Perché vivano Janusz Korczak e i suoi insegnamenti

Sul numero di novembre 2016, il mensile Illustrazione Ticinese, rivista familiare illustrata fondata nel 1931, ha dedicato il suo servizio di copertina al direttore del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI, oggi noto con la sigla DFA, che sarebbe poi la vecchia scuola magistrale cantonale: Michele Mainardi. Tra scienza, formazione e apprendimento.

Ne parlo in questa sede – al di là della segnalazione del servizio, interessante di per sé – per un dettaglio che non sarà sfuggito agli addetti ai lavori o presunti tali (benché sia necessario lasciare aperto qualche spiraglio al sospetto…). La scheda biografica che correda il reportage si conclude con una dichiarazione che sicuramente non è fortuita: «Pedagogo di riferimento: Janusz Korczak, un dottore ebreo riuscito nell’impresa che sembrava folle, di far funzionare una comunità di orfani nel ghetto di Varsavia».

[Su Janusz Korczak si veda la voce in Wikipedia; meglio ancora – purtroppo è solo in tedesco – si può consultare il sito del Janusz Korczack Institut].

Korczak è un autore che è entrato nella storia della pedagogia e delle idee pedagogiche solo in tempi recenti. All’epoca della mia formazione pedagogica, dapprima alla Magistrale negli anni ’70, poi all’università di Ginevra dieci anni dopo, non ricordo di averlo incontrato. Eppure il suo contributo all’educazione di bambini e adolescenti ha ancora una forza insolita e autorevole. Korczak non è «soltanto», mi si passi l’avverbio, uno degli ispiratori e dei padri fondatori della Carta internazionale dei Diritti del bambino. Ha scritto Philippe Meirieu: Profondément convaincu que l’enfant a le droit d’exister et d’être respecté en tant que tel, il énoncera, pour la première fois, l’idée de «droits de l’enfant». Il n’est pas, pour autant, partisan du laisser-faire, bien au contraire. Toujours exigeant, il met en place des dispositifs permettant à l’enfant de surseoir à ses impulsions (comme la «boîte aux lettres» où l’on écrit demandes et griefs, le «parlement» qui statue sur les règles nécessaires au fonctionnement de la collectivité, le tribunal, la gazette, etc.).

Ho parlato più volte di Janusz Korczak in queste pagine. Mi piace rammentare A settant’anni dalla morte di Korczak a Treblinka (Corriere del Ticino, 8.9.2012) e il più recente Per capire e (ri)conoscere la barbarie (29.10.2016). In quest’ultimo scritto suggerivo la lettura di un bell’album illustrato, coi testi di Philippe Meirieu e le illustrazioni di PEF: Korczak. Perché vivano i bambini (2014, Editore Junior). Nei giorni scorsi l’amico Pino Boero, professore ordinario di Letteratura per l’infanzia e Pedagogia della lettura presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova, mi ha segnalato un altro bellissimo libro destinato a ragazzi dai 10/11 anni: «L’ultimo viaggio. Il dottor Korczak e i suoi bambini» (di Irène Cohen-Janca, con le illustrazioni di Maurizio A. C. Quarello): come sempre, i libri per bambini e ragazzi dovrebbero interessare tutti gli educatori, dai genitori in là.

IRÈNE COHEN-JANCA, MAURIZIO A. QUARELLO, L’ultimo viaggio. Il dottor Korczak e i suoi bambini, 2015, Orecchio Acerbo Editore

Si può leggere nell’ultima pagina del volume, dopo la fine del racconto, così intenso e commovente:

Poveri e senza famiglia, di migliaia di bambini – ebrei, ma non solo – Janusz Korczak si prese cura per oltre trent’anni. Pediatra, subito capì che per prendersene davvero cura alla medicina avrebbe dovuto affiancare la pedagogia. Nacque così una delle più straordinarie esperienze che la storia ricordi, con i bambini protagonisti attivi della loro crescita, della loro formazione.

Un’esperienza che continuò anche tra le mura del ghetto di Varsavia, con Janusz Korczak sempre al fianco dei suoi bambini.

Né, pur potendo, volle abbandonarli quando i nazisti decisero di trasferirli, per l’ultimo viaggio, nel campo di Treblinka.

La sua impronta, insieme a quelle dei suoi bambini, resta, indelebile, nella Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza approvata dall’Onu a New York il 20 novembre del 1989.

