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Schtrunk!

Avevo concluso «A cosa potrà mai servire proporre Ovidio a ragazzini di dieci anni?» con toni tra l’apocalittico e l’ironico, mettendo insieme una celebre battuta di Fantozzi e l’attualità della scuola dell’obbligo. Sempre più spesso, avevo scritto, sono lì lì per spararla grossa e parafrasare il Fantozzi Rag. Ugo: «Per me… La scuola dell’obbligo…». Mi ero fermato lì, per evitare ruzzoloni scatologici. Un lettore del mio blog ha però voluto commentare, frugando in YouTube: 92 minuti di applausi.

Nella sua rubrica settimanale su Il Caffè del 27 settembre 2015, Renato Martinoni ha citato un bell’articolo che Pier Paolo Pasolini aveva pubblicato sul Corriere della Sera nel 1975. Martinoni fa sua, nel titolo e pur con gli inevitabili e necessari distinguo, la duplice proposta pasoliniana di quarant’anni fa: Abolire la scuola e oscurare la tivù – un titolo che, per certi versi e da altri punti di vista, fa il paio con quella mia conclusione, un poco sovversiva, dell’articolo appena citato.

Non conoscevo questo articolo di Pasolini, di grande interesse, che si può leggere nell’archivio del Corriere della Sera (oppure lo si può recuperare qui).

Pier Paolo Pasolini al Festival del Film di Locarno del 1973 (la foto è mia).
Pier Paolo Pasolini al Festival del Film di Locarno del 1973 (la foto è mia).

L’anno precedente questo grande intellettuale – poeta, scrittore, regista, sceneggiatore, drammaturgo, editorialista e giornalista: ma la «definizione» è perfino riduttiva – aveva pubblicato uno «Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia», sempre sul Corriere della sera (10 giugno 1974, col titolo «Gli italiani non sono più quelli»), completato il mese dopo (11 luglio 1974) con «Ampliamento del “bozzetto” sulla rivoluzione antropologica in Italia», apparso sul settimanale politico «Il Mondo» sottoforma di intervista a Guido Vergani. Tra l’altro ne avevo parlato in un precedente articolo: Di competenze, conoscenze, valutazioni e regole del gioco.

Entrambi gli scritti sono stati pubblicati nel bel volume Scritti corsari: ho l’edizione dell’editore Garzanti del 1975; lo stesso editore ha nuovamente dato alle stampe il volume nel gennaio del 2015. È una raccolta di articoli, pubblicati tra il gennaio del 1973 e il febbraio del 1975, che bisognerebbe conoscere, anche perché sono anni che hanno profondamente marchiato l’Occidente e la scuola, non solo quella dell’obbligo.

Ai tempi della mia formazione professionale, alla Magistrale ancora seminariale, avevo intuito che la scuola è un Apparato Ideologico di Stato. Il mio insegnante di pedagogia era partito da Louis Althusser, il filosofo francese attivo negli anni di Claude Lévi-Strauss e di Michel Foucault. La scuola, secondo questa teoria, è uno strumento dello Stato per educare il popolo piegandolo all’ideologia dominante, a braccetto con le chiese, le università, i sindacati e i partiti politici. Mi scuso per la sintesi estrema, che naturalmente non rende giustizia al professor Althusser, e neanche al mio insegnante di pedagogia.

Oggi il quadro sembra più complesso.

Se sfoglio i Programmi per le scuole obbligatorie del Cantone Ticino del 1959 il progetto dello Stato per l’educazione dei futuri cittadini è chiaro e lineare. I Programmi per scuola elementare del 1984, invece, risentono già di quel «politicamente corretto» che sarebbe diventato più famoso qualche anno dopo, tanto che si incontrano i primi eccessi di pedagogismo, il progetto educativo si annacqua d’un certo universalismo di maniera – più cittadini del mondo che attori consapevoli in loco, almeno, umilmente, come punto di partenza – e i contenuti dell’istruzione sono attenti al massimo grado di neutralità ed equidistanza. Insomma: se nel 1959 si poteva ancora leggere che «A suscitare amore per la patria e per le sue istituzioni devono contribuire tutte le discipline scolastiche e le manifestazioni patriottiche», nel 1984 di “patri” restano solo i patriziati e il patrimonio.

