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A proposito di educazione alla sessualità e all’affettività

La Regione del 17 ottobre ha pubblicato un bel contributo di Daniele Dell’Agnola – Il seno di Palomar – Incontri a scuola, fra Italo Calvino e altri profumi – che, da qualche parte, ha a che fare con «L’incontro», il testo per gli allievi della scuola media dedicato ai temi della sessualità e dell’affettività.

Ha fatto benissimo «Il Caffè», qualche settimana fa, a mettere a disposizione «L’incontro», il volumetto che da qualche mese, sino a oggi neanche pubblicato, è al centro di una pruriginosa polemica lanciata dai soliti ambienti cattolici, che si reputano gli unici depositari della corretta educazione, da dispensare ovviamente in famiglia, al riparo da ogni minaccia di corruzione da parte della pedagogia laica. Vien da dire che, sommessamente, anche i cattolici, a volte, portano il niqab: poi, sotto sotto, va’ a vedere cosa succede.

Eugène Delacroix (1798-1863), La Liberté guidant le peuple, 1830, Musée du Louvre
Eugène Delacroix (1798-1863), La Liberté guidant le peuple, 1830, Musée du Louvre

Conosco qualche persona che ha partecipato all’elaborazione del “manuale”. Così sono rimasto sbigottito quando ho letto di incitamento alla masturbazione o altre amenità del genere, neanche che col passaggio del Dipartimento dell’educazione dai liberali ai socialisti la politica educativa di questo Cantone abbia imboccato le strade che portano alla lussuria sfrenata, una nuova rivoluzione sessuale che farebbe arrossire Wilhelm Reich e Alfred Kinsey.

Invece no. «L’incontro», a differenza di molti tentativi del passato, è un testo ammirevole. Serio ma non serioso, tanto per cominciare: tratta argomenti anche psicologicamente difficili e controversi con un intenso rispetto verso i potenziali lettori, che sono ragazze e ragazzi di varie culture, provenienze e livelli intellettuali, che stanno crescendo in un mondo colonizzato dal sesso, con la pornografia a portata di clic e i modelli dello star system che di frequente inneggiano e incitano al machismo e alle tante sfumature del libero mercato del sesso, salvo poi indire referendum contro gli abbigliamenti islamici, perché l’Islam sottomette(rebbe) le donne.

La scelta di abbandonare finalmente il ristretto ambito del corso di scienze naturali permette di lasciarsi alle spalle un’istruzione che, a tratti, pareva essenzialmente zootecnica  – tanto politically correct da sembrare più adatta a futuri allevatori di vacche, che a uomini e donne: solo un gradino più su delle cicogne e dei cavoli – a favore di un’Educazione autorevole e responsabile ai temi della sessualità e dell’affettività.

C’è solo da sperare, ora, che a nessuno venga in mente di sottoporre gli allievi ai soliti test e di dare le note, che andranno a far media chissà con cosa. A questo livello il tema dell’affettività e della sessualità potrebbe essere un bell’esempio anche per altre discipline: perché ci si potrebbe innamorare della matematica o della letteratura, della poesia o della fisica, e avere rapporti intensi con tutte le discipline dell’arte e dell’intelletto, senza bisogno di voler misurare a ogni piè sospinto chi ce l’ha più lungo.

Schtrunk!

Avevo concluso «A cosa potrà mai servire proporre Ovidio a ragazzini di dieci anni?» con toni tra l’apocalittico e l’ironico, mettendo insieme una celebre battuta di Fantozzi e l’attualità della scuola dell’obbligo. Sempre più spesso, avevo scritto, sono lì lì per spararla grossa e parafrasare il Fantozzi Rag. Ugo: «Per me… La scuola dell’obbligo…». Mi ero fermato lì, per evitare ruzzoloni scatologici. Un lettore del mio blog ha però voluto commentare, frugando in YouTube: 92 minuti di applausi.

Nella sua rubrica settimanale su Il Caffè del 27 settembre 2015, Renato Martinoni ha citato un bell’articolo che Pier Paolo Pasolini aveva pubblicato sul Corriere della Sera nel 1975. Martinoni fa sua, nel titolo e pur con gli inevitabili e necessari distinguo, la duplice proposta pasoliniana di quarant’anni fa: Abolire la scuola e oscurare la tivù – un titolo che, per certi versi e da altri punti di vista, fa il paio con quella mia conclusione, un poco sovversiva, dell’articolo appena citato.

