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W l’eterogeneità, W le pluriclassi!

La campagna in vista della votazione sull’iniziativa «Aiutiamo le scuole comunali», iniziata in primavera, ha moltiplicato a dismisura gli interventi sulla stampa. Dal fronte del e da quello del no giungono motivazioni a sostegno dell’una o dell’altra tesi che vanno ad arricchire la già nutrita serie dei colori dell’iride. Non ho naturalmente letto e ascoltato tutto ciò che è stato scritto e detto. Sono stato costretto a una selezione, perché, a dispetto dell’essere in pensione, non posso mica passare le giornate a leggere di tutto e di più sulla scuola ticinese e i suoi dintorni.

Ma, qua e là, ho colto qualche sparata degna di citazione. Eccone tre che mi hanno colpito per l’originalità della traiettoria.

  • Per replicare a chi afferma che se quest’iniziativa fosse accolta dal popolo il margine decisionale dei comuni si avvicinerebbe allo zero, qualcuno ha affermato che «La scuola comunale rimane ai comuni per quanto riguarda la scelta dei docenti, del direttore, dell’edilizia e tante altre cose; e soprattutto la vigilanza. Però è importante che su tutto il territorio cantonale tutti abbiano le medesime opportunità». Quando si dice l’autonomia – e senza tornare al merito delle ormai famose «pari opportunità», che son diventate il classico nebbione che nasconde e confonde tutto. L’autonomia: babbo Stato impone ai comuni auto costose e non necessariamente adeguate a ogni particolare territorio. Naturalmente il Comune paga una sostanziosa parte del costo (e non è un leasing). Poi può scegliere il colore dell’auto e chi la guida. Addirittura ha l’autonomia di verificare che l’auto funzioni come si deve. Per finire può (eh eh!) finanche costruire una bella autorimessa, possibilmente Minergie.
  • «Con più la classe è numerosa, più il maestro è costretto a fare delle lezioni frontali, delle lezioni cattedratiche». Questa l’ha detta un caro amico e ormai ex collega, che conosce bene le esperienze di Don Lorenzo Milani, tanto per citarne uno tutt’altro che a caso. Un Maestro che non la pensava proprio così, anzi. Si vede che il caro amico e ormai ex collega è ancora attratto dal magister, sul modello universitario; l’unica alternativa possibile sarebbero classi sufficientemente piccole, affinché sia possibile dare “lezioni private”. Tertium non datur.
  • Della terza chicca ho perso l’autore e il giornale che l’ha ospitata. Riassumo a memoria: l’opinionista di turno è d’accordo che si diminuisca il numero di allievi per classe. Ma ritiene che tra 25 e 15, 16 o 20 non cambi gran che. Bisognerebbe fare classi veramente piccole, di otto o dieci allievi. Vabbe’, pian piano torneremo al precettore di aristocratica memoria.

Un’interessante intervista al ministro dell’educazione

Ma torniamo alle cose serie. Manuele Bertoli, che da presidente del Partito socialista era tra i promotori dell’iniziativa e che da Direttore del DECS aveva proposto un compromesso al Parlamento, oggi, da Presidente del Consiglio di Stato, si ritrova a sostenere il punto di vista della maggioranza governativa, come noto contrario all’iniziativa. E lo sta facendo con grande correttezza: tanto di cappello. L’11 settembre ha rilasciato una lunga intervista al Corriere del Ticino, pubblicata col titolo «Scuola, oggi sono tenuto a dire no». Non entro nuovamente nel merito dei soliti capitoli trattati dall’iniziativa, ma voglio sottolineare una sua affermazione significativa, importante e fuori dal coro.

Domanda del giornalista: «È vero che portare a 20 allievi l’asticella potrebbe generare l’effetto perverso dell’aumento delle pluriclassi?».

Risposta del ministro Bertoli: «Lo abbiamo segnalato nel documento consegnato alla Commissione scolastica sugli effetti quantitativi che dava conto dei costi dell’iniziativa. È vero che in alcune zone il numero di pluriclassi potrebbe aumentare perché non sarebbe data la possibilità di fare monoclassi da 22 o 23 allievi e quindi si andrebbero a comporre sezioni con più classi al loro interno. Bisogna però non drammatizzare troppo il tema, le pluriclassi non sono necessariamente un male. Alcuni sostengono addirittura che sono utili nella misura in cui chi è più debole può, quando segue la classe più avanzata, ascoltare e ripetere quanto fatto l’anno prima e chi è più forte, nella classe meno avanzata, può già sentire cosa farà l’anno successivo. Comunque l’iniziativa porta ad un aumento delle pluriclassi, anche se la situazione è molto differenziata sul territorio».

Era ora che qualcuno lo dicesse, non fosse che per il grande rispetto verso i tanti maestri che insegnano bene e da anni nelle pluriclassi [1]. Ma è ora e tempo di finirla con la storiella che le pluriclassi siano una sorta di male necessario allorché, per far funzionare le alchimie numeriche e nell’impossibilità di poter istituire le tanto agognate monoclassi, si è costretti a mettere insieme allievi di classi diverse. Prendendo a prestito un recente tormentone di Celentano – mi si passi la citazione bislacca – la pluriclasse è rock, mentre la monoclasse è lenta.

