Chi mi conosce sa bene che ho tante riserve sul progetto «La scuola che verrà», non tanto per i suoi contenuti, quanto per tutto il resto.
Faccio però molta fatica a trattenere l’arrabbiatura quando leggo certe sciocchezze, come m’è successo stamattina – mentre scrivo è ancora venerdì 11 novembre 2016 – sfogliando il Corriere del Ticino. A pagina 11 c’è un articolo che riferisce di un argomento fondamentale per la storia futura del nostro cantone: «PLR Futuro presidente: in 7 ancora in corsa». Per i lettori distratti o non ticinesi, PLR sta per Partito Liberale Radicale. Ne ho fatto parte. Mi sono costruito un’identità ideologica, in anni (lontani) di militanza, anche in quel contesto politico. Mi sono sempre sentito vicino a quella R che rimanda a un liberalismo progressista, attento alle questioni sociali e, nel contempo, fermamente declinato al rispetto dei diritti individuali.
Felice Casorati. Ritratto di Piero Gobetti, 1961
Torno all’articolo che mi ha fatto andare di traverso la giornata. Leggo che il presidente uscente del partito, durante una riunione coi suoi, ha voluto porre l’accento su qualche tema, scuola in testa. Secondo l’uscente La scuola che verrà è «impregnata di ideologia socialista». Così ha invitato a trovare «il coraggio per scuotere l’albero e far cadere i frutti che vogliamo», che non vuol dire proprio nulla. Pare, stando sempre alla cronaca del Corriere, che l’uscente abbia terminato con un aforisma che di certo non passerà alla storia: «Se fosse vivo, Einstein non voterebbe Lega» [la virgola ce l’ho messa io], che non si capisce cosa abbia a che fare con l’ideologia socialista, messa lì come una malattia contagiosa e da nascondere.
Credo che Einstein, per stare all’ipotesi del presidente uscente, non avrebbe votato neanche per questo partito, che di Radicale parrebbe non avere più nulla, a parte qualche aderente un po’ masochista e magari pure un po’ cióla, un aggettivo dialettale che, per me, non ha nessuna valenza offensiva o irriverente. Se il successore dell’uscente sarà un presidente di continuità, spero che abbia almeno il pudore di togliere quel Radicale dalla denominazione del partito.
«La scuola che verrà» è un progetto con tanti difetti, ma non quello di essere impregnato di idee socialiste, soprattutto se queste, in termini di educazione dei futuri cittadini, sono le idee liberal tratteggiate nell’articolo 2 della Legge della scuola tutt’ora in vigore, una legge sostenuta con vigore dai radicali degli ultimi anni del XX secolo.
È da qualche giorno in libreria il volume «Un’etica per la scuola. Verso un codice deontologico dell’insegnante». Edito dall’editore Carocci di Roma e curato da Marcello Ostinelli e Michele Mainardi, il volume raccoglie e riordina gli interventi dell’omonimo convegno di studio del 25 novembre 2015 (qui il programma, di cui avevo pure parlato in un articolo pubblicato sul Corriere del Ticino del 15 dicembre 2015: Un’etica per la scuola e una deontologia per gli insegnanti).
«Il volume offre un’approfondita riflessione sui principi, sui valori e sulle norme di un codice di condotta professionale dell’insegnante; ne discute la legittimità entro le mura della scuola pubblica democratica e l’opportunità nel contesto della società contemporanea. Dai diversi autori emerge la comune convinzione che la definizione di un’etica della professione e l’adozione di un codice di condotta costituiscono due tappe essenziali del processo di professionalizzazione dell’insegnamento. In appendice è pubblicata una Proposta di codice deontologico redatta da Eirick Prairat che, assieme agli altri contributi del testo, rappresenta un’occasione importante per aprire un dibattito pubblico sull’etica e sulla deontologia dell’insegnante, sulla sua identità professionale e più in generale sui principi e sui valori della scuola pubblica nella società contemporanea».
Dopo l’introduzione dei curatori, la prima parte presenta alcuni studi sul tema: L’idea deontologica, di Eirick Prairat; Il codice di condotta dell’insegnante tra valori interni e valori esterni alla professione, di Marcello Ostinelli; I cardini e le finalità del codice deontologico degli insegnanti, di Silvano Tagliagambe.
La seconda è dedicata a una serie di interventi: Scuola e identità docente: fra assunti etici individuali e collettivi, di Michele Mainardi; Sul codice deontologico degli insegnanti, di Fabio Merlini; La contestualizzazione del codice deontologico nella pratica educativa, di Giorgio Ostinelli; Per un codice deontologico del sistema scolastico, di Adolfo Tomasini.
