Comincio dalla cronaca.
La fase di sperimentazione del progetto «La scuola che verrà», di cui si è parlato per la prima volta nelle ultime settimane di quattro anni fa (La scuola che verrà…), è stato accolto a maggioranza dal Parlamento cantonale lo scorso 12 marzo, dopo un lungo negoziato tra il Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport e i diversi partner interessati.
«Gli esami per la scuola che verrà», ha titolato il Corriere del Ticino del 13 marzo: La riforma del DECS ha superato un primo esame. Dopo un dibattito fiume durato oltre 5 ore, la maggioranza del Gran Consiglio ha detto sì – con 51 voti favorevoli, 19 contrari e 5 astensioni – al credito di 6.7 milioni di franchi per avviare la fase pilota a settembre. A sostenere la sperimentazione sono stati i deputati di PLR, PPD e PS mentre un chiaro no è stato espresso da La Destra e dalla maggioranza della Lega. Sollevato dal via libera parlamentare, il direttore del DECS Manuele Bertoli ha precisato come «questa non è una riforma socialista, ma un progetto che ha quale obiettivo quello di migliorare la scuola dell’obbligo riuscendo a seguire meglio gli allievi nella loro individualità».
Il sostegno dei tre partiti storici – PLR (partito liberale radicale), PPD (partito popolare democratico) e PS (partito socialista) – non è stato ottenuto senza costi: il DECS ha dovuto cedere diverse posizioni, tra le quali quella del mantenimento della soglia minima per l’accesso alla scuola media superiore, vale a dire il liceo e la scuola di commercio.
La festa, per ora, è sospesa
I festeggiamenti per il traguardo raggiunto con tanta fatica sono durati poco, perché i partiti che hanno avversato la sperimentazione hanno annunciato il lancio di un referendum. Ha detto il ministro Manuele Bertoli: «Il referendum è senz’altro legittimo, ma in questo caso è arrivato all’ultimo momento, un po’ tra il lusco e il brusco».
Il Corriere de Ticino del 15 marzo ha chiosato la reazione del direttore del DECS: Questa la reazione a caldo del direttore del DECS Manuele Bertoli, all’indomani della decisione dell’UDC di lanciare un referendum contro l’avvio della sperimentazione de «La scuola che verrà». Una presa di posizione, quella democentrista, annunciata a soli sei mesi dall’inizio della fase di sperimentazione. Fase pilota che, nel caso in cui le 7’000 firme fossero raccolte entro il termine dei 45 giorni previsto, slitterebbe ancora di un anno. E la conferma giunge dallo stesso Bertoli: «È un peccato, già abbiamo subito il rinvio l’anno scorso, e questo sarebbe il secondo stop al progetto. Infatti, in caso di riuscita del referendum, sarebbe troppo tardi per poter partire come previsto a settembre».
Sulla genesi del referendum il direttore del DECS si dice in parte perplesso: «Dal punto di vista procedurale i motivi sono democraticamente corretti, ma dal profilo della trasparenza e della deontologia politica mi permetto di esprimere dei dubbi». Bertoli lancia quindi una frecciatina al fronte contrario al progetto: «Il referendum credo poggi su due questioni. Da un lato la volontà espressa anche onestamente dal presidente dell’UDC di profilarsi, utilizzando la scuola come terreno di scontro eminentemente politico, in vista delle elezioni del prossimo anno. Atteggiamento questo che non è illegittimo, ma semmai indelicato perché la scuola è di tutti, oltre che un’istituzione estremamente delicata e sulla quale avrei preferito che una battaglia non si facesse. La seconda questione invece è più un confronto di visioni. La nostra proposta intende ammodernare la scuola ticinese secondo la tradizione, che è da sempre inclusiva e permette di dare ai docenti la possibilità di seguire uno per uno i ragazzi e all’interno di un contesto unico. Invece la proposta che La Destra aveva portato avanti era quella di una scuola selettiva, dove i bravi vincono mentre gli altri non si sa dove vanno a finire».
Ora resta da capire quale sarà la composizione definitiva del fronte referendario. Certo il sostegno di AreaLiberale e UDF, al riguardo i rappresentanti della Lega al momento preferiscono ancora non sbilanciarsi.
Io non avrei sollecitato il voto del Parlamento confidando nell’appoggio dei tre partiti citati (e tenendo conto delle importanti condizioni poste, nel merito e nella procedura sperimentale).