Non è questa la sede per sintetizzare i tanti vantaggi della pluriclasse e il primato educativo della massima eterogeneità. Chi è interessato ad approfondire il tema può rivolgersi all’ampia letteratura in materia. Se si vuol trovare qualche spunto, magari leggermente provocatorio, si può dare un’occhiata al capitolo che Philippe Meirieu dedica all’eterogeneità nel suo libro L’école ou la guerre civile, che può essere consultato e scaricato qui: Pour un nouveau contrat entre la société et son école: “vive l’école obligatoire”! (da pagina 108).

L’omologazione è nemica dello sviluppo, della crescita e della creatività

La monoclasse è parente stretta di quella classe che si è stabilizzata nel XIX secolo, basata essenzialmente sul corso ex cathedra, e nasconde in modo subdolo la selezione delle future élites attraverso la legittimazione degli status socio-economici e culturali di partenza. Se è questa la scuola che si vuole, lo si dica con chiarezza. In caso contrario occorrono «delle riforme di carattere più pedagogico» per la scuola dell’obbligo (Manuele Bertoli, nella medesima intervista citata), per staccarsi esplicitamente e senza alibi quantitativi dall’organizzazione del lavoro quotidiano degli insegnanti che ruota attorno a lezioni uguali per tutti, esercizi uguali per tutti, tempi uguali per tutti e valutazioni uguali per tutti da effettuarsi nei medesimi momenti per tutti – col servizio di sostegno pedagogico a inseguire i danni provocati da questa maniera di affrontare la scuola dell’obbligo, senza mai arrivarne a capo.

Sarò vecchio, ma resto vicino alle finalità che il nostro Parlamento ha definito per la scuola dell’obbligo: formare cittadini. Cioè educare e istruire, perché non esiste un concetto di cittadino ignorante, mentre è facile allevare idioti specializzati, vale a dire uomini e donne super-specialisti nella loro disciplina, che non sanno assolutamente nulla delle discipline altrui.

Nell’ultimo decennio la scuola è divenuta sempre più utilitaristica. Cioè a dire: si è votata anno dopo anno alle conoscenze sterili e specialistiche (pardon, oggi le chiamano competenze).

Una scuola siffatta ha bisogno di strutture coerenti. Oddio: da sempre la scuola tende a omologare i gruppi, come avevo scritto in un articolo «Fuori dall’aula» del 2009, prendendo spunto da un’estemporanea proposta che voleva reintrodurre la separazione dei sessi nella formazione delle classi: Classi maschili e femminili nella scuola media? Così come, in due altre puntate della mia rubrica sul Corriere del Ticino, mi ero occupato dell’omologazione delle classi (I ghetti del XXI secolo) e dell’individualizzazione esasperata dell’insegnamento (Nel grande emporio della formazione).

I vantaggi della pluriclasse

Detto questo, parliamo un poco delle pluriclassi, con un plauso al ministro Manuele Bertoli, che, seppur timidamente (le pluriclassi non sono necessariamente un male), ha avuto il coraggio di dire quel che sarebbe stato preferibile sentire, da sempre e non solo da ieri, da ispettori, direttori e funzionari del Dipartimento. In questo Cantone le pluriclassi sono normalmente istituite quando non è possibile fare altrimenti, vale a dire quando i numeri non permettono l’istituzione delle tanto bramate monoclassi, quasi che il mettere insieme allievi più o meno della stessa età risolvesse motuproprio il problema dell’insuccesso scolastico.

Dovremmo chiederci, per cominciare, se vi sono dati chiari che indichino se vi sono significative differenze tra le competenze che si acquisiscono in una monoclasse rispetto alla pluriclasse. Nel contempo: da una trentina d’anni si ripete che, mono o pluri che sia la classe, è fondamentale differenziare l’insegnamento, badando bene al fatto che differenziare non è l’equivalente di individualizzare. Anche in questo caso l’insegnante è la trave portante della scuola: il maestro che non sa o non vuole differenziare il suo insegnamento, optando per troppe chiacchiere cattedratiche ed esercizi uguali per tutti, sarà ancor più in difficoltà in una pluriclasse. Ma se non sa o non vuole, non è al suo posto.

Vi sono sedi scolastiche che non conoscono le monoclassi, perché i numeri non l’hanno mai permesso. Però anche in questi casi ogni tanto non mancano le soluzioni perverse o, quantomeno, poco ragionevoli. Ho incontrato a fine agosto una bravissima maestra che lavora in una di queste piccole sedi. Mi ha detto che quest’anno le è stata assegnata una 1ª/2ª/3ª di 24 allievi, mentre la sua collega avrà una 4ª/5ª di 16 allievi. In quella sede ci sono dunque 40 allievi. Non sarebbe stato più logico istituire due pluriclassi di 20 allievi? O, meglio ancora, non sarebbe stato più razionale istituire un’unica sezione di cinque classi e 40 allievi affidata a due docenti a tempo pieno, quasi certamente con la presenza di un docente d’appoggio? Per dirne una, un’organizzazione siffatta avrebbe offerto la possibilità di far variare il numero di allievi a dipendenza dell’attività da svolgere. Per esemplificare, con un caso semplice semplice, e farmi capire: mentre 20 allievi sono in palestra con il docente speciale, due maestre possono occuparsi di 20 allievi. Le combinazioni sono naturalmente infinite.