Sin dalle prime righe dei programmi dell’84 si legge che «Nulla (…) di ciò che costituisce l’umanità della persona può essere trascurato nella formazione scolastica: essa favorirà lo sviluppo del pensiero, dei sentimenti, del corpo dell’allievo: lo introdurrà a una cultura che gli permetta di partecipare pienamente alla vita sociale; formerà in lui responsabilità e senso civico, la coscienza dei legami che ci uniscono agli altri e l’impegno morale». Ma ritrovare questa dichiarazione d’intenti nel corpus dei programmi è difficile.

Per giungere all’attualità più stretta, sono in arrivo i nuovi piani di studio della scuola dell’obbligo, che nascono in un contesto globalizzato mondialmente e (H)armonizzato(S) a livello svizzero. Sarà interessante vedere come sarà la Scuola che verrà, che passerà proprio, in prima istanza, da questi corposi nuovi piano di studio.

Io, che sono più vicino alle idee di scuola di un Célestin Freinet, di un Don Milani, di un Pestalozzi o di un Lombardo-Radice, faccio fatica a capire il progetto di questa scuola che perde un sacco di tempo in verifiche, tempo sottratto all’insegnamento, e che, senza dichiararlo schiettamente, è divenuta utilitarista a oltranza. Chi sia a dettare l’agenda scolastica allo Stato non è chiaro, e già questo dovrebbe costituire un motivo di apprensione.

Il che porta a chiedersi: dov’è finito il tanto vituperato Apparato Ideologico di Stato, benché le analisi marxiane non siano più di moda? Chi tiene le briglie dell’Educazione dei futuri cittadini? Magari la scuola di oggi è proprio quella che vuole la gente: più democratico di così, insomma, si muore. Si può reclamare tutto e il contrario di tutto e la politica è lì, pronta a cavalcare tutto e il contrario di tutto. Solitamente senza neanche arrossire.

Va da sé che non sono un fautore dell’illustre benevolent dictator, del dittatore illuminato; ma faccio fatica a capire perché, in pochi anni, e attraverso un movimento di sinistra com’è stato il Sessantotto, si sia arrivati a questa società così poco umana e umanista, a questo contesto sociale dominato dalla competitività più spinta e da una marea di procedure alienanti e frustranti, da una scuola selettivissima, che, al contempo, illude le persone con la balla delle pari opportunità. Ma non si sa a chi dare la colpa, non si conosce l’avversario politico, non è possibile preparare una strategia politica per combattere. Il muro è sempre più gommoso e attaccaticcio. Tutto sembrerebbe iniziato con Margaret Thatcher e Ronald Reagan, non propriamente dei politici di sinistra.

Così, visto che mi piace prendere a prestito comici e artisti del passato, sento il bisogno, per concludere, di rubare le parole a quell’indimenticabile personaggio di Charlie Chaplin che è Adenoid Hynkel: democracy schtrunk, liberty schtrunk, freesprächen schtrunk.

Educazione schtrunk.

La scuola che verrà tra idioti specializzati e cittadini educati

A poche settimane dal lancio del progetto dipartimentale «La scuola che verrà», che mira a un riesame di tutta la scuola obbligatoria, con l’intento di migliorarla e cambiarla, ecco una nuova proposta, non certo estemporanea, pubblicata su «Il Caffè» dell’8 marzo da Renato Martinoni, professore ordinario di letteratura italiana nell’università di San Gallo. «I programmi scolastici sono troppo carichi», ha scritto; ciò nondimeno «c’è una materia che manca troppo spesso e che andrebbe introdotta con più forza nelle scuole: l’economia».

