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La scuola per il Paese di domani tra il progresso e i gattopardi

Questo articolo è uscito sul Corriere del Ticino di venerdì 27 maggio 2016, a pag. 32, nella rubrica «L’Opinione».


«Occorre essere lungimiranti. Investire nella scuola significa investire nei giovani e dunque nel futuro». In vista del voto popolare sull’iniziativa «Rafforziamo la scuola media» è iniziata la solita lagna. Anche in tempi tecnocratici e burocratici come questi, è difficile dissentire: investire nella scuola – meglio, nell’educazione – significa ambire a un futuro migliore. «Non ho ancora sentito un argomento contrario a questa iniziativa che non siano i costi – ha affermato Raoul Ghisletta, primo firmatario dell’iniziativa – e sappiamo benissimo che i costi sono il grande tabù di questo cantone». Dissento, ma andiamo oltre.

Come ha riferito questo giornale, «durante il dibattito parlamentare, il Consigliere di Stato aveva invitato a rinviare le discussioni finché non fosse stata presentata “La scuola che verrà”, la riforma elaborata dal DECS che mira a riorganizzare l’intero sistema dell’obbligo». Concordo, al di là del parere di Fabio Camponovo, altro sostenitore dell’iniziativa, secondo il quale «Dire di no in nome di un progetto che deve ancora esser posto in consultazione ci appare specioso se non subdolo. È ancora da dimostrare che il progetto di Bertoli sia migliore e meno dispendioso dell’iniziativa. Investire nella scuola non è mai stato semplice, se poi ci si mette anche il DECS a remare contro, le cose si complicano». Ben vengano le complicazioni, perché il problema, naturalmente, non è lì, la domanda è un’altra.

Non stravedo per la «Scuola che verrà». Tuttavia, pensando ai temi proposti da questa e altre iniziative popolari, non ho mai nascosto la testa sotto la sabbia. Mense e doposcuola sono una grana del dipartimento della socialità: la scuola ha ben altri crucci. Nel contempo ho sempre detto che la diminuzione lineare del numero massimo di allievi per classe ha lo stesso quoziente di ottusità di ogni intervento analogo. Ma la scuola che potrebbe esserci – e che ha bisogno del contributo di tutti, senza minacce e senza aut aut politici e/o sindacalistici – è un degno tentativo per cambiare qualcosa alla sostanza stessa della scuola.

La scuola obbligatoria è forse quella che, tra tante istituzioni pubbliche, si è riprodotta negli anni infinitamente uguale a sé stessa. Se scordiamo i suoi programmi e le sue didattiche, la scuola assomiglia ancora maledettamente a quella di metà ottocento. Perfino l’esercito e la polizia, che nell’immaginario collettivo si collocano dalla parte della massima prudenza di fronte al cambiamento, hanno saputo adeguare le proprie strutture all’evoluzione della società. Mi verrebbe addirittura da dire, con riferimento all’esercito: malgrado i ricorrenti tagli budgetari. La scuola no, è ancora aggrappata a consuetudini ormai secolari: un maestro, un’aula, un tot numero di allievi, i «miei» allievi. A parte qualche ammirevole artigianato, qual è il mestiere che seguita a essere così refrattario al lavoro in équipe? Senza citare il calendario scolastico, che assomiglia spaventosamente a quello uscito, oltre cent’anni fa, dalle estenuanti trattative col mondo agricolo, che aveva bisogno di mani per mungere e braccia per i lavori nei campi. Ma sono finiti i tempi in cui la scuola dettava i ritmi a Roma e al mondo…

Senza ironia alcuna: d’accordo, credere nella forza dell’educazione significa investire nei giovani e nel futuro del Paese. Ma, di grazia, qualcuno mi può dire che scuola si vuole?

Cos’hanno ancora di così rivoluzionario, oggi, le pari opportunità?

Viviamo tempi strani.