In altri anni c’era stata la moda dei consorzi. Mi viene in mente il caso della Vallemaggia. Negli anni ’70 si era costruito e istituito il Centro Scolastico Bassa Vallemaggia, azzerando con un colpo di spugna le scuole di nove comuni (Avegno, Gordevio, Aurigeno, Moghegno, Maggia, Lodano, Coglio, Giumaglio e Someo). Il nuovo centro sembra una scuola di città. Ha la palestra e le sue brave monoclassi. Costa un sacco di soldi, costringe un gran numero di bambini e ragazzetti a trasferte giornaliere coi bus. I villaggi non hanno più la loro scuola (uh, le pluriclassi…) e la nuova scuola assomiglia a tutte le altre.  Cosa ne abbia guadagnato la Valle in termini di educazione e istruzione non si sa.

École-active-de-MalagnouLe scuolette di paese. Anni fa avevo avuto occasione di visitare una scuola a Ginevra, «La Barigoule», nel quartiere di Malagnou, a quei tempi diretta da un bravissimo Jean-Claude Brès [2]. Ricordo un piccolo edificio a due piani, su una collinetta, attorniato da palazzi che fanno sembrare «La Barigoule» a una specie di isola in mezzo all’oceano (la foto mostra una ristrutturazione recente; io parlo di oltre vent’anni fa). È una scuola che ha scelto L’école active, malgrado i locali esigui, i banchi e il mobilio raffazzonati (forse scarti di scuole pubbliche rammodernate). Ma vi si respirava un’aria entusiasmante e vivace, generatrice di educazione, sostenuta da un gruppo di insegnanti appassionati e ben consapevoli del loro ruolo. Alle monoclassi e al mobilio scintillante e moderno avevano preferito la forza delle idee e del rigore.

Célestin Freinet (1896-1966) ha spesso operato con pluriclassi piuttosto numerose. In quei primi decenni del ’900 i dibattiti attorno all’educazione come strada di progresso e di emancipazione politica e civica sono intensi. Accanto alla scuola «ufficiale», che classifica gli allievi e seleziona le élite, crescono e si diffondono movimenti che approfondiscono la cooperazione tra allievi, la corrispondenza scolastica, la differenziazione come forma di rispetto dei ritmi di ognuno, il rigore della conoscenza. Lo stesso Freinet si butta nell’esperienza dell’Educazione nuova, entra in contatto con John Dewey, Adolphe Ferrière, Ovide Decroly, Roger Cousinet.

Chissà: forse le scuole ispirate dai modelli dell’educazione nuova non sono mai riuscite a offuscare la vecchia scuola «ufficiale» proprio perché i suoi principi e le sue finalità tendono per davvero all’emancipazione. Quell’altra scuola, ancor molto legata nella sua organizzazione e nelle sue strutture a quella dei suoi albori (XVIII e XIX secolo), ha saputo superare anche il ’68 e arrivare sin qua, pimpante e cinica, pronta ad affrontare le prossime riforme gattopardesche: tanto ci sarà sempre qualche nuovo gruppo sociale da bocciare ed escludere. C’è sempre bisogno di braccia che, soprattutto, stiano zitte.

Mi fermo qui, per oggi. Sono convinto che la pluriclasse, combinata col lavoro in équipe, offrirebbe tante formidabili opportunità per migliorare la scuola dell’obbligo. La ricerca affannosa dell’omogeneità – per età, per sesso, per quoziente intellettivo, per segno astrologico, per scelta religiosa… – impone di volta in volta aggiustamenti costosi. La strada affinché ogni cittadino possa dire, con l’Alfieri (e con Piero Gobetti), di non aver niente a che fare con gli schiavi è ancora lunghissima.

Poi ci sarebbero altre innovazioni per rendere la scuola più coerente col mondo che la circonda. Ma di ciò parlerò forse in altra occasione.


[1] Per intenderci: quando parlo di pluriclasse intendo ogni sezione formata da allievi che frequentano classi diverse: dai classici 1ª/2ª e 3ª/4ª/5ª alle tante combinazioni possibili, non escluse le sezioni di otto classi, ancora esistente in qualche scuoletta discosta fino a 40 o 50 anni fa (dalla 1ª elementare alla 3ª maggiore, senza saltare nessuno).