C’è un filo che unisce la scuola che verrà al voto sull’educazione alla cittadinanza
Non posso scordare, per restare ai temi scolastici, che pochi mesi fa il Ticino era stato chiamato alle urne sull’Educazione alla cittadinanza, per avallare una decisione parlamentare della maggioranza dei parlamentari, poi fatta propria dal popolo (v. Ecco perché non si deve banalizzare l’educazione civica).
Ricordo, per chi ha la memoria corta e/o a geometria variabile, com’era andato il voto in Gran Consiglio:
- presenti 85
- favorevoli 70 (La Destra 4, Lega 19, Montagna Viva 1, PLR 16, PPD 17, PS 8, Verdi 5)
- contrari 9 (MPS-PC 2, PLR 3, PS 4)
- astenuti 4 (PLR)
Esprimendosi sull’Educazione alla cittadinanza ci si esprimeva anche su una visione della scuola. Già in quell’occasione erano emersi i soliti trasformismi, il più appariscente dei quali è stato, a parer mio, quello del Partito socialista, che è il partito del ministro Manuele Bertoli: in quell’occasione aveva sostenuto il voto contrario durante la campagna in vista del voto popolare, benché in parlamento i contrari erano stati solo 4 (su 12 votanti).
Il voto parlamentare su La scuola che verrà è stato, peraltro, ben più sfumato:
- 51 favorevoli
- 19 contrari
- 5 astenuti
- 10 non hanno votato, benché presenti
E ora?
Sul Corriere del Ticino del 15 marzo è apparso il commento di un docente (Ivano Fontana, L’UDC, l’insegnamento e il nuovo che avanza, rubrica «L’opinione»), che così esordisce:
Non so se il giovane d’anni e già vecchio presidente dell’UDC cantonale ha frequentato la scuola media, quasi sicuramente sì. Probabilmente era già la scuola che aveva abbassato il livello di istruzione (a volte, scherzando con amici – anche loro già insegnanti – veniamo a dire che se la scuola pubblica, media e liceo, fosse stata più rigorosa e quindi meno generosa, certi giovani e non più giovani… leoni della politica ticinese non sarebbero lì dove sono, con grande guadagno per loro stessi e per chi deve sopportarli, soprattutto per chi deve sopportarli).
A questo punto – benché le 7’000 firme per la riuscita del referendum non siano ancora state raccolte – possiamo chiederci davvero come sarà la scuola che verrà, quella del futuro prossimo, perché chi ha promosso il referendum non si limita a chiedere lo statu quo, e nemmeno un semplice miglioramento della scuola pubblica e obbligatoria di questi anni.
L’idea è invece un’altra, punta alla selezione precoce delle future élite – poi, dall’élite in giù, ci si può immaginare la possibile scala gerarchica. Se ciò succedesse ci allontaneremmo ancor più dal modello virtuoso delle scuole dell’Europa settentrionale (v. Qual è il segreto della scuola finlandese?) e rischieremmo di avvicinarci a taluni sistemi scolastici asiatici, noti per le procedure “scientifiche” di selezione dei quadri, ma anche per gli elevati tassi di suicidio tra i giovani.
A quel punto qualcuno dovrà pur assumersi le responsabilità del disastro civico e culturale.
Personalmente avrei scelto la prima Scuola che verrà, quella del 2014, senza livelli e senza soglie per l’accesso alla formazione terziaria attraverso la scuola medio-superiore.
La Scuola che verrà parte dal presupposto che nella scuola dell’obbligo bisogna veramente dare la possibilità a tutti di apprendere e di avere delle basi solide, per poi affrontare la vita, e non tanto uno studio memonico finalizzato solo al superamento delle verifiche liceali.
Per realizzare questo obbiettivo si è pensata una nuova organizzazione scolastica, che da una parte chiede più impegno agli insegnanti e dall’altra li mette di fronte alla propria responsabilità di “insegnare” a studiare e ad apprendere (vedi laboratori, atelier, settimane progetto, gruppi di allievi di 10-12 unità) senza più scuse (classi numerose, allievi difficili, programma da rispettare, ecc. ecc.).
Gli insegnanti, mi permetto di dire, sono da sempre legati alle proprie certezze, forse con l’eccezione dei movimenti degli anni ’60 legati a Don Milani o al Movimento di Cooperazione Educativa.