Non conoscevo questo articolo di Pasolini, di grande interesse, che si può leggere nell’archivio del Corriere della Sera (oppure lo si può recuperare qui).

Pier Paolo Pasolini al Festival del Film di Locarno del 1973 (la foto è mia).
Pier Paolo Pasolini al Festival del Film di Locarno del 1973 (la foto è mia).

L’anno precedente questo grande intellettuale – poeta, scrittore, regista, sceneggiatore, drammaturgo, editorialista e giornalista: ma la «definizione» è perfino riduttiva – aveva pubblicato uno «Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia», sempre sul Corriere della sera (10 giugno 1974, col titolo «Gli italiani non sono più quelli»), completato il mese dopo (11 luglio 1974) con «Ampliamento del “bozzetto” sulla rivoluzione antropologica in Italia», apparso sul settimanale politico «Il Mondo» sottoforma di intervista a Guido Vergani. Tra l’altro ne avevo parlato in un precedente articolo: Di competenze, conoscenze, valutazioni e regole del gioco.

Entrambi gli scritti sono stati pubblicati nel bel volume Scritti corsari: ho l’edizione dell’editore Garzanti del 1975; lo stesso editore ha nuovamente dato alle stampe il volume nel gennaio del 2015. È una raccolta di articoli, pubblicati tra il gennaio del 1973 e il febbraio del 1975, che bisognerebbe conoscere, anche perché sono anni che hanno profondamente marchiato l’Occidente e la scuola, non solo quella dell’obbligo.

Ai tempi della mia formazione professionale, alla Magistrale ancora seminariale, avevo intuito che la scuola è un Apparato Ideologico di Stato. Il mio insegnante di pedagogia era partito da Louis Althusser, il filosofo francese attivo negli anni di Claude Lévi-Strauss e di Michel Foucault. La scuola, secondo questa teoria, è uno strumento dello Stato per educare il popolo piegandolo all’ideologia dominante, a braccetto con le chiese, le università, i sindacati e i partiti politici. Mi scuso per la sintesi estrema, che naturalmente non rende giustizia al professor Althusser, e neanche al mio insegnante di pedagogia.

Oggi il quadro sembra più complesso.

Se sfoglio i Programmi per le scuole obbligatorie del Cantone Ticino del 1959 il progetto dello Stato per l’educazione dei futuri cittadini è chiaro e lineare. I Programmi per scuola elementare del 1984, invece, risentono già di quel «politicamente corretto» che sarebbe diventato più famoso qualche anno dopo, tanto che si incontrano i primi eccessi di pedagogismo, il progetto educativo si annacqua d’un certo universalismo di maniera – più cittadini del mondo che attori consapevoli in loco, almeno, umilmente, come punto di partenza – e i contenuti dell’istruzione sono attenti al massimo grado di neutralità ed equidistanza. Insomma: se nel 1959 si poteva ancora leggere che «A suscitare amore per la patria e per le sue istituzioni devono contribuire tutte le discipline scolastiche e le manifestazioni patriottiche», nel 1984 di “patri” restano solo i patriziati e il patrimonio.

Sin dalle prime righe dei programmi dell’84 si legge che «Nulla (…) di ciò che costituisce l’umanità della persona può essere trascurato nella formazione scolastica: essa favorirà lo sviluppo del pensiero, dei sentimenti, del corpo dell’allievo: lo introdurrà a una cultura che gli permetta di partecipare pienamente alla vita sociale; formerà in lui responsabilità e senso civico, la coscienza dei legami che ci uniscono agli altri e l’impegno morale». Ma ritrovare questa dichiarazione d’intenti nel corpus dei programmi è difficile.

Per giungere all’attualità più stretta, sono in arrivo i nuovi piani di studio della scuola dell’obbligo, che nascono in un contesto globalizzato mondialmente e (H)armonizzato(S) a livello svizzero. Sarà interessante vedere come sarà la Scuola che verrà, che passerà proprio, in prima istanza, da questi corposi nuovi piano di studio.

Io, che sono più vicino alle idee di scuola di un Célestin Freinet, di un Don Milani, di un Pestalozzi o di un Lombardo-Radice, faccio fatica a capire il progetto di questa scuola che perde un sacco di tempo in verifiche, tempo sottratto all’insegnamento, e che, senza dichiararlo schiettamente, è divenuta utilitarista a oltranza. Chi sia a dettare l’agenda scolastica allo Stato non è chiaro, e già questo dovrebbe costituire un motivo di apprensione.

