Daniele Dell’Agnola non è uno che le manda a dire. Ha il pregio di esprimersi pubblicamente su problemi concreti con coraggio e onestà intellettuale. Così il 10 luglio ha pubblicato un interessante scritto sul portale ticinonews. Titolo: La ex magistrale. Argomento (di partenza): il crescente fabbisogno di maestri di scuola elementare ha trovato una prima parziale soluzione attraverso due misure che saranno operative dal prossimo anno scolastico. Quattordici maestre di scuola dell’infanzia – «Brave e con esperienza», chiosa Dell’Agnola; brave dovrebbero esserlo tutte – frequenteranno un corso di due semestri per diventare insegnanti di scuola elementare. Inoltre i nuovi iscritti al corso bachelor del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI – il DFA, cioè l’ex ASP, cioè l’ex scuola Magistrale – saranno circa ⅓ in più degli anni scorsi, vale a dire 88, invece dei 60 usualmente ammessi. Se tutto filerà liscio, questi 88 entreranno nella scuola elementare nel settembre 2017.
Non intendo riprendere le diverse tesi evocate da Dell’Agnola; invito semmai i miei lettori a leggerselo, anche perché non è lunghissimo. Sono d’accordo, e non potrebbe essere altrimenti, che una buona scuola ha bisogno di bravi maestri. Il problema, semmai, è che lo Stato dovrebbe dire cosa vuole dalla sua scuola, mentre la Magistrale dovrà poi formare i bravi docenti. Si capisce subito che siamo confrontati con due sistemi di grande complessità. Dico spesso che la Scuola avrebbe bisogno di modifiche strutturali importanti a tutti i livelli. Per restare agli insegnanti – lo zoccolo duro di una buona scuola – occorrerebbe tra l’altro rivedere una lunga serie di «condizioni istituzionali perverse» che impediscono o, almeno, frenano tante interessanti strategie per tener alti l’impegno e la tensione etica di ognuno. Penso alla sempre più improrogabile necessità di risolvere il problema dell’aggiornamento regolare e della formazione continua; penso alla differenziazione delle carriere (non è normale, ad esempio, che uno possa diventare direttore di un istituto scolastico solo perché è un insegnante, magari del partito giusto); penso alle collaborazioni tra insegnanti, non solo per scambiarsi esercizi, per organizzare la festa di fine anno o per votare ampollose prese di posizione di natura politico-sindacale; penso a un titolo abilitante con la data di scadenza. Penso, insomma, a una struttura scolastica che sappia offrire serenità e rigore e a un’organizzazione delle sue risorse umane che non sia sempre più in emergenza – il burn out, i casi difficili, la burocrazia crescente, … – tanto da richiedere costosi cerotti un giorno sì e l’altro pure.
Anche sul versante della formazione dei maestri e dei professori (sic) è urgente chinarsi sulle migliori strategie per assolvere al meglio il mandato della Magistrale. Ed è soprattutto qui che dissento da Dell’Agnola: diminuire il numero di studenti seguiti da ogni docente e, conseguentemente, aumentare le risorse finanziare proporzionalmente con il numero di insegnanti da formare è una soluzione che comincia a venire a noia, benché trovi quasi tutti concordi. Ma ragioni e torti non sono una questione di maggioranze e minoranze. È da trent’anni e passa che la magistrale riflette approfondisce riforma, senza mai riuscire ad andare al nocciolo della questione.
La prima chiave di volta è il passaggio dal modello seminariale a quello post-liceale, che de facto aveva spazzato via il primato della pedagogia e della didattica generale, a tutto vantaggio delle didattiche disciplinari, con tutti i danni che ciò comporta e ha comportato: non ultima, l’imperante e antipatica tecnocrazia scolastica. Detto di transenna: i primi insegnanti di scuola elementare formati dalla post-liceale erano veramente pochissimi, complice anche la crisi occupazionale del settore. C’eran quasi più docenti che studenti, e questi maestri in formazione erano coccolati e amati come creature eteree. Malgrado il numero ridottissimo, non tutti sono passati agli annali della scuola ticinese. Anche per quei pochi vale l’affermazione secondo cui alcuni erano molto bravi e altri diversamente bravi…
Qualche anno dopo fu il momento dell’Alta Scuola Pedagogica (ASP), che poi così alta non era. Tagliando un po’ con l’accetta, si può dire che gli assi portanti della magistrale precedente furono travasati pari pari nella nuova scuola, che doveva pur rispondere ai tanti requisiti formali fissati dalla famigerata «Dichiarazione di Bologna» del 1999. È con la nascita dell’ASP che si inventano i moduli, gli ECTS, i Docenti di Pratica Professionale (DPP), i Coordinatori di Pratica Professionale (CPP) e altre amenità di contorno. Mi si passi un’osservazione critica sul reclutamento dei DPP. Ne servivano a vagonate e, nelle intenzioni dei loro inventori, si sarebbero selezionate rigorosamente le centinaia di postulanti, così da poter far capo à la crème de la crème. Le cose non andarono per il verso atteso e sognato. Tanti bravi maestri che negli anni precedenti avevano collaborato con la magistrale per la formazione pratica degli studenti scapparono a gambe levate. Così l’ASP aveva allentato i filtri, mentre i responsabili del reclutamento telefonavano alle direzioni scolastiche come moderni «fra cercòtt», frati questuanti alla ricerca di DPP disponibili. Una menata che durò diversi anni e che fece venire l’orticaria a diversi direttori di scuole comunali.