Il volume si chiude con un’appendice: Proposta di codice deontologico, di Eirick Prairat.
MARCELLO OSTINELLI, MICHELE MAINARDI (a cura di), Un’etica per la scuola. Verso un codice deontologico dell’insegnante, 2016, Roma: Carocci editore, pagine 120, ISBN 9788843085040, 13 €
Faccio fatica a capire se la scuola di oggi sia (ancora?) capace di uscire dalle sue quattro mura per occuparsi dei temi più sensibili che interrogano l’Occidente e la comunità in cui viviamo, affinché la sua opera di mediazione culturale e pedagogica continui a difendere e marcare il suo primato politico, quasi la sua ragion d’essere: scuola pubblica e obbligatoria, scuola dello Stato per educare cittadini informati, interessati alla res pubblica, capaci di orientarsi in una società difficile e variegata, in grado, nel contempo, di non lasciarsi deprimere e di non gettare la spugna, accogliendo col sorriso il canto facile delle sirene ammaliatrici, le moderne vestali che invitano al Panem et circenses, che proprio di questi tempi sembra godere di una nuova età dell’oro.
A volte si ha l’impressione che, oltre gli enunciati di principio e i piani di studio così ben dettagliati, spiegati e strutturati, nelle aule scolastiche si fatichi a tenere la barra al centro, perdendosi in innumerevoli gabbie didattiche che se ne vanno per conto loro, inseguendo risultati e rendimenti che servono proficuamente al lavoro di selezione economica e sociale, ma si allontanano in maniera surrettizia dalle vere finalità dell’essere a scuola, quella pubblica (e, per qualche anno, pure obbligatoria).
Ne ho parlato più volte, negli ultimi mesi. Oggi voglio segnalare due libri tanto vicini ai miei amori pedagogici e alle inquietudini che mi accompagnano.
Il primo è fresco di stampa, in libreria dall’estate scorsa. È di Philippe Meirieu, un autore che si incontrata spesso nel mio blog. Potrebbe sembrare il solito instant book, messo lì per accalappiare un po’ di gonzi. Ma non è così. Dopo «L’École ou la guerre civile», scritto in tempi insospettabili (1997) col giornalista Marc Guiraud, ecco ora «Éduquer après les attentats».
Leggo nella scheda di presentazione: I terribili attentati del 2015 e del 2016 hanno scosso profondamente il nostro paese – anche il mio, a dirla sinceramente. Gli insegnanti sono ampiamente sguarniti a questo livello, si pongono un insieme di “domande vitali”: cosa fare, giorno dopo giorno, per permettere a tutti i nostri ragazzi di scoprire l’importanza del rispetto dell’altro, della fraternità e della costruzione del bene comune? Quali ideali offrire a chi, non potendo accedere a un impiego e al consumo, vede nell’integralismo religioso l’unica maniera di darsi un’identità?
Attraverso venti capitoli molto chiari, fondati su situazioni reali, Philippe Meirieu si sforza di rispondere a queste domande: senza imposture, né peli sulla lingua. Il volume – conclude la presentazione – è rivolto a insegnanti e educatori, e a tutti coloro che vogliono una democrazia in cui ognuno abbia il suo posto… e dove non esistano più tentazioni stimolate dalla violenza più barbara.
Le quasi 250 pagine del libro, appassionanti e appassionate, mantengono le premesse: fossi stato ancora un insegnante ne sarei rimasto stregato.
E vengo all’altro volume, pubblicato nel 2012. Stavolta si tratta di un libro illustrato per ragazzi, tradotto e pubblicato in italiano dall’editore Junior nel 2013. Il testo è nuovamente di Philippe Meirieu, le illustrazioni sono di Pef. Si intitola «Korczak, Perché vivano i bambini» e racconta la storia di Janusz Korczak, pedagogo, scrittore e medico polacco, nato a Varsavia nel 1878, morto nel campo di sterminio di Treblinka il 6 agosto 1942. Di Korczak avevo già scritto nel settantesimo della sua morte (A settant’anni dalla morte di Korczak a Treblinka).