Come ben dice Adolfo, insegnare è una cosa, dare le note, dimostrando il proprio potere, è tutt’altra cosa.
Ebbene: gli insegnanti, soprattutto della scuola media, hanno subito fatto muro contro questa riforma. Ora, dopo che il Gran Consiglio l’ha di fatto trasformata, togliendole molto della sua spinta iniziale, ecco che la destra politica e le forze più reazionarie del nostro piccolo Ticino colgono l’occasione al balzo per cavalcare ancora una volta il populismo, con lo scopo di affossare questa riforma e, se vincenti, proporne poi una che, penso anch’io, toglierà quel poco di scuola per tutti che è attualmente quella ticinese.
Concludo appellandomi al mondo della scuola, che crede nelle finalità definite dall’art. 2 della Legge della, chiedendo di fare muro, una muraglia cinese, per resistere contro questo referendum, che porta con sé una visione pericolosa per la nostra democrazia.
Caro Marco, grazie per il tuo contributo. Concordo anch’io che la versione originale – quella senza livelli e, soprattutto, senza bieche soglie per l’accesso alla scuola medio-superiore – era preferibile. Temo invece che questi cedimenti diventeranno la nemesi di tutto il progetto, col rischio di trovarci con una scuola che farebbe rivoltare il povero Franscini nella tomba.
Quanto al tuo accenno ai movimenti degli anni ’60 sono molto più cauto. Troppi docenti si dicono progressisti e di sinistra, ma di rinunciare alle note e a tutto l’ambaradan che le circonda non se lo sognano nemmeno. Anzi!
Caro Adolfo,
Riprendo la penna dopo un periodo di lungo silenzio.
Condivido la coda finale del tuo testo. Siamo d’accordo!
Ma è mai possibile che i modelli di scuole aperte sulla conoscenza e sul processo di sviluppo dell’invidio non facciano più breccia nella nostra società, alle nostre latitudini?
Per esempio qui a Ginevra tutti si eccitano per le nuove misure che obbligano i giovani a seguire la scuola fino ai 18 anni compiuti. Ma che disastro! Prima almeno potevi scappare via dalla scuola e salvarti ai tuoi 15 anni mentre ora ti toccherà apprendere le maledette tabelline e il trapassato remoto del verbo “rispettare” fino alla maggiore età! Non è possibile fare delle modifiche strutturali senza cambiare la sostanza dei fondamenti che legano i soggetti nel loro agire.
Cosa dire Adolfo? Restare vigilanti come lo sai fare bene tu!
Un caro Saluto!
Caro Luca, grazie per questo tuo commento. Non entro nel merito della recente riforma ginevrina, di cui ho scritto di recente (È ancora possibile riformare sul serio la scuola?). Mi sembra quasi ovvio che se la scuola non è capace (non vuole, non ci si mette nemmeno!) di anteporre l’insegnamento e l’educazione alla classificazione e alla selezione, non ci sarà mai nessuna riforma che tenga. Che è poi quel che vuole oggi la destra politica un po’ in ogni dove: giù legnate a chi si allontana dalla media dei valori, facendo in modo che la media si alzi – un giochino da ragazzi, se solo si ha in mente di selezionare i quadri dirigenti di domani, magari pensando a sé stessi e alla propria cerchia.
È soprattutto per motivi di questo tipo che le organizzazioni scolastiche attente alle differenze non hanno mai preso piede, almeno da noi e nei paesi che ci assomiglino. Ma prima ancora dei politici di destra, è la stragrande maggioranza degli insegnanti che non sa insegnare se non può sparare a mitraglia le sue valutazioni: tanti docenti si dicono progressisti (sic) e “di sinistra” solo fino a quando non devono dare le note.
Su questi temi trovi tanti scritti proprio qui, nel mio blog. Senza andare troppo a scartabellare, me n’è venuto in mente uno che cade proprio a fagiolo per aggiungere qualcosa alla tua affermazione secondo cui, a Ginevra, «Prima almeno potevi scappare via dalla scuola e salvarti ai tuoi 15 anni mentre ora ti toccherà apprendere le maledette tabelline e il trapassato remoto del verbo “rispettare” fino alla maggiore età!»: da’ un’occhiata a Quando la scuola non sa più che pesci pigliare, che avevo pubblicato sul Corriere del Ticino del 28 maggio 2011.