’era di tutto, dal rimbrotto alle botte, passando per i pensi, le orecchie d’asino, lo stare in ginocchio dietro la lavagna, i pizzicotti, le tirate d’orecchi e di capelli, fino a farsi mandare in corridoio. Diciamo che la fantasia è sempre stata piuttosto prodiga, magari alimentata e suggerita dalla letteratura per ragazzi: «Qui giace la bambina dai capelli turchini, morta di dolore per essere stata abbandonata dal suo fratellino Pinocchio», scrisse Collodi nel suo romanzo più noto – che come ricatto psicologico non è mica una bazzecola.

Le leggende che si tramandano da decenni dai genitori ai figli raccontano, a volte addirittura con un certo vanto, di punizioni al limite del malvagità. E qualcosa doveva esserci almeno fino a una trentina di anni fa, tant’è che un regolamento dello Stato, tutt’ora in vigore, statuisce che sono vietate le sanzioni corporali e psicologiche, che è proibito far saltare la ricreazione, mandar fuori un allievo dalla porta o assegnare dei compiti a casa per punizione.

È capitato a molti di perdere la pazienza e di compiere atti di cui pentirsi. Capita ancor più nel rapporto con i più piccoli, siano essi allievi o figli. Succede anche perché c’è una “pedagogia del castigo” che si perpetua e che ha da sempre i suoi sostenitori. Un noto giornalista, nel frattempo prematuramente scomparso, scrisse, proprio su queste pagine, che «Il ceffone non è un atto di violenza, come pretendono quelli che attribuiscono la colpa alla società, vogliono evitare traumi e paure ai bambini, affermano che le mani si alzano solo per accarezzare. Una sberla, motivata e spiegata, è più efficace d’un predicozzo, di una bocciatura o di uno spot televisivo». Il tema era quello di un certo disagio giovanile, non nuovo già allora: sbronze, risse, vandalismi, sfacciataggine, abbigliamenti provocatori.

Avevo dissentito: «Sarà. Però le cronache riferiscono tristemente che di violenza tra le mura domestiche ce n’è già troppa. Più che di manrovesci e sganassoni si sente un impellente bisogno di educazione e di cultura», a cominciare proprio dalla scuola. Correva il 2004, mica secoli fa.

Nel 2011 il Gran consiglio zurighese, chiamato ad esprimersi sulle sanzioni da adottare nei confronti degli scolari più indisciplinati, aveva inasprito le norme sull’espulsione, spostando il periodo massimo da quattro settimane a tre mesi. Paradossalmente il fatto di allontanare un allievo dalla scuola perché la prende a calci finisce col rendergli un favore e magari creargli l’aura di eroe di fronte ai suoi pari. Mi sembrerebbe più intelligente, anche se più oneroso, obbligarlo a stare a scuola di più, fuori orario e senza il suo pubblico che se la ride quanto il nostro eroe rompe le scatole durante le lezioni, insulta gli insegnanti e fa lo scemo. Per esempio potrebbe seguire un corso di filosofia, di letteratura, di storia, di diritto e di storia dell’arte. Lo si obbligherebbe a stare un po’ di ore sui libri, a scrivere e a pensare, a cercare di capire da dove viene il suo odio.

Insomma: sono educativamente utili le sanzioni? A volte sì, più spesso no. Costruire insieme le regole di quella piccola comunità che è la classe, e riaggiustarle con regolarità, sarebbe un bell’esercizio di educazione civica, fermo restando che l’unico principio assoluto è quello della nonviolenza.


Note

La citazione di Carlo Collodi è tratta da Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, 1949: Milano, Rizzoli Editore, II Edizione – 2ª edizione elettronica del 17 gennaio 2002, con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/.

Le due citazioni riguardanti lo scapaccione educativo sono tratte dall’articolo L’elogio del manrovescio, apparso sul Corriere del Ticino del 20.10.2004 (che in quell’anno firmavo ancora con pseudonimo).

Della decisione del Gran consiglio zurighese di inasprire le norme sull’espulsione degli scolari più indisciplinati avevo parlato in un altro articolo del Corriere del Ticino (Quando la scuola non sa più che pesci pigliare, 28.05.2011).