L’ASP, tuttavia, non durò molto. Con l’anno scolastico 2009-2010 avvenne il passaggio della gloriosa magistrale dal Cantone, che la gestiva tramite il DECS, alla SUPSI, diventandone uno dei dipartimenti. Fu nominata direttrice quella Nicole Rege-Colet che fu defenestrata dal Consiglio della SUPSI già nel novembre del 2011 (avevo dedicato due articoli al tema: La frittata al DFA, in attesa della prossima portata e La formazione dei docenti tra politica e missione della scuola). Quell’anno, dunque, il DFA fu gestito ad interim dallo stesso direttore della SUPSI, in attesa che fosse nominato Michele Mainardi, che ha iniziato il suo mandato due anni fa. Va da sé che i primi tre anni della nuova scuola non hanno favorito la riflessione alla ricerca di importanti cambiamenti, per far sì che questo dipartimento della Scuola Universitaria Professionale iniziasse per davvero ad accostarsi al modello universitario, lasciandosi alle spalle, senza troppi rimpianti, i cinque lustri della post-liceale e della scuola tanto alta.
È pure ovvio che l’eredità del nuovo direttore può far tremare i polsi anche al più scafato tra gli uomini di scuola. Mainardi si è trovato a dover creare dalle fondamenta la nuova struttura, in un momento dalle mille emergenze e dovendo fare i conti con decisioni e invenzioni estemporanee del passato, recente e meno. Va da sé che i cambiamenti, di cui si avverte l’impellente bisogno, non possono essere realizzati da un direttore deus ex machina, ma servirà il contributo critico e fantasioso di tanti collaboratori del DFA, che non manca certo di personalità di tutto rispetto.
E qui torno al mio dissenso rispetto alla tesi di Dell’Agnola concernente il rapporto tra docente del DFA e numero di studenti che gli sono affidati. Vi sono, in effetti, alcune stranezze proprio nel modello formativo, che rasentano a volte l’astrusità e che appesantiscono, col rischio di vanificarlo, il compito del docente. Senza naturalmente entrare nel merito dei contenuti, vale a dire in ciò che è essenziale insegnare ai futuri docenti.
Provo a enumerare qualche bizzarria, così alla rinfusa, ispirato da quel che sento in giro. Non ci sono fonti di riferimento, ma non credo di essere troppo lontano dalla realtà e, così, di prendere qualche cantonata vistosa.
- Per essere una scuola di livello universitario, gli studenti stanno troppo a scuola, seguono troppe lezioni. Ho frequentato l’università prima che finisse in salsa bolognese. L’anno accademico durava 25 settimane e le lezioni erano otto o nove a settimana, ognuna di due ore. Il lavoro individuale, organizzato autonomamente, era, sull’arco dell’anno, molto di più. Gli studenti della magistrale, invece, sono trattati come allievi di scuola media. Così, tra l’altro, non li vedi mai a un evento se, in cambio, non ricevono qualche biscottino, sotto forma di ECTS o di ore-lezione bonificate.
- Oltre a ciò sembra che accanto ai corsi e alle pratiche professionali debbano compilare protocolli che richiedono un impegno sproporzionato, che potrebbe essere speso molto meglio. Tra l’altro: questi documenti qualcuno li deve pur leggere (tra i “qualcuno” gli assistenti non esistono ancora), e non è detto che il biologo riciclato in docente di didattica delle scienze sia in grado di iscrivere ciò che legge nel contesto del «lavoro in aula», con allievi concreti: che sono solitamente assai diversi dagli allievi libreschi.
