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Così parlò Manuele Bertoli: «Se le mie risposte infastidiscono, basta non leggerle»

È inutile cercare scuse: forse sono l’unico sciocco che s’è accorto con ritardo bernese che il Consigliere di Stato direttore del Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport – insomma, del DECS – aveva commentato il mio articolo «Le proposte del ministro su HarmoS e il Piano di studi», apparso sul Corriere del Ticino del 2 novembre scorso.

Eppure è stato lesto, il nostro Ministro: ha commentato il giorno stesso, sul portale denominato Ticino Libero.

Detto di transenna: il web è affollato di “Ticini”. C’è quello online e c’è quello news, senza contare le libere TV e tanti altri. Ora ho scoperto, appunto, Ticino Libero, che, dal nome, sembra un pochettino leghista, ma solo un po’. Se ne sentiva la mancanza.

Per tornare a bomba: Manuele Bertoli ha dichiarato che da quando dirige il DECS e risponde pubblicamente alle critiche più o meno fondate sui temi di sua competenza che legge dai media, osserva che, curiosamente, spesso le sue risposte dànno fastidio. Pare, stando al portale, che Bertoli ’ste cose le abbia scritte sul suo sito. E precisa: «La cosa è bizzarra, poiché mi pare naturale che rispondere faccia parte del mio mandato. Lo è ancor di più se il fastidio verso la risposta si fonda sulla rapidità di reazione, quasi come se rispondere subito sia sintomo di qualche problematicità». E poi aggiunge, stando sempre al libero portale: «Porre delle questioni pubblicamente è più che legittimo e rispondere mi pare il minimo, almeno per chi è interessato a un vero dibattito. Se poi le mie risposte infastidiscono, basta non leggerle». In definitiva, però, si limita e manifestare il suo fastidio, senza entrare nel merito delle osservazioni, alla faccia del dibattito.

Anche se, figuriamoci, il Ministro non deve mica rispondere a me, casomai al Paese.

Naturalmente non mi ha sconvolto il fatto che un Consigliere di Stato abbia replicato ai miei appunti. Mi ha invece scombinato l’invito a non leggere le risposte che potrebbero far venire il nervoso.

Ricapitoliamo.

Al mio articolo – Le proposte del ministro su HarmoS e il Piano di studi, sul Corriere del Ticino di lunedì 2 novembre – il direttore del DECS ha replicato il giorno stesso su Ticino Libero. Titolo: Bertoli scocciato, «se non vi piacciono le mie risposte non leggetele». Sottotitolo: Un articolo sul Corriere del Ticino infastidisce il ministro socialista, «come se rispondere subito sia sintomo di qualche problematicità».

Certamente potrei dire la stessa cosa al ministro Bertoli: con tutti i pensieri che derivano dall’essere Consigliere di Stato di questa Repubblica, non è il caso che ci si debba occupare anche delle scocciature. Ma, appunto, basterebbe evitare di leggerle.

Faccio parte di quella generazione che ascoltava il giornale radio delle 12.30 in religioso silenzio. Ne ho parlato più volte nella mia rubrica sul Corriere del Ticino, «Fuori dal’aula».

Ricordo bene la voce di Mario Casanova, che per decenni, come annota il Dizionario storico della Svizzera, fu “la voce” dell’informazione. Al di là di tante vicende, internazionali e locali, rammento come se fosse ieri il primo volo di un uomo nello spazio – Jurij Gagarin, 12 aprile 1961, avevo otto anni – o gli ultimi giorni di Palmiro Togliatti, nell’estate del 1964. Ero a Someo, dai nonni, per un periodo insolitamente lungo. Mio nonno, socialista, seguì con apprensione il decorso del Migliore verso la morte. E io con lui, senza capirci molto, se non la sacralità civica dell’accadimento.