È giusto, o almeno lo sarebbe, far conoscere agli adolescenti questa figura di Uomo, un medico, che ha creduto profondamente e intensamente nel potere dell’educazione. Sarebbe bello se anche gli insegnanti, i Maestri del mondo intero, riuscissero a mettere l’educazione in vetta agli obiettivi della loro quotidianità, ben prima di pensare alle competenze più o meno disciplinari e alle immancabili valutazioni: che quasi sempre sono il certificato del riconoscimento sociale, dell’esclusione o degli esami di riparazione.

L’insegnamento di Janusz Korczak – e di tanti altri – dovrebbe interrogare e intrigare ogni insegnante, soprattutto quelli della scuola pubblica e obbligatoria: che non è stata pensata e istituita per selezionare le élite – che sarebbe come dire per dare una spintarella a chi comanderà in un futuro più o meno prossimo – ma per ragioni ben più alte e fondatrici.

Oltre tante invenzioni della moderna tecnocrazia didattica, sarebbe utile andare sempre al cuore delle preoccupazioni e delle riflessioni che hanno ispirato le donne e gli uomini che hanno fatto la storia delle idee pedagogiche. Il contributo di Korczak ci dice che il rispetto si impara vivendolo, attraverso la mediazione di un adulto consapevole. Per logica deduzione ci dice anche che non ci sono altre scorciatoie didattiche per arrivarci: perché il Rispetto è figlio della Cultura.

Nel frattempo abbiamo letto che Michele Mainardi lascerà la direzione della scuola magistrale a fine agosto 2017, ma continuerà, al DFA, a guidare il Centro di competenza denominato Bisogni educativi, scuola e società: l’augurio è che gli insegnamenti di Janusz Korczak e di chi gli è pedagogicamente vicino possano diventare quanto prima uno gli elementi centrali della formazione dei docenti di ogni ordine e grado. Perché l’approccio epistemologico alla professione di educatore prima e di insegnante poi sta diventando un imperativo etico.

La porta, a questo punto, sembrerebbe aperta: con un sorriso ottimista.

© Foto Gabriele Campeggio, Illustrazione Ticinese, N° 11-Novembre 2016

Gli auguri di rito e il rito degli auguri

A volte ho la sensazione che fare gli auguri nei momenti più tradizionali – per il compleanno, a Natale o per il nuovo anno – sia uno di quegli automatismi un po’ ipocriti, come chiedere «Come va?» a uno che incontri per caso (e glielo chiedi sapendo che, dopo pochi minuti, ti sarai scordato dell’eventuale risposta, a meno che l’Incontrato Per Caso non ti abbia rivelato, spesso per ragioni freudianamente misteriose, d’essere preda di sfighe mediche o socio-affettive poco o punto felici e invidiabili).

Ho un amico che fino a poco tempo fa, se gli mandavo qualche augurio di rito, tipo «Buon Natale» o un più laico «Buon anno», mi cazziava neanche l’avessi insultato pesantemente. Eppure l’altro giorno ho ricevuto un suo messaggio, che mi ha sbalordito: Tanti auguri, mi ha scritto a poche ore da Capodanno.

D’accordo, non ha sprecato la sua fantasia, abitualmente traboccante.

Ma ha fatto bene, al di là degli editti di quando i sessant’anni gli sembravano lontani: Tanti auguri, tutto lì. Detto da lui per me ha significato molto. Perché ha scritto a me, non ai soliti undisclosed-recipients della posta elettronica.

Allora, in questi primi scorci del 2017, voglio rivolgere un augurio pedagogico ai miei lettori, quelli fedeli e quelli occasionali, partendo da Snoopy, l’eroico e imperturbabile peanut di Charles Schulz: «Educare non è riempire un secchio, ma accendere un fuoco».

Ha scritto Paola Mastrocola: «Noi, quando uscivamo dalla lezione di un maestro, camminavamo per un bel po’ a un metro da terra. Diciamo che quel metro da terra fa la differenza. […] Diciamo che forse questo contraddistingue un maestro: ti contagia. […] Un insegnante che non insegna procura un danno davvero incalcolabile al singolo allievo, e quindi anche all’intera società: condanna all’ignoranza, […] quindi al vagolamento professionale infinito». [La scuola raccontata al mio cane, 2004, Guanda editore. Vedi anche la mia recensione sul Corriere del Ticino: Quella scuola che sfrittella il pensiero].