[2] En 1972, Claude Ferrière, Robert Hacco, Michael Huberman, Laurie Lamartine et Freddy Stauffer fondent une association dans le but de promouvoir la pédagogie active à Genève. Face à la difficulté d’introduire une rénovation rapide au sein de l’instruction publique, ils décident de créer une école privée. Ils font appel pour cela à différentes personnes déjà engagées dans des démarches de pédagogie active dont Jean-Claude Brès et Ariane Ferrière. (École active de Malagnou).

Elogio al Maestro

Sul «Corriere della Sera» del 13 agosto 2014 Beppe Severgnini ha scritto uno straordinario ricordo di Robin Williams, con un toccante articolo che è un elogio alla figura del Maestro: «Capitano, mio capitano». Quell’attimo fuggente che commuove. Il professore Keating, un maestro di vita. Perché ci rattrista la scomparsa dell’attore.

l-attimo-fuggente-film

L’attimo fuggente e il professor Keating che muovono l’articolo sono quelli del bellissimo film del 1989 diretto da Peter Weir, in cui Robin Williams dà vita a una storia emozionante, nei panni del professor John Keating, l’insegnante di lettere che sprona gli studenti a mettersi in piedi sui banchi per vedere il mondo da un’angolazione diversa, e a strappare le pagine accademiche sul tema «Comprendere la poesia», perché non stiamo parlando di tubi, stiamo parlando di poesia. Il titolo italiano del film, «L’attimo fuggente», si rifà al Carpe diem di Orazio, ma è certamente più ermetico del titolo originale, «Dead Poets Society».

Nel tempo della scuola sempre più tecnocratica e darwinista, che privilegia i test e la selezione a scapito dell’Educazione e dell’Insegnamento, l’articolo di Severgnini è quasi un piccolo trattato di pedagogia, una riflessione che rende un emozionante omaggio al grande Robin Williams.


Vi siete mai chiesti perché il finale di L’attimo fuggente, ogni volta, ci commuove? Ricordate? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!».
Perché quella scena, invece di apparire enfatica, è così potente e universale? La ricordano in Asia, la citano in America, la riproduciamo in Europa nei convegni aziendali: l’amministratore delegato vorrebbe ispirare come il professor Keating, e rischia d’irritare come il pedante sostituto in cattedra.

La risposta è semplice. Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di un maestro. Sempre, dovunque, a ogni età. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’incoraggiamento.

«Maestro» era l’appellativo di Gesù Cristo nei Vangeli. L’omaggio dei contemporanei ai grandi del Rinascimento. Oggi il vocabolo non se la passa bene. Banalizzato a scuola – dove qualche folle pensa sia meno prestigioso di «docente» – e inflazionato nella vita quotidiana. Quando non possiamo vezzeggiare il prossimo con un titolo di studio, o adularlo con qualche carica altisonante (vicepresidente! egregio direttore!), ricorriamo a «maestro». Pittori di provincia, poeti dilettanti, cattedratici sgonfi, allenatori in pensione: un inchino verbale non si nega a nessuno.
Non è un titolo ambito, maestro. Pochi sembrano interessati a conseguirlo. «C’è una grande gioia a incoraggiare il talento» diceva John Travolta, accademico sovrappeso e alcolizzato in In una canzone per Bobby Long; e cambiava la vita della ragazzina bionda e confusa che seminava dubbi e mutande per la casa (Scarlett Johansson). Quanti professori universitari, oggi, hanno voglia di diventare maestri? Ordinari, certo. Maestri, chissà. Quanti datori di lavoro pensano di dover dare, invece di continuare a chiedere; e insegnare, invece di limitarsi a giudicare? Quanti imprenditori e professionisti passano competenze e opportunità alle nuove generazioni, invece di considerarsi l’inizio e la fine di ogni cosa?

Essere un maestro è un impegno: un’auto-certificazione di generosità. Esiste uno speciale egoismo contemporaneo che ha preso forme accattivanti. Qualcuno lo chiama individualismo; altri, realismo. Molti teorizzano la necessità di viziarsi, di salvaguardarsi, di pensare a sé. «Fatevi le coccole» è una delle più fastidiose espressioni pubblicitarie degli ultimi anni: le coccole si fanno ai bambini e a chi si ama, non a se stessi. Esiste l’onanismo del cuore, e non è bello da vedere.
I maestri, di cui Robin Williams fornisce una poderosa interpretazione, non fanno coccole: offrono aiuto e suggerimenti e ispirazione. Segnalano svolte e insegnano prospettive. Indicano una via e la illuminano: può essere una scala verso il cielo, se uno crede all’aldilà o ai Led Zeppelin; o un passaggio sicuro nel bosco delle decisioni difficili. I maestri – quelli veri – non chiedono niente di cambio. Non sono life coaches. La ricompensa è l’onore di trasmettere qualcosa, il piacere di aiutare chi viene dopo. Piacere gratuito; quindi, impopolare.