Qualche giorno fa ho pubblicato una breve riflessione sull’insuccesso: La forza dell’insuccesso e l’elogio del fallimento. Paolo Di Stefano, in un articolo apparso sul Corriere della Sera, ha introdotto la sua riflessione con la frase di un autore che sarà svelato solo nell’ultima frase, tra parentesi: «Il successo è il solo metro di giudizio di ciò che è buono o cattivo». Sveliamo il mistero per chi non ha avuto voglia di andarsi a cercare la soluzione. La versione originale recita: «Der Erfolg ist der einzige irdische Richter über das Recht oder Unrecht».

L’autore è Adolf Hitler, il libro Mein Kampf [Volume I, capitolo 12].

Mica male, per un principio di politica dell’educazione e della formazione che aiuta a sistemare tante coscienze. ’Sta tiritera delle pari opportunità copre ormai tutto l’arco costituzionale, infinito come un cerchio: destra-centro-sinistra-centro-destra, e via girandoci intorno.

D’accordo, istituire la scuola media obbligatoria è stato un atto progressista, così come portare i licei anche a Bellinzona, Locarno e Mendrisio. Ma sono cose di quarant’anni fa. Sarebbe come contentarsi della rivoluzione agricola, di quella industriale o di quella francese. Non è vero che sono sufficienti le pari opportunità per dare concretamente a ognuno la giusta occasione per riuscire a dare il meglio di sé. Basta guardare la questione femminile: nessuno se la sente di sostenere che il solo fatto di nascere donna possa generare disuguaglianze sociali, politiche o economiche. Cavoli: ci sono le pari opportunità! Eppure…

Ho detto che nessuno se la sente di?

Chiedo scusa.

Ho esagerato.

In realtà qualcuno c’è.

L’Unione Democratica di Centro, come si sa, è un partito di destra, malgrado l’aggettivo un poco temerario, e il sostantivo – centro – che è lì per ragioni storiche. Qualche giorno fa, l’11 maggio per la precisione, la sezione vodese dell’UDC ha pubblicato quel ch’è definito Son premier document de reference politique: «L’UDC, la voie du bon sens!». Il documento, di una settantina di pagine, è una specie di bibbia elvetica del XXI secolo. L’UDC (vodese…) traccia il suo Mein Kampf dicendo la sua sulla famiglia e sulla formazione, sulla giustizia, sulla sicurezza e su tutti i temi che interrogano ogni paese dell’occidente, senza naturalmente scordare le religioni, l’asilo e, pensa te!, anche le migrazioni.

Un paio di giorni fa, al capitolo «Famiglia», c’era scritto, tra le altre cose, che bisognava smetterla con la storia che non si potevano tirare un paio di cazzotti ai propri figli, sano principio democratico di educazione alla pace. Il Corriere del Ticino di sabato scorso titolava: «UDC Per educare i figli ci vogliono le sberle». E nell’edizione pubblica e online: «Sberle ai figli per salvare la famiglia». Ecco qua il capitolo di cui si parla.

Chiaro?

Il lunedì di Pentecoste, 16 maggio, la via del buonsenso dell’UDC ha già avuto un primo ripensamento. Neanche ventiquattr’ore dopo, il trattatello di pedagogia democentrista è già sparito: Le présent chapitre fait actuellement l’objet d’une mise à jour. Gli schiaffi e le sberle si sono dissolti. È scomparso l’intero capitolo. Attenderò con curiosità l’esito dell’aggiornamento tanto improvvisato e repentino. Ma non ci potevano pensare prima?

Naturalmente ci sono posizioni pirotecniche anche al capitolo Formation, con chicche come questa: «Sebbene la formazione in un’Alta Scuola Pedagogica non sia inutile, conviene tener presente che “la pedagogia non è una scienza, ma una tecnica”». Eccetera.

Oggi tutti dichiarano la loro adesione al principio universale delle pari opportunità. Mi viene in mente una vignetta esemplare, che circola da tanti anni:

Il compito è uguale per tuttiEccole qua, le pari opportunità: il compito è uguale per tutti, nella più completa indifferenza alle differenze – un’apatia che non è per nulla neutra, politicamente parlando. Tra l’altro ne avevo già parlato; ad esempio: I politici, il DECS e l’indifferenza alle differenze o Un mal inteso senso delle pari opportunità.