- Sento di docenti del DFA che svolgono un numero spropositato di corsi durante la settimana, magari saltabeccando da un bachelor all’altro e da un master all’altro. Poi fanno anche ricerca. In parallelo, almeno durante i periodi di pratica degli studenti, corrono su e giù per il Ticino come piazzisti, a veder lezioni, di solito dopo regolare preavviso. Anche dal profilo economico l’organizzazione non regge.
- Per tornare alla mia esperienza universitaria, ricordo, il primo anno, un bel corso sulla valutazione tenuto dalla prof. Linda Allal. Tra le altre cose, per la certificazione era richiesto un lavoro personale che affondasse le sue radici nella pratica. A quel corso eravamo in tanti. Ma a seguire i nostri lavori personali c’erano fior di assistenti, mica la titolare del corso.
- Non so se, a tutt’oggi, certi corsi prettamente teorici impartiti al DFA si svolgano un’unica volta per tutti, oppure se il docente deve sottoporsi al rito delle repliche. A leggere Dell’Agnola sembrerebbe di sì. So che ai tempi della post-liceale questa proposta era stata avanzata, ma respinta dai docenti medesimi. Chissà perché.
- I DPP, a statuto comunale o cantonale, sono pagati dal DFA per accogliere gli studenti in formazione. Vi sembra logico che per formare gli insegnanti della scuola ticinese la SUPSI deva pagare? Non sarebbe nell’interesse della scuola ticinese mettere a disposizione insegnanti e classi per la formazione dei futuri colleghi? Per quel che ne so, il DFA versa centinaia di migliaia di franchi solo per pagare i DPP, per coordinarli e formarli. Non è assurdo?
Mi fermo, anche se avrei ancora molte cose da dire. Daniele Dell’Agnola, che è artista prima che docente di scuola media e formatore del DFA, m’insegna che la creatività è quella capacità di superare ostacoli che, di primo acchito, sembrano insormontabili. La creatività non serve solo per scrivere romanzi originali, per dipingere quadri stupefacenti e modernissimi o per progettare edifici straordinari e più funzionali. La teoria della relatività di Einstein, il teorema di Pitagora, le intuizioni di Mendel, la teoria dell’eliocentrismo di Copernico sono imprese di grande creatività.
D’accordo, la Magistrale non è la fisica, né la matematica, le genetica o l’astronomia. Ma, per favore!, finiamola di proporre la soluzione d’ogni problema con le prime cose che saltano in mente. O con le proposte evocate anche dai paracarri.
Caro Afolfo,
ho letto con molto piacere.
Direi che il mio contributo è un po’ ingenuo, se confrontato alla tua analisi, che mette in discussione la mia riprendendo la storia della scuola. Eppure la condivido. Mi hai fatto riflettere e questo mi piace perché il dibattito deve essere questo.
Il mio articolo si regge su una constatazione: ci chiedono di più.
E allora mi pongo la domanda: diminuirà anche la qualità?
Uno dei problemi che sollevi fa emergere proprio il cuore della situazione che si verrà a creare: la supsi DFA chiede agli studenti un sacco di documentazione che i docenti devono leggere, correggere, valutare, schematizzare. Se potessimo insegnare in una supsi dove portare maggiore creatività oltre gli schemi del sistema armonizzato dai punti ECTS, ecco che il problema del numero di studenti ai quali parliamo o ai quali chiediamo di elaborare un’attività, non sarebbe più una questione che mi sentirei di sollevare con urgenza.
La tua tesi poggia sul fatto che la qualità potrebbe passare da un ripensamento del sistema.
Però devo concedermi una scusante: peli sulla lingua non ne ho, ma non oso ancora demolire il DFA nei principi che lo reggono. Mi sono limitato ad alcune constatazioni aprendo il dibattito.
(Già mi ponevo qualche dubbio sull’opportunità di pubblicare nel blog di Tincinonews il mio pensiero: l’ho fatto perché torno a dire che, oltre alla complessità interna della scuola DFA di cui parli tu, credo che politica a volte sia poco consapevole delle proprie scelte.)
Grazie per il tuo ricco commento. Oggi pochi rispondono e molti se ne sbattono.
Un caro saluto,
Daniele
Dell’Agnola scrive che non osa ancora demolire il DFA nei principi che lo reggono. A parte il fatto che l’avverbio – quell’ancora – è almeno buffo, non credo che si tratti di demolire il DFA. L’ex magistrale di oggi è una scuola ancora in fasce: è nata nella tarda estate del 2009 e ha mosso i primi passi, nei primi due anni, con una “mamma” poi cacciata. Dopo un anno provvisorio con un curatore, finalmente si è dotata di un padre legittimo. Non si può quindi pretendere che, all’improvviso, tutti i problemi trovino la loro miglior soluzione.