Ci sono rischi, ovviamente. La domanda di maestri ha creato un’offerta vasta, varia e insidiosa. La parodia del carisma può ingannare chi cerca e ha fretta di trovare. Psicologi e filosofi trasformati in santoni; leader politici impegnati nella costruzione del monumento personale; spericolati improvvisatori new age; sacerdoti che posano da guru; gruppi e sette che dispensano dal pensare e, nel calore del gruppo, addormentano le coscienze. Non salite sul banco, davanti a questi personaggi, come gli studenti del professor Keating; nascondetevi sotto, e tappatevi le orecchie.

Gli attimi fuggono, i gesti rimangono. Ecco perché il mondo s’è commosso, come non si vedeva da tempo in occasione della scomparsa di un attore. Non è solo la strabiliante abilità di Robin Williams che ci mancherà; non è tanto la sua strepitosa galleria di personaggi. Ci mancherà qualcuno che ci ricordi con passione, a colori, con poesia quanto abbiamo bisogno di maestri.
Capitano, mio capitano!, tu lo insegnavi: qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo.

 

I profughi eritrei a Lodano, in Valmaggia: anche questa è Educazione

Segnalo un bell’articolo comparso sulla Regione Ticino del 29 luglio: «Si conclude oggi il soggiorno degli asilanti eritrei nel rifugio PCi a Lodano – Solidarietà sulla porta di casa». Preciso, per evitare accuse intempestive, che l’articolista – Maurizia Campo-Salvi, residente proprio a Lodano – è mia cugina e che io sono valmaggese, di Someo, ma un po’ anche di Lodano, oggi ex comuni confluiti nel comune aggregato di Maggia.

L’articolo testimonia della pacifica e costruttiva esperienza capitata a quei 200 abitanti di Lodano, che hanno convissuto per tre settimane con un gruppo di una cinquantina di uomini eritrei ospitati nel centro della protezione civile. La frase-chiave dell’articolo è: «Sono le stesse persone che ci hanno infuso pietà e sgomento quando le abbiamo viste alla tivù, comodamente seduti sul divano di casa, stipate sui barconi della speranza (e della morte) alla deriva nel Canale di Sicilia».

Il merito è del Municipio di Maggia e, in particolare, del sindaco Aron Piezzi e del municipale Luca Sartori, un patrizio che ha alle spalle una lunga esperienza quale volontario tra i Guaraní della Bolivia, dove per diversi anni ha lavorato per il miglioramento nella produzione casearia.

E naturalmente un altro grande applauso va alla popolazione del piccolo villaggio.

L’esperienza è iniziata nelle peggiori condizioni. È stata messa in atto in situazione di emergenza, tanto da scatenare sui diversi social network una pandemia di commenti razzisti, neanche si fosse in attesa dell’undicesima piaga d’Egitto, col pregiudizio a far da cornice al torvo quadro. Mi ha colpito una giovane mamma, che ha dichiarato a Ticinonline: «Non mi dispiace dare una mano a chi sta peggio ma il mio pensiero va ai miei bimbi: la nostra casa è molto vicina a questo centro e i miei figli spesso giocano nel giardino. Mio marito è più tranquillo ma io cercherò di fare più attenzione».

Come se non bastasse, il solito domenicale della Lega aveva soffiato sul fuoco, a pochi giorni dall’arrivo in valle degli eritrei: «… nei giorni scorsi una cinquan­tina di asilanti sono stati piazzati nientemeno che in Valle Maggia». Si noti l’avverbio. E poi: «Sta di fatto che 50 asilanti non sono pochi da gestire per un piccolo paese! Ci piacerebbe poi sapere quanti di questi asilanti sono giovani uomini soli, quanti hanno famiglia, quanti suono “fuoriusciti” dalle patrie galere (che notoriamente sono state svuo­tate)». Non è finita: «Aspettiamo (…) che si verifichino i primi problemi di ordine pubblico legati ad una simile presenza imposta alla popolazione. E quali saranno le sanzioni comminate ai sedicenti rifu­giati che sgarreranno. Chissà perché c’è come il vago sospetto che non bi­sognerà attendere molto». Tralascio il resto.

L’esperienza, così com’è stata ben sintetizzata da Maurizia Campo-Salvi, merita di essere segnalata.

Per ventisei anni ho fatto il direttore di una scuola con circa la metà della popolazione straniera. Ho imparato che i problemi non hanno in particolare una razza, né un passaporto.

La storia di Lodano dice che anche tutto ciò è Educazione.

Lo “scandalo” di non (ri)conoscere un consigliere di stato di una Repubblica grande come un quartiere di Milano

Qua, a dire il vero, ci vorrebbe la penna di Fortebraccio, il compianto elzevirista de L’Unità. Ma forse va bene anche così. L’insegnante di scuola media che, durante un frivolo quiz televisivo, non ha saputo dire che il faccione dell’immagine mostratale era quello del consigliere di stato Paolo Beltraminelli, ha infiammato i cuori e le menti dei ticinesi.

Così come non è obbligatorio conoscere Beltraminelli, può succedere che qualcuno non sappia di chi e di cosa sto scrivendo. Tra gli altri tanti, ne ha parlato anche il Corriere del Ticino del 25 luglio. Titolo e sottotitolo: QUIZ Beltraminelli: è lui o non è lui? – A «Cash» due concorrenti, una delle quali docente, non l’hanno riconosciuto.