È difficile non essere d’accordo, tanto che, al di là di alcune sottigliezze, si sono già espressi favorevolmente alcuni autorevoli economisti, come pure l’attuale ministro dell’educazione. L’economia, come nuova disciplina scolastica, farebbe parte delle materie fondate sul sapere, come la biologia, la fisica e la chimica, la matematica, la letteratura, la storia e la geografia, l’informatica, la lingua materna e le lingue seconde. Analogamente, accanto all’economia, si potrebbe sollecitare l’insegnamento della psicologia e della psicanalisi, della sociologia, delle scienze politiche, del diritto, dell’architettura e dell’urbanistica, tutte discipline altrettanto importanti. La scuola, però, ha le sue definizioni. Ecco allora, per sovrapprezzo, una serie di «educazioni», che solo in apparenza sembrano più sfumate: educazione musicale, fisica, artistica, civica, sessuale, interculturale, religiosa, stradale, morale; eppoi l’educazione ai mass-media, alla salute, allo sviluppo sostenibile, al non sessismo e via elencando. A questo punto dovrebbe essere chiaro che tra il dire e il fare c’è di mezzo ben più del mare. Perché poi, dietro ogni denominazione, ci sono dei contenuti da scegliere. Aggiungerei che, in linea generale, la scuola pubblica e obbligatoria, che non è un semplice corso specifico per imparare l’origami o realizzare un bonsai, vuole educare cittadini consapevoli. È evidente che tra insegnare e educare c’è una differenza abissale, che obbliga a scelte precise, di contenuti, di metodi e di ambiente pedagogico.

Così, tra le tante proposte e i tanti proclami che si sentono in giro, prediligo quello della filosofa e docente Lina Bertola, che dalle colonne della «Regione» ha gridato il suo «Il re è nudo», proprio come il bimbetto della favola di Andersen: «Il senso e il valore della scuola non si misurano sulla quantità di saperi utili e immediatamente spendibili che è in grado di offrire. Perché la scuola è un’altra cosa, è un’esperienza di senso. Rispetto alla simultaneità e ubiquità di un sapere/informazione immediatamente spendibile, fuori dal tempo, l’esperienza della conoscenza, a scuola, è stare nel tempo: stare nel tempo dell’ignoranza che ti apre alle domande, nel tempo della bellezza che nutre il contatto con sé stessi, nell’incontro con la conoscenza e il tempo dell’inutilità, di ciò che è bello e buono e vero, e trattiene in sé il suo senso». Sono almeno cinquant’anni che non ci chiniamo più sul senso fondatore della nostra scuola dell’obbligo, sulla sua ragion d’essere. Ora è tempo. Alle questioni economiche penseremo poi. Perché l’educazione non può fare a meno della conoscenza, ma di idioti specializzati ce n’è già in giro a sufficienza. Per difendere e consolidare la democrazia serve l’educazione, non un ammasso di nozioni, magari messe lì alla rinfusa, a seconda dei bisogni fugaci del momento.

[Qui il testo dell’articolo di Lina Bertola: Il senso della scuola, La Regione Ticino del 26 marzo 2015].

La politica scolastica ai tempi della campagna elettorale

Mi devo scusare con gli amici che mi seguono senza risiedere in questa minuscola repubblica che si chiama Canton Ticino, 350 mila anime, compresi minorenni e stranieri, che quando fanno politica sembrano gli USA o i più blasonati paesi europei. Mi devo scusare con loro, dicevo, perché oggi voglio parlare della campagna elettorale in vista del rinnovo dei poteri cantonali, che si concluderà domenica 19 aprile. E vada come deve andare, o come può.