Nel contempo è pure cambiato il contesto. Dalla seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso fino a un paio di anni fa, la magistrale ha formato insegnanti – penso, in particolare, a quelli delle scuole comunali – in un regime di disoccupazione. Il contesto, quindi, era almeno un pochetto deresponsabilizzante. Oggi, benché lo si potesse prevedere (v. il mio articolo sul Corriere del Ticino del 15.02.2014: Scarsità di maestri e difesa della qualità), il quadro lavorativo è cambiato radicalmente: i neo-diplomati, a meno che non decidano di proseguire gli studi, saranno assunti e avranno una classe. È dunque fondamentale, più che in passato, che siano da subito bravi insegnanti.
Non si tratta, dunque, di “demolire” il DFA. Semmai è il caso di leggere e interpretare criticamente tutto ciò ch’è successo da quando si è cominciato a mettere in dubbio la struttura della vecchia magistrale seminariale fino a oggi: anche a costo di suscitare l’ostilità di qualche vecchia cariatide, che, in qualche caso, è ancora lì a conservare vecchie cianfrusaglie, un po’ per orgoglio e un po’ per nostalgia.
Uno dei vantaggi di non più appartenere direttamente allo Stato e al DECS dovrebbe essere l’elasticità, benché ciò possa sembrare paradossale. Ergo: non servono i tempi lunghi e gli umori mutevoli del Parlamento cantonale per modificare taluni elementi fondamentali dell’organizzazione interna della scuola (che è universitaria e professionale). Nessun processo e nessuna condanna pregiudiziale. Ma tra i problemi a 360 gradi, si potrebbe cominciare proprio dall’ipotizzare e realizzare un organigramma che si avvicini per davvero a quello universitario, coi suoi professori ordinari e con tutte le posizioni intermedie, fino agli assistenti.
In contemporanea, proprio grazie alla nuova struttura, più mirata e funzionale, sarebbe probabilmente possibile ridefinire il “funzionamento” degli studenti, che non potranno continuare a essere trattati come allievi di scuola media. Essere insegnante oggi, con la diffusa possibilità di poter accedere sul serio all’insegnamento già a 23/24 anni, significa dover contare su adulti consapevoli e responsabili, oltre che professionisti competenti. La vita da studente è bellissima. Quella da studente universitario può essere fantastica. A condizione che forgi adulti, non pulcini infradiciati e fragili, pronti a gettare la spugna al primo incontro con un allievo che non risponde alle definizioni attese. Non si tratta, durante la formazione, di lavorare meno, ma di lavorare meglio e di coltivare la capacità di essere padroni della propria professione.
Un corpo insegnante più libero e impegnato nelle sue specificità, concorrerebbe anche a delineare un’identità più precisa della scuola, e, quindi, sarebbe meglio in grado di influenzare la politica scolastica di questa Repubblica.
Poi, va da sé, ci sarebbero molte altre cose da dire sul modello formativo ai quali sono sottoposti gli insegnanti in formazione (tutti gli insegnanti) e sui curricula, magari col potenziamento di alcuni elementi legati alla pedagogia, in tutte le sue declinazioni, e tralasciando certi tecnicismi. Credo che un insegnante maturo, equilibrato, preparato dal punto di vista dell’etica pedagogica e istituzionale, sia in grado di creare le sue didattiche in maniera coerente e in modo che siano adattate al contesto in cui s’insegna.
Dell’Agnola conclude il suo commento in modo amaro: «Oggi pochi rispondono e molti se ne sbattono». Può darsi. Sarebbe una catastrofe se il dibattito riguardasse solo il DFA, così come se coinvolgesse cani e porci. Ma da qualche parte bisognerà pur cominciare, con l’augurio che ovunque inizi il dibattito si sia partigiani di quella che Jean-Jacques Rousseau chiamava la volontà generale: «Il y a souvent bien de la différence entre la volonté de tous & la volonté générale: celle-ci ne regarde qu’à l’intérêt commun, l’autre regarde à l’intérêt privé, & n’est qu’une somme de volontés particulières: mais ôtez de ces mêmes volontés les plus et les moins qui s’entredétruisent reste pour somme des différences la volonté générale» [Du contrat social, ou principes du droit politique, Livre II, Chapitre III]. Ergo: bando alle difese sempre un po’ sindacali dei propri pallini e dei propri privilegi a favore di una crescita della scuola. Una scuola, ricordiamolo, che forma gli insegnanti per questo paese.