È un libro bello da guardare e intenso da leggere, con una struttura originale. Nella prima parte c’è il racconto della sua avventura umana e intellettuale, dalla fine dell’800, quando si chiama ancora Henryk Goldszmit e, nella Polonia occupata dall’armata russa, diventa insegnante dei bambini che vivono nei quartieri più discosti e disagiati; fino al drammatico epilogo in uno dei più importanti centri di sterminio del regime nazista, dove seguì i centonovantadue bambini, ospiti della “Casa degli orfani”, da lui fondata nel ghetto ebraico di Varsavia, e i dieci adulti che lavoravano con lui.
Accanto al racconto, scritto con linguaggio chiaro e accessibile, ma non banale né scioccamente moralista, scorrono le immagini di Pef e alcune riflessioni di Janusz Korczak. Le ultime pagine del libro – introdotte dal titolo Korczak, l’amico dei bambini – propongono alcuni dati essenziali della sua vicenda intellettuale e umana: le date della sua vita, il suo impegno per affermare i diritti del bambino, l’antisemitismo e la Shoah, alcuni significativi estratti dalla sua opera Re Matteuccio I, il Re bambino (Król Maciuś Pierwszy, 1922), assieme ad alcune immagini documentarie.
È un libro avvincente, che offre tanti spunti anche sui temi affrontati in «Éduquer après les attentats», un libro per ogni persona che si occupa di educazione.
PHILIPPE MEIRIEU, Éduquer après les attentats, 2016: Paris, ESF éditeur
PHILIPPE MEIRIEU et PEF, Korczak, pour que vivent les enfants, 2012: Rue du Monde éditeur; traduzione italiana: Korczak. Perché vivano i bambini, 2013: Bergamo, edizioni Junior (ISBN 978-88-8434-526-4, 56 pagine)
L’immagine che apre questo articolo e le altre citazioni illustrate sono tratte da Korczak, pour que vivent les enfants.
Non c’è più nessuno che scrive parabole, o almeno favole, con il consapevole e inevitabile intento pedagogico. Si sa cosa ne penso: Educare, per me, significa dare gli strumenti affinché il (futuro) cittadino sappia prendere le sue decisioni in modo libero e cosciente – poi che ognuno faccia come vuole. Per intenderci, sono lontano mille miglia dai metodi pedagogici delle dittature, tipo «Libro e moschetto» fascista perfetto.
Eppure, di tanto in tanto, capita che affiori qualche nuova parabola anche dalle acque confuse e limacciose del www e della (democraticissima) comunicazione smodata e ridondante, che può esser peggio di quella assiomatica della stampa di regime.
La parabola che voglio proporre me l’ha segnalata un amico, un artista.
È un piccolo apologo che Mino Martinazzoli ha raccontato qualche anno fa un durante una conferenza. La favola narra del direttore generale di una grande società, che aveva ricevuto l’invito per assistere a un concerto che, in programma, contemplava anche la Sinfonia N° 8 in si minore di Franz Schubert, l’Incompiuta.
Il direttore generale non poteva andarci e allora regalò l’invito al capo del personale, che era un giovane laureato alla Bocconi, master in una London School. Questi si occupava anche di politica, sognava efficienza e giovinezza nella politica. E andò a sentire il concerto.
Il giorno dopo il direttore generale gli chiese se gli fosse piaciuto il concerto. Con tutto il peso di chi risponde da capo del personale, garantì che a mezzogiorno avrebbe avuto la sua relazione sulla scrivania.
Il direttore generale ricevette puntualmente la relazione e cominciò a leggerne con sorpresa il contenuto, che era diviso in cinque punti.
Durante considerevoli periodi di tempo i quattro oboe non fanno nulla. Si dovrebbe ridurne il numero e distribuirne il lavoro tra il resto dell’orchestra, eliminando i picchi d’impiego.
I dodici violini suonano la medesima nota. Quindi l’organico dei violinisti dovrebbe essere drasticamente ridotto.
Non serve a nulla che gli ottoni ripetano suoni che sono già stati eseguiti dagli archi.
Se tali passaggi ridondanti fossero eliminati, il concerto potrebbe essere ridotto di un quarto.
Se Schubert avesse tenuto conto di queste mie osservazioni, avrebbe terminato la sinfonia.
Martinazzoli concluse: «Io vorrei vivere in un mondo nel quale si possa continuare a sentire l’Incompiuta di Schubert così com’è».
Joan Miró (1893-1983). Blu III, 1961, olio su tela cm 270 × 355
Non so voi, ma a me questa favola ricorda per troppi motivi la scuola di oggi, almeno quella descritta e vagheggiata da molti: spendibile, efficiente, utilitaristica, concreta. Realista.