Da quand’ero un ragazzino fino alla maggiore età ho vissuto un Consiglio di Stato con due liberali radicali, due popolari democratici (democristiani, per chi non vive qui) e un socialista (socialdemocratico). Nel 1987 avvenne il primo terremoto: i due principali partiti socialisti – quello tradizionale, socialdemocratico, e quell’altro marxista leninista e pure rivoluzionario, nato da una scissione nel 1969 – conquistarono due seggi in governo, a scapito dei democristiani. Quest’ultimi avrebbero riconquistato il seggio nel quadriennio successivo, ma già nel ’95 l’avrebbero ceduto alla Lega dei Ticinesi, “movimento” nato nel 1991, chiaramente ispirato dalle Lega lombarda.

Quattro anni fa il popolo sancì un Consiglio di Stato a maggioranza leghista (due ministri), con un liberale radicale, un democristiano e un socialista a reggere le sorti esecutive della repubblica. Oltre a ciò il minimo di gruppi parlamentari per fare maggioranza assoluta è passato da due a tre.

Transeat su cosa è e non è successo durante questo disgraziato quadriennio, una specie di ininterrotta campagna elettorale. Ma, guardandoci attorno, potremmo dire di appartenere all’Europa, pur essendo la Svizzera un paese “extra-comunitario”.

Così fra un paio di settimane cambierà tutto (ehm ehm). O forse nulla, indipendentemente da chi “vincerà” (di solito vincono tutti) e da chi “perderà” (rara avis).

Mi ha sempre colpito il fatto che, un po’ dappertutto, le campagne elettorali siano centrate sugli esecutivi – nel nostro caso il Consiglio di Stato – benché, secondo la teoria che t’insegnano anche a scuola, il Legislativo sia più importante (ah, l’educazione civica!). Così succede assai spesso che vi siano frizioni di fondo tra Esecutivo e Legislativo. E che in questo consesso non siano eletti i migliori, quelli politicamente più profilati e, perché no?, più competenti. Invece no, sempre più finiscono in parlamento i più utili ai maggiorenti, i più flessibili e quelli che meglio azzeccano la vendita di sé stessi.

Cicerone al senato romano
Cicerone al senato romano

Dieci partiti in lizza (13 per il Gran consiglio), 41 ministri in pectore, 624 potenziali parlamentari: una manna per tipografi e fornitori di gadget. Un tormento per chi, come me, dovrà scegliere a chi dare la preferenza. Malgrado l’esiguità del paese, personalmente conosco davvero pochi candidati. Di questi pochi, una buona maggioranza non li voterò, un po’ proprio perché li conosco, un altro po’ perché l’amicizia è una cosa e la politica, a volte, un’altra. Poi bisogna cercare di farsene un’idea, seguendo qualche dibattito, leggendo qualche articolo: sempre con la precauzione che il periodo è assai fertile per le imposture, le più improbabili fanfaluche e le ipocrisie equivoche e untuose.

Va da sé che alcune idee me le faccio leggendo ciò che si scrive a proposito della scuola, della formazione e dell’educazione. Si è parlato molto del progetto dipartimentale «La scuola che verrà», che annovera, tra i difetti più cospicui, il momento in cui è stato presentato (metà dicembre dello scorso anno). Ho ascoltato una sera il ministro Manuele Bertoli durante un dibattito in TV. Li aveva tutti contro, o quasi. Le elucubrazioni attorno a questo progetto sono tante. Non può stupire l’interpretazione pretestuosa, cavalcata da tanti candidati con reggicoda al seguito, secondo cui questa riforma abbasserebbe irrimediabilmente il livello della scuola dell’obbligo. La difesa televisiva del ministro mi è sembrata onesta e convinta. Mi sembra più in chiaro lui, da politico, di qualche suo funzionario al dipartimento. Come ha bene osservato la filosofa Lina Bertola (La Regione Ticino del 26 marzo), come e attraverso cosa realizzare la riforma ha largamente soffocato la riflessione sul senso profondo della scuola. Ma di ciò parlerò prossimamente e in maniera più mirata.

