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Una scelta per la scuola del Paese che verrà

Il parlamento ha bloccato «La scuola che verrà», l’ambizioso progetto del ministro Bertoli per la scuola di domani. Il presidente dei liberali radicali ha detto che quella scuola lì è «impregnata di ideologia socialista». Probabilmente ha la memoria corta, oppure tace consapevolmente. È bene ricordare che «La scuola che verrà» ha molto a che fare con la Legge sulla scuola media, votata nel 1974, e con quella della scuola del 1990: due leggi, per intenderci, mai realmente compiute e realizzate fino in fondo, ma fortemente volute proprio dai liberali radicali. Ricordo che il relatore di maggioranza sulla scuola media fu Diego Scacchi, all’epoca esponente di spicco del PLR.

Una gran quantità di persone e associazioni ha sparato ad alzo zero contro la proposta di Bertoli, che era stata lanciata a pochi giorni dal Natale di due anni fa, e a pochi mesi dal rinnovo dei poteri cantonali. Aveva aperto le danze l’imprenditore Silvio Tarchini: «È l’ennesimo abbassamento della selettività della scuola. L’abolizione dei livelli porterà a ulteriori difficoltà nel momento del passaggio nel mondo del lavoro. Ma soprattutto saranno guai per coloro che vorranno continuare a studiare». Lapidario. A seguire, di lì a qualche giorno, il consigliere nazionale Fabio Regazzi, che durante una riunione dei suoi si era soffermato sulla riforma della scuola dell’obbligo illustrata dal DECS. Stringato anche lui: «Ritengo fondamentale ristabilire la meritocrazia, cosa però difficilmente raggiungibile con la soppressione di valutazioni e licenze». Addirittura anche il Movimento della scuola, in quei giorni, si era opposto: «In certe riforme [ci sono] troppi scienziati dell’educazione», un concetto ripreso nei giorni scorsi da Gerardo Rigozzi, ex direttore del liceo di Lugano: «La mia impressione è che ‘La scuola che verrà’ sia stato scritto da pedagogisti che vogliono fare i politici».

Come detto la commissione scolastica del Gran consiglio ha ora chiesto e ottenuto il rinvio della fase sperimentale, che il Dipartimento intendeva avviare già dal prossimo settembre. I socialisti si sono astenuti, de facto favorendo in maniera un po’ melliflua il blocco del progetto: che potrebbe essere temporaneo solo in apparenza. A mente della sinistra vi sono alcune criticità che devono essere risolte, sennò non se ne fa nulla. Va da sé che i punti critici indicati sono per lo più di natura sindacale, ma hanno poco a che fare con le finalità più qualificanti del progetto, in cui riecheggiano tante riforme degli ultimi quarant’anni, che spesso non sono riuscite a raggiungere i veri obiettivi, sin dall’istituzione della scuola media.

Dietro questo ennesimo teatrino, che coinvolge partiti, sindacati e istituzioni, nessuno ha il coraggio di porre l’unica domanda fondamentale, che impone una risposta serena e trasparente: che scuola vogliamo? Una scuola per la democrazia e il Paese oppure al servizio dell’economia? In altre parole, desideriamo educare cittadini o selezionare e formare lavoratori? Senza questo chiarimento il dibattito continuerà ad attizzarsi attorno a troppi non detti, lasciando il dubbio che si preferisca la seconda opzione, anche se non sempre sta bene dirlo a chiare lettere.

Un attentato e un romanzo contro i pregiudizi

Com’era già capitato nel luglio scorso, l’inserto culturale del Corriere del Ticino ha dedicato alcune pagine, in queste ultime settimane, ad  alcune segnalazioni librarie da parte delle sue firme. Sono una firma sporadica e irregolare, ma pubblico la mia rubrica, Fuori dall’aula, sin dal 29 agosto 2001. In luglio non mi ero sottratto al mio ruolo fuori dall’aula, e avevo segnalato un volumetto esplicitamente rivolto al mondo della scuola: «Tutta un’altra scuola! (quella di oggi ha i giorni contati)».