Ho la netta sensazione che anche i sostenitori dei quattro scapaccioni educativi non siano così rari: ma non è una posizione che fa tendenza, meglio non dirlo troppo in giro. Forse basterà aspettare un po’, ma poi ci arriveremo.

A differenza del consenso verso le pari opportunità, credo che le punizioni corporali, anche senza arrivare alle frustate e ai fagioli sotto le ginocchia, abbiano il loro pubblico, neanche troppo di nicchia.

Botte a parte, e senza troppe acrobazie retoriche, non si può scordare che pochi anni fa un gruppo di insegnanti ticinesi aveva lanciato il suo «Appello per la scuola», per far sì che i genitori di questo cantone potessero essere «… compiutamente informati in merito alla scuola che frequentano i nostri figli» (v. Troppa pedagogia!).

Non sarebbe male se, in tempi accettabili, anche chi si compiace della sua adesione alla solita solfa delle pari opportunità si desse una mossa. Con le pari opportunità non si riesce neanche a risolvere la questione femminile. Figuriamoci tutto il resto, ch’è addirittura più complicato.

La forza dell’insuccesso e l’elogio del fallimento

Mi è capitato di incappare due volte di fila in conversazioni sull’insuccesso. Andrea Fazioli, l’autore del bel romanzo L’arte del fallimento, edito da Guanda, ha un blog che presenta regolarmente delle riflessioni sempre molto argute. A fine aprile ha proposto ai suoi lettori alcune considerazioni sul tema del fallimento e ha richiamato un altro pezzo pubblicato nel sito «Il Libraio», intitolato Sette lezioni di fallimento, ispirate da altrettanti autori: come fallire in maniera grandiosa; come accettare il fallimento; come rialzarsi dopo i fallimenti; come fare del fallimento un’arte; come fallire un’indagine; come trasformare il fallimento in eroismo; come ridere del fallimento. Per finire Fazioli ha aggiunto un’ottava lezione, ispirata a Butcher’s Crossing, romanzo dello scrittore statunitense John E. Williams.

Passano un paio di giorni ed ecco, sul Corriere della sera, un bel pezzo di Paolo Di Stefano, Il prof di Princeton pubblica il curriculum dei suoi migliori flop (se non si riesce ad accedere al corriere.it si trova l’articolo qui). Si parte dallo strillo di autore anonimo, che sarà svelato a fine articolo: «Il successo è il solo metro di giudizio di ciò che è buono o cattivo». Poi si passa a una frase di James Joyce, «il grande scrittore irlandese che non si preoccupò certo di essere letto da un gran numero di persone, visto che scrisse uno dei romanzi più ostici della letteratura, Ulisse, per non parlare di Finnegans Wake, esempio massimo di libro intraducibile». Il professor McHugh, personaggio joyciano, sentenziò: «Fummo sempre fedeli alle cause perse: il successo per noi è la morte dell’intelletto e della fantasia».

Ecco allora che Di Stefano racconta del professor Johannes Haushofer, un prof reale, stavolta, docente di psicologia e neurobiologia alla prestigiosa università di Princeton, già ricercatore a Oxford, a Harvard e a Zurigo: che ha narrato su Twitter il curriculum vitae dei suoi fallimenti.

CarricHome_mix_et_remixHo già detto troppo: i due interventi, quello di Andrea Fazioli e quell’altro di Paolo Di Stefano, meritano di essere letti, senza altre mediazioni pericolosamente di parte. Per certi versi ricordano il famoso Sbagliando s’impara, nonché le storielle di Giuseppe Verdi, scartato dal conservatorio milanese che avrebbe poi preso il suo nome, o di Albert Einstein, rifiutato dal politecnico di Zurigo perché non riuscì a superare gli esami di ammissione.