Certo, in quegli anni non c’erano ancora Politica Nuova, settimanale marxista leninista e rivoluzionario dei locali socialisti, che avevano bisticciato coi socialisti storici e tradizionali, e che, per certi versi, diede avvio alla lunga stagione dello sputtanamento del potere politico e della sua messa alla berlina non stop. E non c’erano neanche la Lega dei ticinesi e il domenicale gratuito Il mattino della domenica, che formalmente non è l’organo della Lega, benché ne rappresenti il piedistallo elettorale e la linea politica. In mezzo, tra i due e tanti altri, non c’erano ancora stati Silvio Berlusconi, l’Unto del Signore, e le numerose derive tanto o poco scellerate.

Brenno Bertoni - Il Frassineto COPERTINAPer dirla tutta: sono nato e cresciuto in un contesto culturale un poco diverso, che magari si serviva del Frassineto, il famoso testo di educazione civica di Brenno Bertoni del 1933, «Unico testo approvato dal Dipartimento della Pubblica Educazione», ma che offriva ancora qualche solido punto di riferimento, anche se legittimamente soggettivo.

Tuttavia se un Ministro della Repubblica invita a non leggere le sue risposte qualora possano infastidire, non so proprio più cosa pensare.

Dovrò scegliere: piangere e disperarmi oppure, in linea perfetta coi tempi che viviamo, scrollare il capo e lasciarmi andare a un’enorme risata?

Forse mi converrà continuare come prima. E se a qualcuno verrà qualche prurito, che se lo gratti.

Parigi e gli attacchi del 13 novembre

Devo due parole di spiegazione in entrata, sennò ci sarà chi mi biasimerà con l’accusa di occuparmi di politica, mentre la scuola non ha nulla a che fare con la politica. Dissento, ovvio. Ho sempre detto e scritto che la pedagogia è ideologica. Ritengo inoltre, benché sembri banale ribadirlo, che non solo la scuola e la famiglia educhino, anzi.

Nei giorni degli attacchi del 13 novembre a Parigi se ne sono lette e viste tante. Ripropongo qui due riflessioni che mi sono piaciute molto – e, naturalmente, non sono le uniche: chissà quante me ne sono sfuggite.

La prima è di un comico, Maurizio Crozza. La sua copertina del talk show di Giovanni Floris dello scorso 17 novembre (DiMartedì su La7) è amaramente comica. Con un francese maccheronico – ma l’importante è capirsi – l’ha intitolata Je suis un cretin totalment brancolant dans la nuit.

Ha detto, tra le altre cose, che a gennaio, dopo la strage di Charlie Hébdo, te la potevi cavare con un «Je suis Charlie». Adesso sulle magliette cosa ci scriviamo? Je suis Paris? Sì, però due giorni prima c’è stato un attentato in Libano, 44 vittime e 239 feriti. Quindi bisogna anche scriverci «Je suis Beirut». E dieci giorni prima era esploso un aereo sul Sinai, 224 morti, per cui bisogna aggiungerci anche «Airbus 321 avec les touristes russes».

Cioè: se qualcosa accade a Parigi, giustamente ci sentiamo tutti coinvolti. Se accade sul Sinai, meno, quasi nulla. Quanto deve essere vicina una barbarie perché ci colpisca come esseri umani? Cioè: piangiamo solo le città di cui abbiamo un souvenir attaccato sul frigo?

La verità è che l’unica maglietta che mi sentirei bene addosso è Je suis un cretin total, brancolant dans la nuit, un perfetto cretino che brancola nel buio. Qualcuno parla di guerra di religione. Ma a Beirut i terroristi erano mussulmani e hanno ucciso altri mussulmani. E allora? E allora io non lo so.

Alle volte invidio chi ha le idee chiare. Poi mi accorgo che chi le ha è gente come Gasparri, Belpietro e Salvini. E mi dico: ma sai che forse essere un cretin che brancola nella nuit non è mal pour moi? Il giorno dopo gli attentati, «Libero» di Belpietro titolava «Bastardi islamici»; Gasparri ha scritto: «Radiamo al suolo lo stato islamico»; e Salvini ha detto «Il terrorismo va bombardato».

Io sarò anche un cretin dans la nuit, ma loro sono dei cretin anche in pieno jour.