Stavolta, invece, ho pescato nella letteratura “normale”. Un po’ istintivamente ho segnalato un romanzo del 2005, ripubblicato quest’anno dall’editore Sellerio: L’attentato, di Yasmina Khadra.

È la storia di Amin Jaafari, un beduino naturalizzato in Israele, che fa il chirurgo a Tel Aviv. È un uomo di successo, ben integrato nella società in cui vive. Poi, all’improvviso, un attentato: un kamikaze che si fa esplodere in mezzo alla folla, la strage raccontata da tante cronache. I feriti arrivano all’ospedale. Sono ore concitate. Il chirurgo agisce mentre il pensiero s’interroga sui motivi oscuri della barbarie. Scoprirà presto che l’attentatrice è Sihem, la sua bella moglie. E lui, che in fondo è ancora considerato un arabo, sarà il complice designato. Yasmina Khadra ci lascia un romanzo di grande attualità, una storia che fa riflettere su tanti pregiudizi.

Yasmina Khadra è un nom de plume. Nato nel 1955 in Algeria, Mohammed Moulessehoul, questo il suo vero nome, esordì come scrittore nel 1984. Ma i suoi racconti non furono graditi all’esercito, di cui era membro. Così continuò a scrivere come Yasmina Khadra, un nome femminile che altro non è se non i due nomi della moglie. Nell’edizione francese di Wikipedia si trova un’esaustiva, benché sintetica, descrizione dell’autore e della sua opera.

Perché scegliere questo autore e questo romanzo per una segnalazione pre-natalizia?

Difficile rispondere, ma, come tutta la letteratura, anche L’attentato educa. Da pedagogista e da cittadino preoccupato per gli schematismi, le chiusure culturali e i tanti muri reali e virtuali che affollano il nostro vivere giorno dopo giorno, ho ritenuto importante proporre questo scrittore e la sua opera, che aiuta a svelare i pregiudizi e, perché no?, a leggerli in chiave diversa dalle prime idee che saltano in mente: che, spesso, sono poi quelle veicolate dai mass-media e da ciò che più fa comodo. Quando un kamikaze agisce, in nome di un dio o di un Dio, ammazza spesso alla cieca, incurante delle fedi e delle credenze delle sue vittime.

Mohammed Moulessehoul ha scritto, in un altro romanzo (Gli angeli muoiono delle nostre ferite, romanzo del 2013 pubblicato l’anno dopo in italiano):

«Gli uomini non vedono le cose, inseguono le loro fantasie».

«E le donne?».

«Le donne non pensano come gli uomini. Noi pensiamo come si deve. Voi badate solo ai fatti vostri. Noi cogliamo subito l’essenziale, mentre voi vi disperdete in strade secondarie. La felicità per noi sta nell’armonia che ci circonda. Per voi, nella conquista e nell’eccesso. Fuggite come la peste ciò che è evidente, e cercate altrove ciò che avete a portata di mano. Così finite col perdere di vista quello che era già vostro».

D’altronde il nome del protagonista di questo romanzo, che si svolge nell’Algeria francese, è Turambo e deriva da Arthur Rimbaud.


Mentre rileggevo e rifinivo questo post, è giunta la tragica notizia della strage di Berlino, dove un TIR si è schiantato sulla folla del  mercatino natalizio davanti al Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche, nella centralissima Kurfürstendamm: nove morti e almeno cinquanta feriti, stando alle notizie dell’ora in cui scrivo.

Ho esitato a premere il bottone «Pubblica». Ma credo che sarebbe stato infame e meschino tacere, solo perché, tanto, nessuno l’avrebbe saputo. E perché, inevitabilmente, l’attacco proditorio nel centro di Berlino attizzerà le Leghe, le Alternative für Deutschland, i Front national e i tanti movimenti analoghi in Europa e nel mondo.