Oddio, il capitombolo televisivo della professoressa può anche sorprendere. Il fatto che insegni storia alla scuola media può scatenare mille invettive, com’è successo a gran parte dei commentatori. Ho letto che il deputato PPD e capogruppo in gran consiglio Fiorenzo Dadò era nientepopodimeno amareggiato (öh, la Pèpa!), tanto da correre in soccorso al collega di partito su Facebook: «Tu da buon sportivo la prendi sul ridere e questo ti fa onore. Ma in realtà c’è da piangere considerato oltretutto che si tratta di una docente! Ma cosa possono imparare a scuola i nostri figli se neppure l’insegnante non conosce chi governa il suo Paese? Mah… speriamo sia l’eccezione. Se no l’è propri grama».

Non mi va questo tentativo strumentale di condannare un’intera categoria di professionisti, come se l’ignoranza dilagante non avesse nulla a che fare con la politica. Non riconoscere il faccione di Beltraminelli può sconcertare, ma certamente non scandalizzare, se almeno resta un briciolo di buona fede. Semmai di scandaloso c’è ben altro.

Dopo l’obbligo di imparare il Salmo svizzero, questo parlamento – o il prossimo, che rischia di non essere troppo diverso – potrebbe anche imporre il riconoscimento dei consiglieri di stato e di altri politici di grido (pensa te che bei test si potrebbero somministrare). Sarebbe un’idea, no? Quand’ero piccolo c’erano l’Almanacco Pestalozzi e l’Almanacco svizzero per la gioventù, che, anno dopo anno, elencavano consiglieri federali e consiglieri di stato, accanto alle formule per calcolare l’area del trapezio e il volume del cubo, passando attraverso i valori del peso specifico. Si potrebbe ripristinare qualcosa del genere, magari in formato elettronico e a colori.

Tuttavia me n’è venuta in mente una. Nel 2003 il nostro Cantone aveva celebrato i 200 anni dalla sua entrata nella Confederazione, avvenuta grazie all’Atto di mediazione del 1803. Verso fine maggio di quell’anno vi fu una grande festa popolare per commemorare un bicentenario così importante, con tanto di «Giornata ufficiale del Cantone Ticino». Ricordo bene un simpatico servizio della nostra tivù. All’uscita di uno dei tradizionali ricevimenti, microfoni e telecamere inchiodarono diversi VIP, per lo più gente dell’arengo politico (e chi altri, sennò?): «Che cos’è l’Atto di mediazione?». Se n’erano sentite di tutti i colori. Per quel che ricordo, solo un giovanissimo Norman Gobbi, all’epoca parlamentare della repubblica, aveva risposto. Correttamente.

E sì che l’Atto di mediazione rischia di essere più importante, nel bagaglio delle nostre conoscenze, di nomi e immagini dei nostri politici. Sarebbe bello fare un test e chiedere a chi sa riconoscere Beltraminelli (senza escluderlo, ovvio) se sa cosa sono l’Atto di mediazione, la battaglia dei sassi grossi e quella di Morgarten, il Patto di Torre e il Sonderbund.

Naturalmente si potrebbero scrivere fiumi di parole per commentare questa storia estiva. Ma, proprio perché siamo in luglio, conviene lasciar perdere. E poi io, come detto, non ho la verve di Fortebraccio.

Caro Dell’Agnola, per rifar la magistrale ci vuole un po’ di creatività…

Daniele Dell’Agnola non è uno che le manda a dire. Ha il pregio di esprimersi pubblicamente su problemi concreti con coraggio e onestà intellettuale. Così il 10 luglio ha pubblicato un interessante scritto sul portale ticinonews. Titolo: La ex magistrale. Argomento (di partenza): il crescente fabbisogno di maestri di scuola elementare ha trovato una prima parziale soluzione attraverso due misure che saranno operative dal prossimo anno scolastico. Quattordici maestre di scuola dell’infanzia – «Brave e con esperienza», chiosa Dell’Agnola; brave dovrebbero esserlo tutte – frequenteranno un corso di due semestri per diventare insegnanti di scuola elementare. Inoltre i nuovi iscritti al corso bachelor del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI – il DFA, cioè l’ex ASP, cioè l’ex scuola Magistrale – saranno circa ⅓ in più degli anni scorsi, vale a dire 88, invece dei 60 usualmente ammessi. Se tutto filerà liscio, questi 88 entreranno nella scuola elementare nel settembre 2017.