In effetti bombardare tutti è una soluzione: non nuovissima. Perché dopo l’11 settembre l’abbiamo fatto. E oggi in Afghanistan i talebani controllano molto più territorio di quello che avevano quindici anni fa. E il terrorismo nel mondo è più forte di prima.

Ma io sono un cretin. Brancolo.

So solo che coi nostri bombardamenti sono stati uccisi un milione di civili iracheni, 220 mila civili afghani e 80 mila civili pachistani. Più che una guerra di civiltà per ora è stata una riuscitissima guerra ai civili. E quella, secondo me, l’abbiamo già vinta. Ma sbaglio o adesso stiamo per rifare la stessa cosa?

E no, io sbaglio, je suis totalement cretin.


La seconda riflessione, pubblicata su La Regione del 18 novembre, è una lucida riflessione di Dick Marty: e non sembri irriverente l’accostamento.  Si intitola Tragico tranello. Per chi non avesse il tempo o la voglia di leggerselo interamente, eccone la  conclusione:

Il dibattito politico, come inteso oggi, appare purtroppo poco idoneo ad atteggiamenti di fredda analisi e di scelte razionali. La tentazione di capitalizzare consensi facendo leva sulle emozioni e la paura è grande. Poche ore dopo la strage di Parigi c’era già chi era all’opera in tal senso. Oltre alla repressione, necessariamente rigorosa, occorre anche agire a livello di prevenzione, ricercare e capire cioè i motivi che contribuiscono a scatenare gesti talmente disumani e indurre giovani a farsi saltare in aria per meglio uccidere altri a loro totalmente estranei. I terroristi finora identificati sono nati e cresciuti in Europa, spesso in zone gravemente trascurate dalle istituzioni e caduti nelle maglie di predicatori dell’odio, un odio e un’ideologia alimentati anche dalle ingiustizie commesse nei confronti del mondo arabo e dalla tragedia palestinese tuttora irrisolta, non senza responsabilità occidentali. Questo non giustifica niente, sia ben chiaro, ma dovrebbe almeno indurci a riflettere per definire risposte più adeguate. La stragrande maggioranza dei musulmani non si riconosce per niente in questi criminali. La reazione a questo terrorismo deve fondarsi pertanto su di un’alleanza con il mondo musulmano.

Nel generale schiamazzo politico, massmediatico, bombarolo e di pancia, converrebbe davvero lasciarsi alle spalle il proprio ticinocentrismo e provare a pensare. Già il tentativo sarebbe di per sé un bel segnale.

Giorno dopo giorno gli insegnanti accolgono nelle nostre aule schiere di bambini, ragazzi e giovani, che naturalmente han sentito parlare del 13 novembre parigino e di tutte le complessità storiche e politiche che l’accompagnano. E quasi certamente sono portatori delle interpretazioni ascoltate dai grandi, spesso senza mediazione alcuna.

Non sarebbe male riprendere in classe questi temi, magari senza bisogno di organizzare chissà quali itinerari didattici: in fondo basterebbe mettere in dubbio qualche certezza. Perché, come ha scritto una volta Umberto Eco in un suo articolo sul “Corriere della Sera”, è importante imparare a confondersi le idee fin da piccoli, per avere le idee in chiaro da grandi (citazione a memoria, purtroppo: ma anche se non l’avesse scritto è comunque un bel trattatello di pedagogia).

Anche questa sarebbe educazione civica.

Schtrunk!

Avevo concluso «A cosa potrà mai servire proporre Ovidio a ragazzini di dieci anni?» con toni tra l’apocalittico e l’ironico, mettendo insieme una celebre battuta di Fantozzi e l’attualità della scuola dell’obbligo. Sempre più spesso, avevo scritto, sono lì lì per spararla grossa e parafrasare il Fantozzi Rag. Ugo: «Per me… La scuola dell’obbligo…». Mi ero fermato lì, per evitare ruzzoloni scatologici. Un lettore del mio blog ha però voluto commentare, frugando in YouTube: 92 minuti di applausi.