Il che porta a chiedersi: dov’è finito il tanto vituperato Apparato Ideologico di Stato, benché le analisi marxiane non siano più di moda? Chi tiene le briglie dell’Educazione dei futuri cittadini? Magari la scuola di oggi è proprio quella che vuole la gente: più democratico di così, insomma, si muore. Si può reclamare tutto e il contrario di tutto e la politica è lì, pronta a cavalcare tutto e il contrario di tutto. Solitamente senza neanche arrossire.

Va da sé che non sono un fautore dell’illustre benevolent dictator, del dittatore illuminato; ma faccio fatica a capire perché, in pochi anni, e attraverso un movimento di sinistra com’è stato il Sessantotto, si sia arrivati a questa società così poco umana e umanista, a questo contesto sociale dominato dalla competitività più spinta e da una marea di procedure alienanti e frustranti, da una scuola selettivissima, che, al contempo, illude le persone con la balla delle pari opportunità. Ma non si sa a chi dare la colpa, non si conosce l’avversario politico, non è possibile preparare una strategia politica per combattere. Il muro è sempre più gommoso e attaccaticcio. Tutto sembrerebbe iniziato con Margaret Thatcher e Ronald Reagan, non propriamente dei politici di sinistra.

Così, visto che mi piace prendere a prestito comici e artisti del passato, sento il bisogno, per concludere, di rubare le parole a quell’indimenticabile personaggio di Charlie Chaplin che è Adenoid Hynkel: democracy schtrunk, liberty schtrunk, freesprächen schtrunk.

Educazione schtrunk.

Il maestro migliore è quello che insegna

Nel dicembre scorso il Dipartimento dell’educazione aveva lanciato un ambizioso progetto per la scuola di domani. Durante la prolissa e un po’ tediosa campagna elettorale, i commenti dei candidati – spesso insindacabili sentenze – si sono mischiati a quelli di tanti addetti ai lavori, per lo più insigni professori delle scuole cantonali. L’assunto di chi è contrario, più volte reso esplicito con l’ironia, il sarcasmo o l’inopportuno sghignazzo, è quasi sempre il medesimo: siamo tutti diversi, quindi c’è chi può e chi non può. Così sarebbe ipocrita far finta che siamo tutti uguali. Chi pensa che sia possibile creare una scuola dell’obbligo equa, magari mirando alla parità dei risultati a livello elevato, vale a dire al raggiungimento del traguardo estremo a cui ognuno può spingersi, ha ricevuto gli epiteti che più vanno di moda, quali «ideologico» o, peggio, «pedagogico». Ci può anche stare che, qua e là, certe sciocchezze le dica chi fa politica. Ci siamo ormai abituati alla tuttologia impalpabile che spira ogni tanto nei parlamenti e durante le campagne elettorali. Ma sconcerta che certe asserzioni, lapidarie e irrefutabili, siano sostenute da insegnanti della scuola pubblica.

Ho sempre creduto che il compito più nobile e alto dell’insegnante sia quello di insegnare. Il bravo maestro è quello che non molla l’osso, neanche di fronte ai casi più ostinati e ribelli, e che fa tutto il possibile affinché ogni allievo giunga ad assaporare il piacere di imparare e la gioia di capire. L’insegnante capace, quello che è in chiaro sui suoi doveri etici e istituzionali, non è quello che si rivolge solo a quei tre quarti di allievi che costituiscono la media delle capacità; invece, e più correttamente, egli dà il massimo anche ai più fortunati e dotati, che imparano in fretta e con facilità, e a quegli altri che invece annaspano e hanno bisogno di aiuti supplementari per poter raggiungere gli obiettivi posti dalla scuola. Limitarsi a prendere atto che vi sono allievi in difficoltà, senza far nulla per poterli aiutare, ma sanzionando il loro insuccesso a ogni piè sospinto, è una grave inosservanza dei propri doveri professionali. Secondo questa «corrente di pensiero», inoltre, non sono da considerare solo le doti individuali, bensì anche l’impegno. Insomma: se un ragazzo già non è molto sveglio e, oltre a ciò, non investe adeguate energie nella scuola, non si vede perché la scuola dovrebbe stracciarsi le vesti. In fondo sono solo fatti suoi e della sua famiglia. Non si tratta di ipotizzare per tutti la frequenza universitaria, con inevitabile dottorato al seguito, ma il compito della scuola dell’obbligo non è di selezionare le future élite del paese, bensì di educare i cittadini di domani, prima ancora dei lavoratori.