Le valutazioni e gli esami incessanti sono bestiacce. Come diceva Don Lorenzo Milani «Bocciare è come sparare in un cespuglio. Forse era un ragazzo, forse una lepre. Si vedrà a comodo». E aggiungeva: «La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde». In effetti la scuola, quella dell’obbligo e quella che segue subito dopo, è campione nel dividere i bianchi dai neri, il loglio dal grano, la lumaca dal ghepardo. Tanto per fare un esempio che non invecchierà mai, non è chiaro perché un bambino debba imparare a leggere e scrivere secondo l’età decretata dalla scienza statistica, così che se fai parte di quel 15% di statisticamente immaturi – immaturi al momento della valutazione – rischi il pollice verso: bocciato!

La storia delle pari opportunità andava bene giusto giusto 48 anni fa. Oggi è grottesco che quell’enunciato, che certo funzionava in quegli anni, sia cavalcato da chi le pari opportunità le osteggiò più che poté e da chi, invece, ne fece uno slogan senza aver capito bene di cosa si stesse parlando. Pari opportunità, mezzo secolo dopo, significa anche opporsi con fermezza all’inveterata indifferenza alle differenze.

Barrigue Tu as appris quoiAi nostri giorni, sciaguratamente, è molto di moda il pensiero riferito da Di Stefano come incipit del suo articolo. Che osserva: Potrebbe essere il motto di un dirigente marketing dei nostri giorni.

Mi vien da completare: un uomo qualunque, un politico di destra di sinistra o di centro, un insegnante, un dirigente scolastico o un sindacalista. Invece, sapete chi l’ha scritto?, ha chiesto Di Stefano in conclusione.

Chi è d’accordo con l’enunciato, soprattutto se poi scrive proclami, rilascia dichiarazioni ai massmedia e/o inoltra atti parlamentari per raddrizzare la scuola, vada a scoprire chi ne è l’autore.

Esercizi di cultura nella scuola

Ogni tanto le notizie ti assalgono senza preavviso e senza una logica, quasi a tua insaputa. Domenica scorsa stavo sfogliando, un po’ svogliatamente, il Corriere della sera. Tutt’a un colpo sono incappato in un articoletto che ha attirato la mia attenzione, almeno per tre ragioni: intanto l’immagine a illustrazione del pezzo, la Scuola di Atene, il superbo affresco di Raffaello Sanzio custodito nella Stanza della Segnatura, una delle quattro “Stanze Vaticane”, dentro i Palazzi Apostolici.

La scuola di Atene - Da Wikipedia

Poi un fuori dall’aula nel titolo, tra parentesi: «Fuori dall’aula» è il nome della mia rubrica sul Corriere del Ticino inaugurata l’11 settembre 1996, firmata da Emilio Franti, che avrei ereditato a fine agosto 2001.

Infine un tema che mi è sempre stato caro: L’arte per educare.

Il pezzo, di per sé, non è nulla di che: riferisce di un convegno organizzato dal FAI (Fondo Ambiente Italiano) alla Leopolda fiorentina il 16 aprile. Titolo: «Esercizi di cultura – Perché storia, arte e paesaggio fanno crescere l’Italia».

Bisogna pur dire che gli esercizi di cultura possono far crescere il mondo intero. Scrive il FAI nella presentazione:

L’educazione attraversa le diverse dimensioni della vita, dalla famiglia alla scuola, dall’università al mondo del lavoro, dall’intrattenimento al godimento culturale. Anche il tempo libero può riempirsi di contenuto e diventare un’occasione di formazione, tanto più efficace e desiderata quanto più basata su un’esperienza memorabile, diretta, coinvolgente. S’impara sui banchi di scuola ma anche lungo un sentiero di montagna, tra le sale di un castello e in un podere tra ulivi e casali. Cambiano scenari e regole, ma serve in ogni modo l’esercizio, perché la conoscenza e il piacere che se ne trae richiedono disponibilità e attenzione, leggerezza e impegno. Il FAI affianca il mondo della scuola da oltre quarant’anni con civile spirito di sussidiarietà: integra l’insegnamento tradizionale e offre contenuti e attività rivolti a tutti, per un’educazione che attraversa le età dell’uomo e non smette mai di aiutarci a crescere.