Nella sua rubrica settimanale su Il Caffè del 27 settembre 2015, Renato Martinoni ha citato un bell’articolo che Pier Paolo Pasolini aveva pubblicato sul Corriere della Sera nel 1975. Martinoni fa sua, nel titolo e pur con gli inevitabili e necessari distinguo, la duplice proposta pasoliniana di quarant’anni fa: Abolire la scuola e oscurare la tivù – un titolo che, per certi versi e da altri punti di vista, fa il paio con quella mia conclusione, un poco sovversiva, dell’articolo appena citato.

Non conoscevo questo articolo di Pasolini, di grande interesse, che si può leggere nell’archivio del Corriere della Sera (oppure lo si può recuperare qui).

Pier Paolo Pasolini al Festival del Film di Locarno del 1973 (la foto è mia).
Pier Paolo Pasolini al Festival del Film di Locarno del 1973 (la foto è mia).

L’anno precedente questo grande intellettuale – poeta, scrittore, regista, sceneggiatore, drammaturgo, editorialista e giornalista: ma la «definizione» è perfino riduttiva – aveva pubblicato uno «Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia», sempre sul Corriere della sera (10 giugno 1974, col titolo «Gli italiani non sono più quelli»), completato il mese dopo (11 luglio 1974) con «Ampliamento del “bozzetto” sulla rivoluzione antropologica in Italia», apparso sul settimanale politico «Il Mondo» sottoforma di intervista a Guido Vergani. Tra l’altro ne avevo parlato in un precedente articolo: Di competenze, conoscenze, valutazioni e regole del gioco.

Entrambi gli scritti sono stati pubblicati nel bel volume Scritti corsari: ho l’edizione dell’editore Garzanti del 1975; lo stesso editore ha nuovamente dato alle stampe il volume nel gennaio del 2015. È una raccolta di articoli, pubblicati tra il gennaio del 1973 e il febbraio del 1975, che bisognerebbe conoscere, anche perché sono anni che hanno profondamente marchiato l’Occidente e la scuola, non solo quella dell’obbligo.

Ai tempi della mia formazione professionale, alla Magistrale ancora seminariale, avevo intuito che la scuola è un Apparato Ideologico di Stato. Il mio insegnante di pedagogia era partito da Louis Althusser, il filosofo francese attivo negli anni di Claude Lévi-Strauss e di Michel Foucault. La scuola, secondo questa teoria, è uno strumento dello Stato per educare il popolo piegandolo all’ideologia dominante, a braccetto con le chiese, le università, i sindacati e i partiti politici. Mi scuso per la sintesi estrema, che naturalmente non rende giustizia al professor Althusser, e neanche al mio insegnante di pedagogia.

Oggi il quadro sembra più complesso.

Se sfoglio i Programmi per le scuole obbligatorie del Cantone Ticino del 1959 il progetto dello Stato per l’educazione dei futuri cittadini è chiaro e lineare. I Programmi per scuola elementare del 1984, invece, risentono già di quel «politicamente corretto» che sarebbe diventato più famoso qualche anno dopo, tanto che si incontrano i primi eccessi di pedagogismo, il progetto educativo si annacqua d’un certo universalismo di maniera – più cittadini del mondo che attori consapevoli in loco, almeno, umilmente, come punto di partenza – e i contenuti dell’istruzione sono attenti al massimo grado di neutralità ed equidistanza. Insomma: se nel 1959 si poteva ancora leggere che «A suscitare amore per la patria e per le sue istituzioni devono contribuire tutte le discipline scolastiche e le manifestazioni patriottiche», nel 1984 di “patri” restano solo i patriziati e il patrimonio.

Sin dalle prime righe dei programmi dell’84 si legge che «Nulla (…) di ciò che costituisce l’umanità della persona può essere trascurato nella formazione scolastica: essa favorirà lo sviluppo del pensiero, dei sentimenti, del corpo dell’allievo: lo introdurrà a una cultura che gli permetta di partecipare pienamente alla vita sociale; formerà in lui responsabilità e senso civico, la coscienza dei legami che ci uniscono agli altri e l’impegno morale». Ma ritrovare questa dichiarazione d’intenti nel corpus dei programmi è difficile.