Un ricordo piacevole, una bella storia

La Rivista, mensile illustrato del Locarnese e valli, ha pubblicato una toccante intervista a Dario Catti, un ragazzo affetto da distrofia muscolare (N° 11/2016). Nato nel 1995, Dario ha frequentato per due anni la scuola dell’infanzia di Locarno. Nel 2001/02 iniziò la 1ª elementare alla scuola pratica annessa alla Scuola magistrale cantonale, con la maestra Silvana Fiori. Alla fine di quell’anno scolastico la Scuola magistrale, nel frattempo diventata Alta Scuola Pedagogica, rinunciò alla scuola pratica e la chiuse, così che allievi e docenti confluirono nelle Scuole comunali di Locarno.

Dario continuò la sua avventura nella scuola elementare alla sede dei Saleggi, in 2ª ancora con la maestra Fiori, per poi frequentare il II ciclo nella classe del maestro Angelo Morinini. Ricordo con tanto piacere quell’esperienza, perché la scuola fece il possibile per agevolarlo, facilitandone gli spostamenti, dal momento che la malattia avanzava rapida e inesorabile. I maestri, dal canto loro, lo accolsero con grande sensibilità, senza mai trattarlo con pietismo, ma pretendendo ciò che lui poteva e doveva dare.

Ho il ricordo incancellabile del giorno in cui, il 9 giugno 2006, fu festeggiato assieme ai suoi compagni nella corte interna del Castello visconteo. Al momento della consegna delle licenze di scuola elementare, iniziai proprio da lui. «Siete più di cento – dissi, rivolgendomi agli allievi e al pubblico che li applaudiva – per cui ci vorrà un po’ di tempo. Non c’è un ordine preciso per chiamarvi, né alfabetico né – ci mancherebbe – basato su altre classifiche. Ma, stavolta, voglio fare un’eccezione e cominciare con un allievo al quale la vita ha voluto mettere qualche ostacolo in più, ma che comunque ha dimostrato di saperci fare, malgrado le difficoltà: Dario Catti».

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Naturalmente non voglio qui vantare meriti che non ho. Mi ero limitato a far sì che non si alzassero ostacoli oltre a quelli che già c’erano. Dario era un ragazzo in gamba, sostenuto da una famiglia che non ha mai preteso la luna, ma solo il rispetto verso un figlio svantaggiato, certo, ma senza inadeguatezze che avrebbero potuto suggerire machiavelliche esclusioni (scolastiche). I maestri che hanno avuto a che fare con lui erano bene in chiaro sul ruolo della scuola pubblica e obbligatoria, e operarono coerentemente: con rigore e sensibilità, senza nessun pietismo manierato.

Naturalmente si potrebbe dire che questo tipo di accoglienza dovrebbe valere per tutti i bambini e i ragazzi che sono obbligati a frequentare le nostre scuole. Ma, senza i buonismi tanto di moda, bisogna pur dire che, ogni tanto, l’inclusione deve fare i suoi conti mettendo a confronto i sogni con la realtà (si veda «L’inclusione tra sogni e realtà», un testo di due anni fa, che mi sembra ancora molto attuale).

La politica educativa e le baggianate del partitismo

Chi mi conosce sa bene che ho tante riserve sul progetto «La scuola che verrà», non tanto per i suoi contenuti, quanto per tutto il resto.

Faccio però molta fatica a trattenere l’arrabbiatura quando leggo certe sciocchezze, come m’è successo stamattina – mentre scrivo è ancora venerdì 11 novembre 2016 – sfogliando il Corriere del Ticino. A pagina 11 c’è un articolo che riferisce di un argomento fondamentale per la storia futura del nostro cantone: «PLR Futuro presidente: in 7 ancora in corsa». Per i lettori distratti o non ticinesi, PLR sta per Partito Liberale Radicale. Ne ho fatto parte. Mi sono costruito un’identità ideologica, in anni (lontani) di militanza, anche in quel contesto politico. Mi sono sempre sentito vicino a quella R che rimanda a un liberalismo progressista, attento alle questioni sociali e, nel contempo, fermamente declinato al rispetto dei diritti individuali.