In un suo romanzo successivo [Non so niente di te, Torino, Einaudi, 2013], c’è un passaggio esemplare. Fil, il protagonista, uno studente modello iscritto a economia, a un certo punto comincia ad andare sempre meno a lezione, anche se «Lo sa che suo padre soffrirebbe, che se ne farebbe una colpa». Ma «andando sempre meno a lezione, trova il tempo. Il tempo di leggere moltissimo, per esempio. La biblioteca diventa la sua nuova tana. Si mette lì e tutto il resto della vita gli sparisce. Via gli esami, i compagni, la crisi dei mercati, i genitori… Restano solo i pensieri, le idee. Cose aeree, leggere. Astrazioni. Altri mondi. Dov’è escluso che ti trovino.

Fil ci va quasi tutti i giorni, e ci resta fino a tardi. Fa una cosa sola: si prende un libro e se lo divora, piano, un pezzetto al giorno. Ci va anche la domenica, così gli riesce di azzerare un po’ quella malinconia, quella morsa di vuoto che ti prende ogni domenica, cascasse il mondo, qualunque cosa fai, tutte le domeniche della tua vita. È lì che scopre i classici. Il secondo anno a Londra, in biblioteca. Affonda. Affonda nella lettura. Adam Smith, Schumpeter, Von Hayek, Ricardo, Milton Friedman, Keynes… E Robert Solow, soprattutto lui, un classico vivente…

Preso da quelle letture intense, assolute, comincia a non studiare più. A non studiare più per gli esami, cioè secondo quella particolare forma di studio non libero, finalizzato al superamento di una prova: un’attività competitiva, più che altro, ben poco rilassante, solo utile (ma utile a che cosa, poi?)».

Auguri, appunto.

Una scelta per la scuola del Paese che verrà

Il parlamento ha bloccato «La scuola che verrà», l’ambizioso progetto del ministro Bertoli per la scuola di domani. Il presidente dei liberali radicali ha detto che quella scuola lì è «impregnata di ideologia socialista». Probabilmente ha la memoria corta, oppure tace consapevolmente. È bene ricordare che «La scuola che verrà» ha molto a che fare con la Legge sulla scuola media, votata nel 1974, e con quella della scuola del 1990: due leggi, per intenderci, mai realmente compiute e realizzate fino in fondo, ma fortemente volute proprio dai liberali radicali. Ricordo che il relatore di maggioranza sulla scuola media fu Diego Scacchi, all’epoca esponente di spicco del PLR.

Una gran quantità di persone e associazioni ha sparato ad alzo zero contro la proposta di Bertoli, che era stata lanciata a pochi giorni dal Natale di due anni fa, e a pochi mesi dal rinnovo dei poteri cantonali. Aveva aperto le danze l’imprenditore Silvio Tarchini: «È l’ennesimo abbassamento della selettività della scuola. L’abolizione dei livelli porterà a ulteriori difficoltà nel momento del passaggio nel mondo del lavoro. Ma soprattutto saranno guai per coloro che vorranno continuare a studiare». Lapidario. A seguire, di lì a qualche giorno, il consigliere nazionale Fabio Regazzi, che durante una riunione dei suoi si era soffermato sulla riforma della scuola dell’obbligo illustrata dal DECS. Stringato anche lui: «Ritengo fondamentale ristabilire la meritocrazia, cosa però difficilmente raggiungibile con la soppressione di valutazioni e licenze». Addirittura anche il Movimento della scuola, in quei giorni, si era opposto: «In certe riforme [ci sono] troppi scienziati dell’educazione», un concetto ripreso nei giorni scorsi da Gerardo Rigozzi, ex direttore del liceo di Lugano: «La mia impressione è che ‘La scuola che verrà’ sia stato scritto da pedagogisti che vogliono fare i politici».