Per giungere all’attualità più stretta, sono in arrivo i nuovi piani di studio della scuola dell’obbligo, che nascono in un contesto globalizzato mondialmente e (H)armonizzato(S) a livello svizzero. Sarà interessante vedere come sarà la Scuola che verrà, che passerà proprio, in prima istanza, da questi corposi nuovi piano di studio.

Io, che sono più vicino alle idee di scuola di un Célestin Freinet, di un Don Milani, di un Pestalozzi o di un Lombardo-Radice, faccio fatica a capire il progetto di questa scuola che perde un sacco di tempo in verifiche, tempo sottratto all’insegnamento, e che, senza dichiararlo schiettamente, è divenuta utilitarista a oltranza. Chi sia a dettare l’agenda scolastica allo Stato non è chiaro, e già questo dovrebbe costituire un motivo di apprensione.

Il che porta a chiedersi: dov’è finito il tanto vituperato Apparato Ideologico di Stato, benché le analisi marxiane non siano più di moda? Chi tiene le briglie dell’Educazione dei futuri cittadini? Magari la scuola di oggi è proprio quella che vuole la gente: più democratico di così, insomma, si muore. Si può reclamare tutto e il contrario di tutto e la politica è lì, pronta a cavalcare tutto e il contrario di tutto. Solitamente senza neanche arrossire.

Va da sé che non sono un fautore dell’illustre benevolent dictator, del dittatore illuminato; ma faccio fatica a capire perché, in pochi anni, e attraverso un movimento di sinistra com’è stato il Sessantotto, si sia arrivati a questa società così poco umana e umanista, a questo contesto sociale dominato dalla competitività più spinta e da una marea di procedure alienanti e frustranti, da una scuola selettivissima, che, al contempo, illude le persone con la balla delle pari opportunità. Ma non si sa a chi dare la colpa, non si conosce l’avversario politico, non è possibile preparare una strategia politica per combattere. Il muro è sempre più gommoso e attaccaticcio. Tutto sembrerebbe iniziato con Margaret Thatcher e Ronald Reagan, non propriamente dei politici di sinistra.

Così, visto che mi piace prendere a prestito comici e artisti del passato, sento il bisogno, per concludere, di rubare le parole a quell’indimenticabile personaggio di Charlie Chaplin che è Adenoid Hynkel: democracy schtrunk, liberty schtrunk, freesprächen schtrunk.

Educazione schtrunk.

La scuola che verrà tra idioti specializzati e cittadini educati

A poche settimane dal lancio del progetto dipartimentale «La scuola che verrà», che mira a un riesame di tutta la scuola obbligatoria, con l’intento di migliorarla e cambiarla, ecco una nuova proposta, non certo estemporanea, pubblicata su «Il Caffè» dell’8 marzo da Renato Martinoni, professore ordinario di letteratura italiana nell’università di San Gallo. «I programmi scolastici sono troppo carichi», ha scritto; ciò nondimeno «c’è una materia che manca troppo spesso e che andrebbe introdotta con più forza nelle scuole: l’economia».

È difficile non essere d’accordo, tanto che, al di là di alcune sottigliezze, si sono già espressi favorevolmente alcuni autorevoli economisti, come pure l’attuale ministro dell’educazione. L’economia, come nuova disciplina scolastica, farebbe parte delle materie fondate sul sapere, come la biologia, la fisica e la chimica, la matematica, la letteratura, la storia e la geografia, l’informatica, la lingua materna e le lingue seconde. Analogamente, accanto all’economia, si potrebbe sollecitare l’insegnamento della psicologia e della psicanalisi, della sociologia, delle scienze politiche, del diritto, dell’architettura e dell’urbanistica, tutte discipline altrettanto importanti. La scuola, però, ha le sue definizioni. Ecco allora, per sovrapprezzo, una serie di «educazioni», che solo in apparenza sembrano più sfumate: educazione musicale, fisica, artistica, civica, sessuale, interculturale, religiosa, stradale, morale; eppoi l’educazione ai mass-media, alla salute, allo sviluppo sostenibile, al non sessismo e via elencando. A questo punto dovrebbe essere chiaro che tra il dire e il fare c’è di mezzo ben più del mare. Perché poi, dietro ogni denominazione, ci sono dei contenuti da scegliere. Aggiungerei che, in linea generale, la scuola pubblica e obbligatoria, che non è un semplice corso specifico per imparare l’origami o realizzare un bonsai, vuole educare cittadini consapevoli. È evidente che tra insegnare e educare c’è una differenza abissale, che obbliga a scelte precise, di contenuti, di metodi e di ambiente pedagogico.