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Felice Casorati. Ritratto di Piero Gobetti, 1961

Torno all’articolo che mi ha fatto andare di traverso la giornata. Leggo che il presidente uscente del partito, durante una riunione coi suoi, ha voluto porre l’accento su qualche tema, scuola in testa. Secondo l’uscente La scuola che verrà è «impregnata di ideologia socialista». Così ha invitato a trovare «il coraggio per scuotere l’albero e far cadere i frutti che vogliamo», che non vuol dire proprio nulla. Pare, stando sempre alla cronaca del Corriere, che l’uscente abbia terminato con un aforisma che di certo non passerà alla storia: «Se fosse vivo, Einstein non voterebbe Lega» [la virgola ce l’ho messa io], che non si capisce cosa abbia a che fare con l’ideologia socialista, messa lì come una malattia contagiosa e da nascondere.

Credo che Einstein, per stare all’ipotesi del presidente uscente, non avrebbe votato neanche per questo partito, che di Radicale parrebbe non avere più nulla, a parte qualche aderente un po’ masochista e magari pure un po’ cióla, un aggettivo dialettale che, per me, non ha nessuna valenza offensiva o irriverente. Se il successore dell’uscente sarà un presidente di continuità, spero che abbia almeno il pudore di togliere quel Radicale dalla denominazione del partito.

«La scuola che verrà» è un progetto con tanti difetti, ma non quello di essere impregnato di idee socialiste, soprattutto se queste, in termini di educazione dei futuri cittadini, sono le idee liberal tratteggiate nell’articolo 2 della Legge della scuola tutt’ora in vigore, una legge sostenuta con vigore dai radicali degli ultimi anni del XX secolo.

Un’etica per la scuola

È da qualche giorno in libreria il volume «Un’etica per la scuola. Verso un codice deontologico dell’insegnante». Edito dall’editore Carocci di Roma e curato da Marcello Ostinelli e Michele Mainardi, il volume raccoglie e riordina gli interventi dell’omonimo convegno di studio del 25 novembre 2015 (qui il programma, di cui avevo pure parlato in un articolo pubblicato sul Corriere del Ticino del 15 dicembre 2015: Un’etica per la scuola e una deontologia per gli insegnanti).

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«Il volume offre un’approfondita riflessione sui principi, sui valori e sulle norme di un codice di condotta professionale dell’insegnante; ne discute la legittimità entro le mura della scuola pubblica democratica e l’opportunità nel contesto della società contemporanea. Dai diversi autori emerge la comune convinzione che la definizione di un’etica della professione e l’adozione di un codice di condotta costituiscono due tappe essenziali del processo di professionalizzazione dell’insegnamento. In appendice è pubblicata una Proposta di codice deontologico redatta da Eirick Prairat che, assieme agli altri contributi del testo, rappresenta un’occasione importante per aprire un dibattito pubblico sull’etica e sulla deontologia dell’insegnante, sulla sua identità professionale e più in generale sui principi e sui valori della scuola pubblica nella società contemporanea».

Dopo l’introduzione dei curatori, la prima parte presenta alcuni studi sul tema: L’idea deontologica, di Eirick Prairat; Il codice di condotta dell’insegnante tra valori interni e valori esterni alla professione, di Marcello Ostinelli; I cardini e le finalità del codice deontologico degli insegnanti, di Silvano Tagliagambe.

La seconda è dedicata a una serie di interventi: Scuola e identità docente: fra assunti etici individuali e collettivi, di Michele Mainardi; Sul codice deontologico degli insegnanti, di Fabio Merlini; La contestualizzazione del codice deontologico nella pratica educativa, di Giorgio Ostinelli; Per un codice deontologico del sistema scolastico, di Adolfo Tomasini.

Il volume si chiude con un’appendice: Proposta di codice deontologico, di Eirick Prairat.


MARCELLO OSTINELLI, MICHELE MAINARDI (a cura di), Un’etica per la scuola. Verso un codice deontologico dell’insegnante, 2016, Roma: Carocci editore, pagine 120, ISBN 9788843085040, 13 €