Non intendo riprendere le diverse tesi evocate da Dell’Agnola; invito semmai i miei lettori a leggerselo, anche perché non è lunghissimo. Sono d’accordo, e non potrebbe essere altrimenti, che una buona scuola ha bisogno di bravi maestri. Il problema, semmai, è che lo Stato dovrebbe dire cosa vuole dalla sua scuola, mentre la Magistrale dovrà poi formare i bravi docenti. Si capisce subito che siamo confrontati con due sistemi di grande complessità. Dico spesso che la Scuola avrebbe bisogno di modifiche strutturali importanti a tutti i livelli. Per restare agli insegnanti – lo zoccolo duro di una buona scuola – occorrerebbe tra l’altro rivedere una lunga serie di «condizioni istituzionali perverse» che impediscono o, almeno, frenano tante interessanti strategie per tener alti l’impegno e la tensione etica di ognuno. Penso alla sempre più improrogabile necessità di risolvere il problema dell’aggiornamento regolare e della formazione continua; penso alla differenziazione delle carriere (non è normale, ad esempio, che uno possa diventare direttore di un istituto scolastico solo perché è un insegnante, magari del partito giusto); penso alle collaborazioni tra insegnanti, non solo per scambiarsi esercizi, per organizzare la festa di fine anno o per votare ampollose prese di posizione di natura politico-sindacale; penso a un titolo abilitante con la data di scadenza. Penso, insomma, a una struttura scolastica che sappia offrire serenità e rigore e a un’organizzazione delle sue risorse umane che non sia sempre più in emergenza – il burn out, i casi difficili, la burocrazia crescente, … – tanto da richiedere costosi cerotti un giorno sì e l’altro pure.

Anche sul versante della formazione dei maestri e dei professori (sic) è urgente chinarsi sulle migliori strategie per assolvere al meglio il mandato della Magistrale. Ed è soprattutto qui che dissento da Dell’Agnola: diminuire il numero di studenti seguiti da ogni docente e, conseguentemente, aumentare le risorse finanziare proporzionalmente con il numero di insegnanti da formare è una soluzione che comincia a venire a noia, benché trovi quasi tutti concordi. Ma ragioni e torti non sono una questione di maggioranze e minoranze. È da trent’anni e passa che la magistrale riflette approfondisce riforma, senza mai riuscire ad andare al nocciolo della questione.

La prima chiave di volta è il passaggio dal modello seminariale a quello post-liceale, che de facto aveva spazzato via il primato della pedagogia e della didattica generale, a tutto vantaggio delle didattiche disciplinari, con tutti i danni che ciò comporta e ha comportato: non ultima, l’imperante e antipatica tecnocrazia scolastica. Detto di transenna: i primi insegnanti di scuola elementare formati dalla post-liceale erano veramente pochissimi, complice anche la crisi occupazionale del settore. C’eran quasi più docenti che studenti, e questi maestri in formazione erano coccolati e amati come creature eteree. Malgrado il numero ridottissimo, non tutti sono passati agli annali della scuola ticinese. Anche per quei pochi vale l’affermazione secondo cui alcuni erano molto bravi e altri diversamente bravi…

Qualche anno dopo fu il momento dell’Alta Scuola Pedagogica (ASP), che poi così alta non era. Tagliando un po’ con l’accetta, si può dire che gli assi portanti della magistrale precedente furono travasati pari pari nella nuova scuola, che doveva pur rispondere ai tanti requisiti formali fissati dalla famigerata «Dichiarazione di Bologna» del 1999. È con la nascita dell’ASP che si inventano i moduli, gli ECTS, i Docenti di Pratica Professionale (DPP), i Coordinatori di Pratica Professionale (CPP) e altre amenità di contorno. Mi si passi un’osservazione critica sul reclutamento dei DPP. Ne servivano a vagonate e, nelle intenzioni dei loro inventori, si sarebbero selezionate rigorosamente le centinaia di postulanti, così da poter far capo à la crème de la crème. Le cose non andarono per il verso atteso e sognato. Tanti bravi maestri che negli anni precedenti avevano collaborato con la magistrale per la formazione pratica degli studenti scapparono a gambe levate. Così l’ASP aveva allentato i filtri, mentre i responsabili del reclutamento telefonavano alle direzioni scolastiche come moderni «fra cercòtt», frati questuanti alla ricerca di DPP disponibili. Una menata che durò diversi anni e che fece venire l’orticaria a diversi direttori di scuole comunali.

L’ASP, tuttavia, non durò molto. Con l’anno scolastico 2009-2010 avvenne il passaggio della gloriosa magistrale dal Cantone, che la gestiva tramite il DECS, alla SUPSI, diventandone uno dei dipartimenti. Fu nominata direttrice quella Nicole Rege-Colet che fu defenestrata dal Consiglio della SUPSI già nel novembre del 2011 (avevo dedicato due articoli al tema: La frittata al DFA, in attesa della prossima portata e La formazione dei docenti tra politica e missione della scuola). Quell’anno, dunque, il DFA fu gestito ad interim dallo stesso direttore della SUPSI, in attesa che fosse nominato Michele Mainardi, che ha iniziato il suo mandato due anni fa. Va da sé che i primi tre anni della nuova scuola non hanno favorito la riflessione alla ricerca di importanti cambiamenti, per far sì che questo dipartimento della Scuola Universitaria Professionale iniziasse per davvero ad accostarsi al modello universitario, lasciandosi alle spalle, senza troppi rimpianti, i cinque lustri della post-liceale e della scuola tanto alta.