Qui mi piace invece segnalare uno scritto onesto e decisamente fuori dal coro delle tante prefiche che sparano ad alzo zero sulla scuola che verrà, forse perché è maturata col primo ministro socialista dell’educazione dopo tanti decenni, o forse perché si immagina che la maggior parte degli elettori voglia sentirsi dire quelle cose lì. Si tratta di un breve scritto di Nicola Pini, pubblicato su La Regione Ticino del 2 aprile, sotto la rubrica «Il Dibattito», La scuola deve venire. L’impressione che ne ho ricavato è che Pini conosca l’argomento di cui parla e lo faccia con la ragione, del tutto fuori dal gregge.

Nicola Pini è uno di quelli che non conosco personalmente (v. sopra). Non l’ho mai visto, neanche da lontano. Però, dopo aver letto l’articolo citato, mi sono incuriosito. E nel suo sito “elettorale” ho trovato alcune riflessioni interessanti: sul consigliere federale Georges-André Chevallaz (1915-2002) e sull’utilità di una formazione umanista in campo tecnico; su Norberto Bobbio; sulla discesa in campo di Silvio Berlusconi. E altre.

 

«La buona scuola è innanzi tutto un’idea»

È bello, di tanto in tanto, imbattersi in qualche opinione sulla scuola che sia in grado di sfuggire ai discorsi che s’ispirano alle solite tiritere, in parte conservatrici e in altra parte utilitariste, ma nel complesso attente ai tornaconti individuali o di casta, tanto da rasentare spesso la bugia.

È il caso di un bell’articolo di Ernesto Galli Della Loggia apparso sul Corriere della sera di domenica 8 marzo 2015 con un doppio titolo: La scuola cattiva è questa, in prima pagina, con un rimando diretto alla situazione italiana e alle attuali proposte di riforma, e La visione che manca alla buona scuola a pagina 28.

Lo storico e pubblicista italiano sta alla larga dalla baraonda delle tesi e contro tesi che caratterizzano un po’ dappertutto le pseudo-discussioni sull’istituzione scolastica, ma risale alle sorgenti. Scrive che «La buona scuola non sono le lavagne interattive e non è neppure l’introduzione del coding, la formazione dei programmi telematici; non sono le attrezzature, e al limite – esagero – neppure gli insegnanti. La buona scuola è innanzi tutto un’idea. Un’idea forte di partenza circa ciò a cui la scuola deve servire: cioè del tipo di cittadino – e vorrei dire di più, di persona – che si vuole formare, e dunque del Paese che si vuole così contribuire a costruire».

E ancora: «La scuola – è giunto il momento di ribadirlo – o è un progetto politico nel senso più alto del termine, o non è. Solo a questa condizione essa è ciò che deve essere: non solo un luogo in cui si apprendono nozioni, bensì dove intorno ad alcuni orientamenti culturali di base si formano dei caratteri, delle personalità; dove si costruisce un atteggiamento complessivo nei confronti del mondo, che attraverso il prisma di una miriade di soggettività costituirà poi il volto futuro della società. La scuola, infatti, è ciò che dopo un paio di decenni sarà il Paese: non il suo Prodotto interno lordo, il suo mercato del lavoro: o meglio, anche queste cose ma soprattutto i suoi valori, la sua antropologia, il suo ordito morale, la sua tenuta».

Siamo insomma lontani anni luce dai soliti discorsi che infarciscono le campagne elettorali, quelli con un fervorino agli imprenditori e uno ai sindacati, qualche proposta per risolvere tutto – l’educazione civica, il salmo svizzero, il tablet, le varie “educazioni mirate”… – e tanta, tanta ipocrisia.

Ne tenga conto chi vede volentieri una “nuova e diversa” scuola che verrà e chi, invece, sta facendo di tutto per non lasciarla neanche partire. Nell’uno come nell’altro caso la sostanza delle cose non cambierà.