Così, tra le tante proposte e i tanti proclami che si sentono in giro, prediligo quello della filosofa e docente Lina Bertola, che dalle colonne della «Regione» ha gridato il suo «Il re è nudo», proprio come il bimbetto della favola di Andersen: «Il senso e il valore della scuola non si misurano sulla quantità di saperi utili e immediatamente spendibili che è in grado di offrire. Perché la scuola è un’altra cosa, è un’esperienza di senso. Rispetto alla simultaneità e ubiquità di un sapere/informazione immediatamente spendibile, fuori dal tempo, l’esperienza della conoscenza, a scuola, è stare nel tempo: stare nel tempo dell’ignoranza che ti apre alle domande, nel tempo della bellezza che nutre il contatto con sé stessi, nell’incontro con la conoscenza e il tempo dell’inutilità, di ciò che è bello e buono e vero, e trattiene in sé il suo senso». Sono almeno cinquant’anni che non ci chiniamo più sul senso fondatore della nostra scuola dell’obbligo, sulla sua ragion d’essere. Ora è tempo. Alle questioni economiche penseremo poi. Perché l’educazione non può fare a meno della conoscenza, ma di idioti specializzati ce n’è già in giro a sufficienza. Per difendere e consolidare la democrazia serve l’educazione, non un ammasso di nozioni, magari messe lì alla rinfusa, a seconda dei bisogni fugaci del momento.

[Qui il testo dell’articolo di Lina Bertola: Il senso della scuola, La Regione Ticino del 26 marzo 2015].

La politica scolastica ai tempi della campagna elettorale

Mi devo scusare con gli amici che mi seguono senza risiedere in questa minuscola repubblica che si chiama Canton Ticino, 350 mila anime, compresi minorenni e stranieri, che quando fanno politica sembrano gli USA o i più blasonati paesi europei. Mi devo scusare con loro, dicevo, perché oggi voglio parlare della campagna elettorale in vista del rinnovo dei poteri cantonali, che si concluderà domenica 19 aprile. E vada come deve andare, o come può.

Da quand’ero un ragazzino fino alla maggiore età ho vissuto un Consiglio di Stato con due liberali radicali, due popolari democratici (democristiani, per chi non vive qui) e un socialista (socialdemocratico). Nel 1987 avvenne il primo terremoto: i due principali partiti socialisti – quello tradizionale, socialdemocratico, e quell’altro marxista leninista e pure rivoluzionario, nato da una scissione nel 1969 – conquistarono due seggi in governo, a scapito dei democristiani. Quest’ultimi avrebbero riconquistato il seggio nel quadriennio successivo, ma già nel ’95 l’avrebbero ceduto alla Lega dei Ticinesi, “movimento” nato nel 1991, chiaramente ispirato dalle Lega lombarda.

Quattro anni fa il popolo sancì un Consiglio di Stato a maggioranza leghista (due ministri), con un liberale radicale, un democristiano e un socialista a reggere le sorti esecutive della repubblica. Oltre a ciò il minimo di gruppi parlamentari per fare maggioranza assoluta è passato da due a tre.

Transeat su cosa è e non è successo durante questo disgraziato quadriennio, una specie di ininterrotta campagna elettorale. Ma, guardandoci attorno, potremmo dire di appartenere all’Europa, pur essendo la Svizzera un paese “extra-comunitario”.