È pure ovvio che l’eredità del nuovo direttore può far tremare i polsi anche al più scafato tra gli uomini di scuola. Mainardi si è trovato a dover creare dalle fondamenta la nuova struttura, in un momento dalle mille emergenze e dovendo fare i conti con decisioni e invenzioni estemporanee del passato, recente e meno. Va da sé che i cambiamenti, di cui si avverte l’impellente bisogno, non possono essere realizzati da un direttore deus ex machina, ma servirà il contributo critico e fantasioso di tanti collaboratori del DFA, che non manca certo di personalità di tutto rispetto.

E qui torno al mio dissenso rispetto alla tesi di Dell’Agnola concernente il rapporto tra docente del DFA e numero di studenti che gli sono affidati. Vi sono, in effetti, alcune stranezze proprio nel modello formativo, che rasentano a volte l’astrusità e che appesantiscono, col rischio di vanificarlo, il compito del docente. Senza naturalmente entrare nel merito dei contenuti, vale a dire in ciò che è essenziale insegnare ai futuri docenti.

Provo a enumerare qualche bizzarria, così alla rinfusa, ispirato da quel che sento in giro. Non ci sono fonti di riferimento, ma non credo di essere troppo lontano dalla realtà e, così, di prendere qualche cantonata vistosa.

  • Per essere una scuola di livello universitario, gli studenti stanno troppo a scuola, seguono troppe lezioni. Ho frequentato l’università prima che finisse in salsa bolognese. L’anno accademico durava 25 settimane e le lezioni erano otto o nove a settimana, ognuna di due ore. Il lavoro individuale, organizzato autonomamente, era, sull’arco dell’anno, molto di più. Gli studenti della magistrale, invece, sono trattati come allievi di scuola media. Così, tra l’altro, non li vedi mai a un evento se, in cambio, non ricevono qualche biscottino, sotto forma di ECTS o di ore-lezione bonificate.
  • Oltre a ciò sembra che accanto ai corsi e alle pratiche professionali debbano compilare protocolli che richiedono un impegno sproporzionato, che potrebbe essere speso molto meglio. Tra l’altro: questi documenti qualcuno li deve pur leggere (tra i “qualcuno” gli assistenti non esistono ancora), e non è detto che il biologo riciclato in docente di didattica delle scienze sia in grado di iscrivere ciò che legge nel contesto del «lavoro in aula», con allievi concreti: che sono solitamente assai diversi dagli allievi libreschi.
  • Sento di docenti del DFA che svolgono un numero spropositato di corsi durante la settimana, magari saltabeccando da un bachelor all’altro e da un master all’altro. Poi fanno anche ricerca. In parallelo, almeno durante i periodi di pratica degli studenti, corrono su e giù per il Ticino come piazzisti, a veder lezioni, di solito dopo regolare preavviso. Anche dal profilo economico l’organizzazione non regge.
  • Per tornare alla mia esperienza universitaria, ricordo, il primo anno, un bel corso sulla valutazione tenuto dalla prof. Linda Allal. Tra le altre cose, per la certificazione era richiesto un lavoro personale che affondasse le sue radici nella pratica. A quel corso eravamo in tanti. Ma a seguire i nostri lavori personali c’erano fior di assistenti, mica la titolare del corso.
  • Non so se, a tutt’oggi, certi corsi prettamente teorici impartiti al DFA si svolgano un’unica volta per tutti, oppure se il docente deve sottoporsi al rito delle repliche. A leggere Dell’Agnola sembrerebbe di sì. So che ai tempi della post-liceale questa proposta era stata avanzata, ma respinta dai docenti medesimi. Chissà perché.
  • I DPP, a statuto comunale o cantonale, sono pagati dal DFA per accogliere gli studenti in formazione. Vi sembra logico che per formare gli insegnanti della scuola ticinese la SUPSI deva pagare? Non sarebbe nell’interesse della scuola ticinese mettere a disposizione insegnanti e classi per la formazione dei futuri colleghi? Per quel che ne so, il DFA versa centinaia di migliaia di franchi solo per pagare i DPP, per coordinarli e formarli. Non è assurdo?

Mi fermo, anche se avrei ancora molte cose da dire. Daniele Dell’Agnola, che è artista prima che docente di scuola media e formatore del DFA, m’insegna che la creatività è quella capacità di superare ostacoli che, di primo acchito, sembrano insormontabili. La creatività non serve solo per scrivere romanzi originali, per dipingere quadri stupefacenti e modernissimi o per progettare edifici straordinari e più funzionali. La teoria della relatività di Einstein, il teorema di Pitagora, le intuizioni di Mendel, la teoria dell’eliocentrismo di Copernico sono imprese di grande creatività.

D’accordo, la Magistrale non è la fisica, né la matematica, le genetica o l’astronomia. Ma, per favore!, finiamola di proporre la soluzione d’ogni problema con le prime cose che saltano in mente. O con le proposte evocate anche dai paracarri.