Sono naturalmente d’accordo sull’importanza della trasmissione di arte e cultura. Credo che le arti, tutte le arti, potrebbero rappresentare delle inesauribili piattaforme di senso e di cultura per istruire e educare i futuri cittadini sin dall’inizio della scuola dell’obbligo. È una finalità del Fondo Ambiente Italiano quello di Promuovere in concreto una cultura di rispetto della natura, dell’arte, della storia e delle tradizioni d’Italia e di tutelare un patrimonio che è parte fondamentale delle nostre radici e della nostra identità.

L’intero convegno può essere seguito in video. Premesso, per correttezza, che non ho ascoltato tutti gli interventi, ne segnalo alcuni che mi sono sembrati significativi:

Credo molto nel potere dell’arte come piattaforma di senso e veicolo di cultura in tutti i gradi della scolarità. Mi sono dedicato per anni, e lo faccio ancora, alle proposte musicali (v. in questo sito Dalla Russia con passione: un’altra avventura con la musica per le scuole, dove parlo dei «Concerti per le scuole»). Ma mi sono occupato anche di letteratura – l’ultima operazione è Piazzaparola, che in settembre mi vedrà, con Silvia Demartini, Sulle tracce dell’ingegnoso nobiluomo don Chisciotte della Mancia – e di animazioni museali.

E ancora. Da qualche anno l’Associazione degli Amici del Teatro di Locarno, presieduta da Diego Erba, offre alle scuole del Locarnese degli spettacoli gratuiti; io coordino le proposte per le scuole dei comuni. Il direttore artistico del Teatro, Paolo Crivellaro, è un uomo sensibile e colto, senza quella puzza sotto il naso che sovente esibisce, in filigrana, certo elitismo: e propone spettacoli di alto livello alle scuole comunali, alle scuole medie e al liceo.

L’altro giorno (venerdì 22 aprile) ho potuto assistere, con gioia e casualmente, allo spettacolo «Donna non rieducabile – Memorandum teatrale su Anna Politkovskaja», di Stefano Massini, con Ottavia Piccolo, l’arpa di Floraleda Sacchi e la regia di Silvano Piccardi (qui una scheda dello spettacolo).

Ottavia Piccolo, Donna non rieducabile - Memorandum teatrale su Anna Politkovskaja
Ottavia Piccolo, Donna non rieducabile – Memorandum teatrale su Anna Politkovskaja

 

Gli Amici del Teatro hanno offerto agli allievi di III e IV del Liceo di Locarno quello spettacolo struggente, duro ed emozionante. Gli studenti in platea avevano sì e no una decina d’anni quando Anna Politkovskaja fu trovata morta, assassinata, nell’ascensore del palazzo di Mosca in cui abitava: era il 7 ottobre 2006, giorno del 54° compleanno del presidente russo Vladimir Putin.

Gli studenti hanno seguito la narrazione in silenzio, con intensità. Il pathos che si è creato in sala ha aumentato ancor più la bravura di Ottavia Piccolo, l’impeto violento della regia, il contrappunto inesorabile dell’arpa, il racconto lancinante e pieno d’amore di Anna Politkovskaja.

Anche queste sono opere di educazione, immensi atti educativi.

L’inclusione non esclude di per sé la selezione

Nella sua edizione del 20 marzo il domenicale gratuito Il Caffè ha dedicato ampio spazio alla scuola, prendendo le mosse dal “famoso” sciopero al contrario che sarebbe andato in scena di lì a qualche giorno. Evito intenzionalmente di dire la mia sulla manifestazione più o meno massmediatica e sindacale del 23 marzo, alla vigilia delle vacanze pasquali: per tre mesi abbiamo letto di tutto, nel bene e nel male. Rammento solo che, negli ultimi vent’anni, il giorno di congedo supplementare per i docenti (e degli impiegati dello Stato in genere), deciso per compensare qualche misura di contenimento salariale, è stato frequente, senza che a nessuno saltasse in mente di inventare scioperi al contrario o altre amenità. Per quel che ricordo, non usciva neanche una striminzita lettera ai giornali: un giorno in più di vacanza non scocciava a nessuno.