L’immagine è tratta da Pinocchios Abenteuer. Eine Geschichte die vor mehr als hundert Jahren in Italien Passierte, mit 60 Bildern von Frl. Martha Pfannenschmid, 1968, Zürich: Silva-Verlag.

Un computer non potrà mai rimpiazzare gli insegnanti

La scuola è fatta di tanti momenti diversi. Ci sono le lezioni, gli spazi di lavoro individuale – un tema, un disegno, una lettura – e quelli da svolgere in gruppo – un’osservazione scientifica, un problema matematico complesso. Poi ci sono l’educazione fisica, quella musicale e le attività creative. Ma i tempi della scuola sono scanditi anche dalle esercitazioni: perché la tavola pitagorica conviene saperla a memoria e i calcoli, mentali o scritti, bisogna esercitarli, dai più semplici ai più complessi. Anche l’ortografia e la grammatica passano dall’esercizio, senza scordare quelle tante e variegate nozioni che, messe insieme, permettono di affrontare problemi complicati un po’ in tutti gli ambiti della conoscenza e della cultura.

Il computer è una macchina del tutto stupida, ma è in grado di proporre esercizi tenendo conto di diversi parametri, affinché il compito da svolgere sia sempre quello più utile e appropriato e senza scoraggiarsi. La buona pratica dice che se un esercizio è troppo facile o troppo difficile serve a poco o niente. Ogni esercizio dovrebbe essere un po’ più difficile dell’ultimo che si è riusciti a risolvere, ma sappiamo che assai spesso la realtà dell’aula è un’altra. Dunque un’applicazione informatica sensata offre un’opzione didattica win-win, vale a dire con vantaggi per l’allievo, perché le finalità dell’esercizio sono più efficaci e mirate, e per l’insegnante, che può così occuparsi di attività didattiche e pedagogiche più interessanti. Non da ultimo, il computer non dà le note, ma si limita ad applicare una rigorosa valutazione formativa: ti segnalo l’errore e ti aiuto a superarlo, oppure ti informo che si può passare a cose più difficili.

Il tema della valutazione mi porta a citare un esempio concreto. Nei primi anni della scuola elementare si impara a leggere. Una volta superato il primo scoglio, che è quello di decodificare il testo scritto, comincerà il lungo percorso per formare lettori adeguati, cioè lettori con un’ottima comprensione e un’altrettanto ottima velocità. Sappiamo però che moltissimi allievi manifestano delle difficoltà –  e il ventaglio è vastissimo – sin dai primi passi, accumulando in tal modo lacune che si ripercuotono su tutto l’apprendimento.

Su Scuola ticinese, periodico della divisione della scuola del DECS, è uscito recentemente l’articolo di tre ricercatori che hanno «messo a punto uno strumento per una valutazione ‘ecologica’ delle abilità di lettura e comprensione» di un testo. Si tratta di una serie di prove, da svolgere con un tablet, che consente di rilevare la natura delle difficoltà di ogni singolo allievo. «Capire a fondo come ‘funzionano’ gli allievi – scrivono i ricercatori – è indispensabile per poterli sostenere al meglio negli apprendimenti», cioè per intervenire con attività mirate.

Anche in questo caso, il computer ha la capacità di svolgere meglio un compito tutto sommato noioso. Ma non è una scatola magica. Puoi fargli suonare un notturno di Chopin, ma ci vuole il grande artista per restituirne l’emozione e la bellezza. Così è anche per la scuola: la macchina non può rimpiazzare l’insegnante, che continuerà a essere il regista del tempo scolastico, in modo che l’ambiente rimanga sereno e si arricchisca. Ma può rivelarsi un supporto prezioso, per migliorare alcune pratiche di routine e, nel contempo, per permettere al docente di occuparsi di questioni pedagogiche più sostanziali e piacevoli, a favore di ognuno.