Sarebbe come se la medicina si occupasse solo dei suoi pazienti più comodi, quelli che, sopportando qualche consiglio sensato – un po’ di moto, alimentazione equilibrata, niente vizi, un check up regolare e nessuna esagerazione – starebbero come papi. Gli altri, quelli che conducono una vita sedentaria, fumano e sbevazzano, cedono regolarmente ai peccati di gola, e magari praticano pure sport spericolati, s’accomodino pure. La medicina, lo sappiamo, ha un suo codice deontologico, che vale sia per i grandi luminari che per i paramedici. Eppure andare a scuola è obbligatorio, mentre recarsi con regolarità dal proprio medico di famiglia non lo è proprio.

Archiviate le elezioni, chissà che scuola verrà?

La lunga e un po’ noiosa campagna elettorale per il rinnovo dei poteri cantonali è finalmente passata agli archivi. Come sempre, c’è chi ha vinto, chi ha perso e chi s’accontenta e gode. Considerato che la composizione del Consiglio di Stato ricalca l’esecutivo precedente, sono personalmente contento che il socialista Bertoli abbia mantenuto il Dipartimento dell’educazione e della scuola. Sul domenicale «Il caffè» del 26 aprile gli è stato chiesto: Lei ha “preso” ancora il dipartimento Educazione e cultura, come quattro anni fa. Per quieto vivere o per convinzione? Per serietà, ha risposto. Ho cominciato un lavoro nel 2011, è bene che sia continuato per dargli più forza.

Chapeau.

Il suo progetto «La scuola che verrà» è finito nei proclami di tanti candidati. I socialisti hanno per lo più proclamato il loro sostegno, senza se e senza ma. Molti altri, di altri schieramenti politici, hanno sparato ad alzo zero. Ci sono, nella proposta, alcuni enunciati che sono andati di traverso a tanti politici e politicanti. Affermare, ad esempio, che «Un primo principio, che possiamo definire di tipo etico, è certamente il postulato dell’educabilità di ogni allievo, secondo cui chiunque, indipendentemente dalla propria origine sociale e culturale, possiede un potenziale che merita e richiede di essere sviluppato» è liquidato come palese progetto di riduzione del livello della scuola.

E pensare che tra gli oltre seicento candidati che hanno affollato le troppe liste di queste elezioni, c’è sicuramente chi è andato a scuola da qualche insegnante facilone e di manica larga, magari anche tra chi accusa «La scuola che verrà» di voler scientemente promuovere tutti senza insegnare nulla, per mandare tutti all’università.

Pestalozzi tra gli orfani di Stans (Konrad Grob, 1828-1904)

Il postulato dell’educabilità di ogni allievo non è solo una finalità nobile e alta, e non è nemmeno una sorta di slogan ipocrita e irrealizzabile. L’educabilità di ogni allievo è un traguardo che vale la pena di tenere al cuore dell’azione politica quando si costruisce e si gestisce la scuola dell’obbligo. Come ho già scritto più e più volte, le pari opportunità sono state una conquista, ma oggi non devono impedire di mirare alla parità dei risultati a livello elevato, vale a dire al raggiungimento del risultato massimo a cui ognuno può spingersi.

Per edificare una scuola che sia al servizio del Paese, prima che dell’economia e dei bisogni immediati (neanche sempre così eccelsi), è necessario chinarsi con passione e originalità sul senso di un’Istituzione così importante, affinché l’educazione di cittadini capaci di vivere in un mondo sempre più complesso e di partecipare alla realizzazione dell’intelligenza e della democrazia non debba necessariamente adeguarsi agli stretti abiti di un’organizzazione scolastica di stampo ottocentesco.

Spiace, rattrista e fa rabbia che vi siano anche dei professori che scrivono ’ste cretinate. Dall’alto della loro cattedra scrivono ai giornali e spiegano come va il mondo – meglio, come funziona la scuola secondo loro: sono spesso i medesimi che, nonostante tutte le infingardaggini, vorrebbero classi più piccole, maggiore riconoscimento sociale e, perché no?, qualche franco in più in busta-paga a fine mese.