Come detto la commissione scolastica del Gran consiglio ha ora chiesto e ottenuto il rinvio della fase sperimentale, che il Dipartimento intendeva avviare già dal prossimo settembre. I socialisti si sono astenuti, de facto favorendo in maniera un po’ melliflua il blocco del progetto: che potrebbe essere temporaneo solo in apparenza. A mente della sinistra vi sono alcune criticità che devono essere risolte, sennò non se ne fa nulla. Va da sé che i punti critici indicati sono per lo più di natura sindacale, ma hanno poco a che fare con le finalità più qualificanti del progetto, in cui riecheggiano tante riforme degli ultimi quarant’anni, che spesso non sono riuscite a raggiungere i veri obiettivi, sin dall’istituzione della scuola media.

Dietro questo ennesimo teatrino, che coinvolge partiti, sindacati e istituzioni, nessuno ha il coraggio di porre l’unica domanda fondamentale, che impone una risposta serena e trasparente: che scuola vogliamo? Una scuola per la democrazia e il Paese oppure al servizio dell’economia? In altre parole, desideriamo educare cittadini o selezionare e formare lavoratori? Senza questo chiarimento il dibattito continuerà ad attizzarsi attorno a troppi non detti, lasciando il dubbio che si preferisca la seconda opzione, anche se non sempre sta bene dirlo a chiare lettere.

Un attentato e un romanzo contro i pregiudizi

Com’era già capitato nel luglio scorso, l’inserto culturale del Corriere del Ticino ha dedicato alcune pagine, in queste ultime settimane, ad  alcune segnalazioni librarie da parte delle sue firme. Sono una firma sporadica e irregolare, ma pubblico la mia rubrica, Fuori dall’aula, sin dal 29 agosto 2001. In luglio non mi ero sottratto al mio ruolo fuori dall’aula, e avevo segnalato un volumetto esplicitamente rivolto al mondo della scuola: «Tutta un’altra scuola! (quella di oggi ha i giorni contati)».

Stavolta, invece, ho pescato nella letteratura “normale”. Un po’ istintivamente ho segnalato un romanzo del 2005, ripubblicato quest’anno dall’editore Sellerio: L’attentato, di Yasmina Khadra.

È la storia di Amin Jaafari, un beduino naturalizzato in Israele, che fa il chirurgo a Tel Aviv. È un uomo di successo, ben integrato nella società in cui vive. Poi, all’improvviso, un attentato: un kamikaze che si fa esplodere in mezzo alla folla, la strage raccontata da tante cronache. I feriti arrivano all’ospedale. Sono ore concitate. Il chirurgo agisce mentre il pensiero s’interroga sui motivi oscuri della barbarie. Scoprirà presto che l’attentatrice è Sihem, la sua bella moglie. E lui, che in fondo è ancora considerato un arabo, sarà il complice designato. Yasmina Khadra ci lascia un romanzo di grande attualità, una storia che fa riflettere su tanti pregiudizi.

Yasmina Khadra è un nom de plume. Nato nel 1955 in Algeria, Mohammed Moulessehoul, questo il suo vero nome, esordì come scrittore nel 1984. Ma i suoi racconti non furono graditi all’esercito, di cui era membro. Così continuò a scrivere come Yasmina Khadra, un nome femminile che altro non è se non i due nomi della moglie. Nell’edizione francese di Wikipedia si trova un’esaustiva, benché sintetica, descrizione dell’autore e della sua opera.

Perché scegliere questo autore e questo romanzo per una segnalazione pre-natalizia?

Difficile rispondere, ma, come tutta la letteratura, anche L’attentato educa. Da pedagogista e da cittadino preoccupato per gli schematismi, le chiusure culturali e i tanti muri reali e virtuali che affollano il nostro vivere giorno dopo giorno, ho ritenuto importante proporre questo scrittore e la sua opera, che aiuta a svelare i pregiudizi e, perché no?, a leggerli in chiave diversa dalle prime idee che saltano in mente: che, spesso, sono poi quelle veicolate dai mass-media e da ciò che più fa comodo. Quando un kamikaze agisce, in nome di un dio o di un Dio, ammazza spesso alla cieca, incurante delle fedi e delle credenze delle sue vittime.

Mohammed Moulessehoul ha scritto, in un altro romanzo (Gli angeli muoiono delle nostre ferite, romanzo del 2013 pubblicato l’anno dopo in italiano):

«Gli uomini non vedono le cose, inseguono le loro fantasie».

«E le donne?».