Avevo già parlato della ricerca pubblicata su Scuola Ticinese, che ho citato anche oggi, seppur da un’ottica diversa (v. Le difficoltà di imparare tra ricerca e azione didattica, 15.04.2021): SARA GIULIVI, CLAUDIA CAPPA, MARCELLO FERRO, «Le difficoltà di lettura: limiti o soglie calpestabili?», in Scuola Ticinese,Periodico della Divisione della scuola Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport, N° 339: Anno L, Serie IV, 1/2021, pp. 31-37

L’informatica è straordinaria, ma è il mezzo e non il fine

È da una trentina d’anni che c’è chi invoca un maggiore coinvolgimento della scuola nell’ambito delle TIC, le Tecnologie dell’informazione e della comunicazione: computer, reti, telefonini, robot… Le TIC sono dappertutto, anche quando non ce ne accorgiamo. Così, di pari passo con la loro vertiginosa evoluzione, si chiede da sempre che la scuola si metta al passo coi tempi: praticamente un ossimoro.

Quando si parla di potenziare la dotazione scolastica TIC, prima del «Cosa» bisognerebbe chiedersi «Per fare cosa». Non è attrezzando le scuole di tutta la mercanzia tecnologica immaginabile che si possono risolvere problemi educativi e formativi nati ben prima del 1984 – che non è solo il titolo del romanzo di Orwell, ma anche l’anno di nascita di Macintosh, la rivoluzionaria famiglia di computer che avrebbe dato il via alla diffusione dei PC nelle nostre case e nei luoghi più inverosimili.

Però, diciamoci la verità: se, da un lato, una percentuale altissima di alunni della scuola dell’obbligo ha imparato a interagire col touch screen prima di imparare a parlare, e anche se la gran parte degli insegnanti possiede uno smartphone e probabilmente usa un computer, il sistema scuola non si è mai chinato seriamente sulla formazione degli insegnanti. In realtà si continua a dare per scontata la capacità degli insegnanti di padroneggiare www e dintorni; nel contempo non si è mai affrontata una riflessione a 360° sulle TIC e su come queste hanno cambiato da così a così l’intero contesto formativo.

Un esempio significativo l’abbiamo sperimentato giusto un anno fa. A metà marzo si sono chiuse le scuole, riaperte in maggio. In quei tre lunghi mesi, a salvare l’anno scolastico ha contribuito la scuola a distanza. Gli ostacoli sono stati tanti e di varia natura. C’era chi, a casa, il computer non l’aveva, o ne aveva uno solo per più di un figlio. Dall’altra parte dello schermo c’erano docenti che riuscivano a fornire prestazioni all’altezza, mentre altri erano del tutto a disagio, con competenze informatiche rudimentali. L’estrema urgenza ha imposto di mantenere quel minimo di contatti, benché virtuali, e di garantire la continuazione dell’attività didattica, per quanto limitata ad alcune discipline. Tuttavia è probabile che le pratiche messe in atto in quei mesi dagli insegnanti non divergessero nella sostanza dagli stili di insegnamento precedenti.

È però dimostrato che quel breve periodo di scuola a singhiozzo, con presenze ridotte e altrettanto ridotta continuazione dei percorsi didattici, abbia danneggiato soprattutto gli allievi delle fasce sociali più disagiate. In tal senso, quindi, si può dire che, almeno in quel frangente, messo in piedi in fretta e furia, gli «ambienti informatici» disponibili hanno mostrato la loro assoluta inadeguatezza pedagogica. Malgrado ciò, c’è già chi afferma che grazie alla pandemia abbiamo scoperto la scuola del futuro prossimo, precorritrice di nuovi e fantastici orizzonti formativi. Di sicuro c’è chi favoleggia una scuola a regime ibrido, un po’ in presenza e un altro po’ davanti a uno schermo, ognuno a casa propria.

Sono convinto che la tecnologia nasconda straordinarie possibilità per contribuire al progetto politico e culturale della scuola obbligatoria. Ma le TIC, di per sé, sono un mezzo, non una finalità. Si cresce e si impara attraverso l’impegno individuale, ma anzitutto lavorando in gruppo e contribuendo alla vita di quella piccola comunità di cui ciascuno è protagonista.