In tempi recenti la pedagogia ha generato qualche insulto, come pedagogista, con o senza punto esclamativo, o pedagogismo. Colpa certamente anche di qualche mio collega «scienziato dell’educazione», che magari non ha mai messo piede in un’aula scolastica e fors’anche conosce solo i bambini e i ragazzi dei libri. Ma non è così che funziona, non è sufficiente sapere le cose per essere un insegnante efficace, entusiasta e appassionante, uno di quelli che fan camminare i loro allievi a un metro da terra all’uscita dalle loro lezioni. Purtroppo nella nostra repubblica uno può diventare uno specialista dell’insegnamento per il solo fatto di ottenere un posto di insegnante. Poi, da lì in poi, si può assurgere anche al ruolo di direttore o di ispettore, o addirittura di funzionario del dipartimento. È un po’ come se uno diventasse primario d’ospedale perché è già stato in cura da un medico o perché, una sera, ha dato un’aspirina alla moglie e gli è andata bene. A volte funziona. Più spesso è un disastro.

Assaporare la soddisfazione di un allievo che ha finalmente incontrato il piacere di imparare o la gioia di capire è tutt’altra cosa. La storia della pedagogia e delle idee pedagogiche, almeno da Rousseau e Pestalozzi in qua – una storia che ha ancor oggi molto da raccontare e da insegnare –, non può essere ridotta a un selfie.

«La buona scuola è innanzi tutto un’idea»

È bello, di tanto in tanto, imbattersi in qualche opinione sulla scuola che sia in grado di sfuggire ai discorsi che s’ispirano alle solite tiritere, in parte conservatrici e in altra parte utilitariste, ma nel complesso attente ai tornaconti individuali o di casta, tanto da rasentare spesso la bugia.

È il caso di un bell’articolo di Ernesto Galli Della Loggia apparso sul Corriere della sera di domenica 8 marzo 2015 con un doppio titolo: La scuola cattiva è questa, in prima pagina, con un rimando diretto alla situazione italiana e alle attuali proposte di riforma, e La visione che manca alla buona scuola a pagina 28.

Lo storico e pubblicista italiano sta alla larga dalla baraonda delle tesi e contro tesi che caratterizzano un po’ dappertutto le pseudo-discussioni sull’istituzione scolastica, ma risale alle sorgenti. Scrive che «La buona scuola non sono le lavagne interattive e non è neppure l’introduzione del coding, la formazione dei programmi telematici; non sono le attrezzature, e al limite – esagero – neppure gli insegnanti. La buona scuola è innanzi tutto un’idea. Un’idea forte di partenza circa ciò a cui la scuola deve servire: cioè del tipo di cittadino – e vorrei dire di più, di persona – che si vuole formare, e dunque del Paese che si vuole così contribuire a costruire».

E ancora: «La scuola – è giunto il momento di ribadirlo – o è un progetto politico nel senso più alto del termine, o non è. Solo a questa condizione essa è ciò che deve essere: non solo un luogo in cui si apprendono nozioni, bensì dove intorno ad alcuni orientamenti culturali di base si formano dei caratteri, delle personalità; dove si costruisce un atteggiamento complessivo nei confronti del mondo, che attraverso il prisma di una miriade di soggettività costituirà poi il volto futuro della società. La scuola, infatti, è ciò che dopo un paio di decenni sarà il Paese: non il suo Prodotto interno lordo, il suo mercato del lavoro: o meglio, anche queste cose ma soprattutto i suoi valori, la sua antropologia, il suo ordito morale, la sua tenuta».

Siamo insomma lontani anni luce dai soliti discorsi che infarciscono le campagne elettorali, quelli con un fervorino agli imprenditori e uno ai sindacati, qualche proposta per risolvere tutto – l’educazione civica, il salmo svizzero, il tablet, le varie “educazioni mirate”… – e tanta, tanta ipocrisia.

Ne tenga conto chi vede volentieri una “nuova e diversa” scuola che verrà e chi, invece, sta facendo di tutto per non lasciarla neanche partire. Nell’uno come nell’altro caso la sostanza delle cose non cambierà.

Naturalmente non m’illudo che, così all’improvviso, chi è nella stanza dei bottoni sia capace di uscire dai percorsi tradizionali (e conservatori). Lo dico dunque così, per scaramanzia. Però, secondo me, ha ragione Galli Della Loggia: la scuola o è un progetto politico nel senso più alto del termine, o non è.

 

[È possibile risalire all’articolo nel sito del Corriere della sera – La scuola cattiva è questa – o scaricarne il testo qui.]