Così fra un paio di settimane cambierà tutto (ehm ehm). O forse nulla, indipendentemente da chi “vincerà” (di solito vincono tutti) e da chi “perderà” (rara avis).

Mi ha sempre colpito il fatto che, un po’ dappertutto, le campagne elettorali siano centrate sugli esecutivi – nel nostro caso il Consiglio di Stato – benché, secondo la teoria che t’insegnano anche a scuola, il Legislativo sia più importante (ah, l’educazione civica!). Così succede assai spesso che vi siano frizioni di fondo tra Esecutivo e Legislativo. E che in questo consesso non siano eletti i migliori, quelli politicamente più profilati e, perché no?, più competenti. Invece no, sempre più finiscono in parlamento i più utili ai maggiorenti, i più flessibili e quelli che meglio azzeccano la vendita di sé stessi.

Cicerone al senato romano
Cicerone al senato romano

Dieci partiti in lizza (13 per il Gran consiglio), 41 ministri in pectore, 624 potenziali parlamentari: una manna per tipografi e fornitori di gadget. Un tormento per chi, come me, dovrà scegliere a chi dare la preferenza. Malgrado l’esiguità del paese, personalmente conosco davvero pochi candidati. Di questi pochi, una buona maggioranza non li voterò, un po’ proprio perché li conosco, un altro po’ perché l’amicizia è una cosa e la politica, a volte, un’altra. Poi bisogna cercare di farsene un’idea, seguendo qualche dibattito, leggendo qualche articolo: sempre con la precauzione che il periodo è assai fertile per le imposture, le più improbabili fanfaluche e le ipocrisie equivoche e untuose.

Va da sé che alcune idee me le faccio leggendo ciò che si scrive a proposito della scuola, della formazione e dell’educazione. Si è parlato molto del progetto dipartimentale «La scuola che verrà», che annovera, tra i difetti più cospicui, il momento in cui è stato presentato (metà dicembre dello scorso anno). Ho ascoltato una sera il ministro Manuele Bertoli durante un dibattito in TV. Li aveva tutti contro, o quasi. Le elucubrazioni attorno a questo progetto sono tante. Non può stupire l’interpretazione pretestuosa, cavalcata da tanti candidati con reggicoda al seguito, secondo cui questa riforma abbasserebbe irrimediabilmente il livello della scuola dell’obbligo. La difesa televisiva del ministro mi è sembrata onesta e convinta. Mi sembra più in chiaro lui, da politico, di qualche suo funzionario al dipartimento. Come ha bene osservato la filosofa Lina Bertola (La Regione Ticino del 26 marzo), come e attraverso cosa realizzare la riforma ha largamente soffocato la riflessione sul senso profondo della scuola. Ma di ciò parlerò prossimamente e in maniera più mirata.

Qui mi piace invece segnalare uno scritto onesto e decisamente fuori dal coro delle tante prefiche che sparano ad alzo zero sulla scuola che verrà, forse perché è maturata col primo ministro socialista dell’educazione dopo tanti decenni, o forse perché si immagina che la maggior parte degli elettori voglia sentirsi dire quelle cose lì. Si tratta di un breve scritto di Nicola Pini, pubblicato su La Regione Ticino del 2 aprile, sotto la rubrica «Il Dibattito», La scuola deve venire. L’impressione che ne ho ricavato è che Pini conosca l’argomento di cui parla e lo faccia con la ragione, del tutto fuori dal gregge.

Nicola Pini è uno di quelli che non conosco personalmente (v. sopra). Non l’ho mai visto, neanche da lontano. Però, dopo aver letto l’articolo citato, mi sono incuriosito. E nel suo sito “elettorale” ho trovato alcune riflessioni interessanti: sul consigliere federale Georges-André Chevallaz (1915-2002) e sull’utilità di una formazione umanista in campo tecnico; su Norberto Bobbio; sulla discesa in campo di Silvio Berlusconi. E altre.