È stato giusto gridare di nuovo Giù le mani dalla scuola pubblica e obbligatoria. È capita e concordo, ci mancherebbe.

Torno al Caffè di domenica 20 marzo. In prima pagina, nel consueto spazio dell’editoriale, ecco una lettera aperta di Manuele Bertoli, direttore del DECS, Cari professori, cari studenti io vi dico che…, un testo accorato che, per quello che può contare, mi sento di sottoscrivere quasi integralmente. A seguire, alle pagine 2 e 3, ecco un florilegio di contributi d’ogni genere e competenza (si possono leggere le due pagine nell’edizione e-paper del Caffè del 20 marzo, con l’accortezza di scegliere l’edizione del 20 marzo 2016).

La settimana precedente mi aveva contattato il giornalista Ezio Rocchi Balbi, che ha curato il servizio e che ha introdotto il tema con un articolo intitolato La scuola si è rivoltata, “esami” più difficili per il ministro Bertoli. Con Rocchi Balbi siamo rimasti al telefono per circa un quarto d’ora. Nell’articolo è uscita questa sintesi:

«Devo riconoscere che mai avevo visto un ministro come Bertoli così a contatto con le scuole. Tanto di cappello – sottolinea Adolfo Tomasini, ex direttore delle scuole comunali di Locarno. Ma il disagio dei docenti continuerà fino a quando non si eliminerà un peccato originale che incide su tutti i nodi della scuola, dalle competenze all’educazione civica fino all’ora religione: bisogna decidere se la scuola deve selezionare o formare».

Naturalmente poteva andar peggio, ma quando si parla coi giornalisti bisogna sempre essere consapevoli che quel che si dice può essere riportato alla lettera e sembrare l’esatto contrario di quel che era l’intenzione. Qualcuno, forse il solito Andreotti, disse una volta che una smentita è una notizia data due volte. In effetti qua non smentisco, mi limito a dire che mi è andata bene: un quarto d’ora di colloquio è finito in una sessantina di parole, onore alle doti di sintesi del giornalista.

Poi, però, ecco, a seguire, un commento di Bertoli, riferito alla mia domanda  selezionare o formare?   domanda un poco retorica, ne convengo:

«In realtà è una scelta già fatta con la riforma scolastica del 1990 e ora, semmai, si tratta di concretizzarla – replica Bertoli. Il mio concetto di una scuola dell’obbligo sempre più inclusiva è conclamato […]».

Che sia ora di concretizzare l’arcaica Legge della scuola è possibile e  gradito, a oltre cinque lustri di distanza. Che sia possibile realizzare quelle nobili finalità lasciando tutto il resto immutato mi sembra un po’ azzardato. Che l’attuale parlamento abbia la lucidità per farlo, e per farlo senza cedere ai richiami seducenti delle sirene populiste (con buone ricadute elettorali), lo escludo.

Ho scritto più volte che la riforma scolastica del 1990 è rimasta per tanti versi sulla carta. Tenuto conto della gestazione, dalla durata geologica, e del contesto storico e politico in cui la Legge della scuola del 1990 ha visto la luce, avevo scritto un articoletto, sul Corriere del Ticino, in occasione del suo ventesimo compleanno: «Una legge della scuola incartapecorita». E anche sul tema dell’inclusione avevo pubblicato qualche riflessione in questo sito, circa un anno e mezzo fa: «L’inclusione tra sogni e realtà».

John Dewey, filosofo e pedagogista statunitense (1859-1952)
John Dewey, filosofo e pedagogista statunitense (1859-1952)

Quindi sì, continuo a essere convinto che la scuola dell’obbligo debba finalmente scegliere da che parte stare. A mente mia c’è bisogno di qualche alleggerimento e di tanta serenità nel corso di tutta la durata della scuola dell’obbligo. Per le competizioni feroci ci sarà tempo una vita.