Naturalmente non m’illudo che, così all’improvviso, chi è nella stanza dei bottoni sia capace di uscire dai percorsi tradizionali (e conservatori). Lo dico dunque così, per scaramanzia. Però, secondo me, ha ragione Galli Della Loggia: la scuola o è un progetto politico nel senso più alto del termine, o non è.

 

[È possibile risalire all’articolo nel sito del Corriere della sera – La scuola cattiva è questa – o scaricarne il testo qui.]

Vivere la cittadinanza, un requisito per poterla imparare

Brutta bestia, l’educazione alla cittadinanza. Più che la matematica e le tante discipline scolastiche, essa esige condizioni di apprendimento che travalicano le quattro mura dell’aula. Per dire che non è sufficiente mandare a memoria le definizioni dei tre poteri dello Stato per esser diventato un cittadino consapevole, uno che contribuisce concretamente alla vita, possibilmente serena e pacifica, del Paese. Il cittadino consapevole lo si riconosce quando compila la dichiarazione delle imposte, quando legge o non legge i quotidiani, e quali legge e cosa legge; lo si capisce quando espone le sue idee sui tanti blog e social network, magari mettendoci la firma; lo si valuta per come rispetta o disprezza le istituzioni.

Se n’è accorta la Francia, all’indomani dei tragici avvenimenti d’inizio gennaio. La République è sicuramente il paese europeo che investe di più in materia di educazione civica. Come ha sottolineato Le Monde, «è il solo paese in cui i corsi di educazione civica figurano nella griglia oraria, dalla scuola elementare al liceo, ed è l’unico ad avere un modello pedagogico tanto completo da unire lezioni, partecipazione degli allievi alla vita del loro istituto e progetti educativi sulla cittadinanza. I programmi spaziano dalle istituzioni della Repubblica e dei suoi valori alle regole della civile convivenza, passando attraverso l’educazione allo sviluppo sostenibile, ai mass media, alla salute, e via di seguito». Questo, almeno, in teoria e sulla carta, come spesso accade. Eppure il primo ministro Manuel Valls ha sentito il dovere di affermare che «la cittadinanza – non parliamo di integrazione, dimentichiamo le parole che non significano nulla – ha bisogno di essere rifatta, rinforzata, legittimata». E, riferendosi alle banlieue, ha aggiunto che in Francia esiste «un’apartheid territoriale, sociale, etnica».

Ma che significa? Cosa c’entra l’apartheid con la scuola e l’educazione alla cittadinanza? Non servono chissà quali sforzi di immaginazione per figurarsi una scuola dell’obbligo di un sobborgo parigino nel quale nessuno è intervenuto per evitare forme estreme di ghettizzazione economica e socioculturale. È anche in quelle scuole che lo Stato repubblicano si gioca la credibilità. Quale educazione civica potrà mai svilupparsi in un quartiere popolare, se la sede scolastica accoglie per lo più ragazzi e adolescenti il cui futuro è bollato dall’emarginazione sin dalla culla? Dove sono l’uguaglianza, la solidarietà e la fratellanza, i grandi valori repubblicani che dovrebbero sostenere il progetto di educazione alla cittadinanza? Per imparare a conoscere i valori della società è necessario crescere in quella società e incontrare giorno dopo giorno i propri concittadini, in un contesto sociale e scolastico immune da ogni forma di segregazione. Anche nel nostro piccolo cantone ci sono istituti scolastici in cui l’esperienza civica quotidiana si fa vieppiù difficile. Certo, la Svizzera e il Ticino non sono la Francia. Ma le vie dell’esclusione e dell’emarginazione sono subdole e solo apparentemente enigmatiche. Forse è giunto il momento, soprattutto a livello di scuola media, di ripensare seriamente almeno due principi costitutivi: quello della massima mescolanza socioculturale e quello delle dimensioni. Perché, guarda te il caso!, più le scuole sono affollate, più la scala sociale s’abbassa. Quando oltre un terzo degli allievi è in difficoltà scolastica e sociale, educare, e non solo alla cittadinanza, diventa un problema.