Toh, chi si rivede!? Sergio Morisoli, con Paolo Pamini, ha presentato un’iniziativa parlamentare intitolata «La scuola che vogliamo: realista». Scopo dichiarato: riformare l’attuale Legge della scuola. In un riassunto per chi è di fretta si elencano ventotto principi fondatori di una scuola di destra: se ne sentiva la mancanza. Da dritta a manca è tutto un tratteggiare scuole che verranno. Manuele Bertoli, socialista e direttore del dipartimento dell’educazione, ha già detto la sua, sollecitato dal Corriere. A domanda «Quali le misure problematiche o molto problematiche?», ha risposto con inusuale prudenza, affidando una risposta più articolata al normale percorso degli atti parlamentari.
Ma qualcosa ha detto. Ad esempio che «Il finanziamento delle scuole private, anche parziale, è senza dubbio problematico», anche «perché il popolo ha detto molto chiaramente la sua nel 2001». Oddio, sono passati tre lustri, che, di questi tempi febbrili e smemorati, è quasi un’era geologica. Avevo subito avuto l’impressione che la grande fiducia ottenuta quell’anno dalla nostra scuola fosse stata dilapidata nel breve tempo della vita effimera di una farfalla. In questa rubrica avevo pubblicato un articolo nel febbraio del 2002 – «Che ne è stato del 18 febbraio?» – in cui evocavo, tra tante persone e cose, la lettera di uno studente liceale che segnalava una riforma in corso, «che sfavorisce il settore umanistico, aumenta la selezione» e tende «a sottomettere la formazione agli interessi del mercato». Naturalmente la scuola realista sognata da questa destra non è la stessa di quella che la sinistra dice che ci sia già, almeno in parte, o vorrebbe che ci fosse, migliorata. Nei quasi trenta enunciati, che si configurano come «le maggiori novità della proposta», si leggono asserzioni non sempre fresche di pensata: una scuola pubblica anche un po’ privata; civica obbligatoria e religione a doppio binario; mantenimento della valutazione con i voti; difesa di un percorso selettivo a livelli; e via conservando.
Non mancano neanche le idee innovative, come la decentralizzazione del potere scolastico dal dipartimento agli istituiti scolastici: d’accordo, ma a condizione che resti il primato della Scuola pubblica e obbligatoria, un’istituzione al servizio dello Stato, come l’esercito o la giustizia. Delle sparate liberiste, secondo cui il mercato risolve tutto, ne abbiamo piene le tasche. Infatti la sensazione che si prova leggendo il corposo documento della destra nostrana è che si voglia realizzare un sistema scolastico che non faccia perdere tempo: è chiaro a tutti che chi nasce nella famiglia giusta avrà tante probabilità di riuscire bene a scuola e di proseguire il suo cammino verso la ricchezza e il potere, senza troppi affanni. Perché, allora, perdere soldi e tempo a causa della menata delle pari opportunità? Quel febbraio del 2001, quando il Ticino si scoprì convinto difensore dell’istituzione «Scuola», sembra lontano. Ora siamo ad HarmoS, coi suoi piani di studio, le competenze e un gran brulicare di attività convulse. Poi si riprenderà il filo della scuola che verrà, e sarà curioso capire fino a che punto il paese saprà resistere alle sirene liberiste: che non sono nuove, perché di veramente nuovo, sotto il sole della scuola, c’è poco o nulla. Altre istituzioni – l’esercito, la giustizia, addirittura le chiese – nell’ultimo mezzo secolo son cambiate di più.
P. S.: Il domenicale Il Caffè del 25 settembre aveva dedicato un ampio servizio alla proposta di Morisoli e Pamini: La scuola-azienda finisce dietro la lavagna. In quell’ambito era pure apparsa una breve intervista a me (L’intervista/2: “La formazione umanistica fa capire le trasformazioni”).
Un amico e collega mi aveva mandato un breve messaggio: «Secondo me a queste domande va dato più spazio per le risposte, per l’approfondimento, altrimenti chi ti conosce condivide perché sa cosa c’è dietro, gli altri non sono sicuro che colgano il senso». Sono naturalmente d’accordo, è il rischio delle interviste telefoniche, improvvise e incontrollabili. In questo senso l’articolo sul Corriere del Ticino di oggi può fare un po’ di chiarezza.
Tra l’altro avevo chiosato questo problema in occasione di un’altra breve intervista dello stesso settimanale: si veda il postL’inclusione non esclude di per sé la selezione, del 30 marzo scorso.
Dai margini dell’aula: esperienza, pensiero critico e qualche nota fuori dal coro