«Le donne non pensano come gli uomini. Noi pensiamo come si deve. Voi badate solo ai fatti vostri. Noi cogliamo subito l’essenziale, mentre voi vi disperdete in strade secondarie. La felicità per noi sta nell’armonia che ci circonda. Per voi, nella conquista e nell’eccesso. Fuggite come la peste ciò che è evidente, e cercate altrove ciò che avete a portata di mano. Così finite col perdere di vista quello che era già vostro».

D’altronde il nome del protagonista di questo romanzo, che si svolge nell’Algeria francese, è Turambo e deriva da Arthur Rimbaud.


Mentre rileggevo e rifinivo questo post, è giunta la tragica notizia della strage di Berlino, dove un TIR si è schiantato sulla folla del  mercatino natalizio davanti al Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche, nella centralissima Kurfürstendamm: nove morti e almeno cinquanta feriti, stando alle notizie dell’ora in cui scrivo.

Ho esitato a premere il bottone «Pubblica». Ma credo che sarebbe stato infame e meschino tacere, solo perché, tanto, nessuno l’avrebbe saputo. E perché, inevitabilmente, l’attacco proditorio nel centro di Berlino attizzerà le Leghe, le Alternative für Deutschland, i Front national e i tanti movimenti analoghi in Europa e nel mondo.

Un ricordo piacevole, una bella storia

La Rivista, mensile illustrato del Locarnese e valli, ha pubblicato una toccante intervista a Dario Catti, un ragazzo affetto da distrofia muscolare (N° 11/2016). Nato nel 1995, Dario ha frequentato per due anni la scuola dell’infanzia di Locarno. Nel 2001/02 iniziò la 1ª elementare alla scuola pratica annessa alla Scuola magistrale cantonale, con la maestra Silvana Fiori. Alla fine di quell’anno scolastico la Scuola magistrale, nel frattempo diventata Alta Scuola Pedagogica, rinunciò alla scuola pratica e la chiuse, così che allievi e docenti confluirono nelle Scuole comunali di Locarno.

Dario continuò la sua avventura nella scuola elementare alla sede dei Saleggi, in 2ª ancora con la maestra Fiori, per poi frequentare il II ciclo nella classe del maestro Angelo Morinini. Ricordo con tanto piacere quell’esperienza, perché la scuola fece il possibile per agevolarlo, facilitandone gli spostamenti, dal momento che la malattia avanzava rapida e inesorabile. I maestri, dal canto loro, lo accolsero con grande sensibilità, senza mai trattarlo con pietismo, ma pretendendo ciò che lui poteva e doveva dare.

Ho il ricordo incancellabile del giorno in cui, il 9 giugno 2006, fu festeggiato assieme ai suoi compagni nella corte interna del Castello visconteo. Al momento della consegna delle licenze di scuola elementare, iniziai proprio da lui. «Siete più di cento – dissi, rivolgendomi agli allievi e al pubblico che li applaudiva – per cui ci vorrà un po’ di tempo. Non c’è un ordine preciso per chiamarvi, né alfabetico né – ci mancherebbe – basato su altre classifiche. Ma, stavolta, voglio fare un’eccezione e cominciare con un allievo al quale la vita ha voluto mettere qualche ostacolo in più, ma che comunque ha dimostrato di saperci fare, malgrado le difficoltà: Dario Catti».

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Naturalmente non voglio qui vantare meriti che non ho. Mi ero limitato a far sì che non si alzassero ostacoli oltre a quelli che già c’erano. Dario era un ragazzo in gamba, sostenuto da una famiglia che non ha mai preteso la luna, ma solo il rispetto verso un figlio svantaggiato, certo, ma senza inadeguatezze che avrebbero potuto suggerire machiavelliche esclusioni (scolastiche). I maestri che hanno avuto a che fare con lui erano bene in chiaro sul ruolo della scuola pubblica e obbligatoria, e operarono coerentemente: con rigore e sensibilità, senza nessun pietismo manierato.

Naturalmente si potrebbe dire che questo tipo di accoglienza dovrebbe valere per tutti i bambini e i ragazzi che sono obbligati a frequentare le nostre scuole. Ma, senza i buonismi tanto di moda, bisogna pur dire che, ogni tanto, l’inclusione deve fare i suoi conti mettendo a confronto i sogni con la realtà (si veda «L’inclusione tra sogni e realtà», un testo di due anni fa, che mi sembra ancora molto attuale).

Dai margini dell’aula: esperienza, pensiero critico e qualche nota fuori dal coro