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Non è vero che l’abito fa il monaco, specialmente a scuola

Il Ministro italiano dell’interno ha proposto l’obbligo di indossare il grembiule a scuola. Non è una notizia che si trova nei siti istituzionali, ma l’ha proclamata durante un comizio: «Diranno che lo faceva anche il Duce. Ma siamo in democrazia, bisogna riportare ordine e disciplina». E poi: «Abbiamo riportato l’educazione civica a scuola, chiederò che venga rimesso anche il grembiulino ai bambini, per evitare che ci sia chi viene con le felpe da 700 euro». Si capisce la voglia di nascondere almeno le diversità di facciata e l’esibizione un po’ cafona. È più difficile capire cosa c’entrino l’educazione civica e la democrazia.

Non è una trovata del tutto originale, e neanche nuovissima. «Ho seguito, su un grande giornale, una piccola polemica», aveva scritto mezzo secolo fa l’indimenticabile Gianni Rodari. «Un noto professore di pedagogia si diceva contrario all’obbligo, per gli scolari, di indossare il grembiulino: la tradizionale uniforme dentro la quale i bambini dovrebbero sentirsi tutti uguali di fronte al maestro, ma che contrasta con la personalità, lo spirito di indipendenza, la libertà dei bambini. Due madri gli rispondevano sottolineando i vantaggi del grembiulino: economia, praticità, igiene, impossibilità (per le bambine specialmente) di fare sfoggio di vanità».

Nel 2006 i delegati del partito radicale svizzero avevano discusso la proposta di generalizzare in tutto il Paese l’introduzione dell’uniforme per scolari e studenti, prendendo spunto dalla trovata di una scuola professionale basilese, che aveva introdotto l’obbligo a titolo sperimentale. L’allora direttore di questo giornale aveva commentato: «La divisa evita il confronto basato sull’esibizione da parte dei più “ricchi” di abiti e scarpe che gli altri non si possono permettere, si disinnescano le tensioni legate alle tenute sempre più provocanti delle ragazze, si favorisce anche sul piano visivo l’integrazione dei giovani immigrati». L’aveva già scritto lo stesso Rodari, in quegli anni attorno al 1970: «Ho chiesto l’opinione dei maestri che conosco. Uno mi ha detto “Se non ci fosse il grembiulino i bambini poveri avrebbero l’umiliazione di mostrare le loro toppe nei pantaloni ai bambini ricchi, vestiti come figurini”. Questo ragionamento non mi convince. La povertà va abolita, non nascosta».

Va abolita anche la deliberata indifferenza alle differenze, che sono culturali, economiche, sociali, linguistiche, religiose, etniche e di genere. Possiamo mettere tutte le divise che vogliamo, ma quando il ragazzino che la indossa prenderà la parola per dire la sua o per argomentare, sarà subito chiaro se ha competenze da 700 euro o da pochi centesimi. La scuola è piena di grandi ideali, sostenuti da una sovrabbondanza di norme. Non ne servono altre, perché, come si dice, la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. Non si tratta, come molti sostengono, di uniformare la scuola abbassandone il livello. Invece bisognerebbe impegnarsi per portare ognuno al massimo delle sue possibilità.

C’è, infine, una contraddizione evidente. I medesimi che, normalmente, invocano divise per nascondere le differenze, sostengono e irrobustiscono valori selettivi sin dalla più tenera età, attraverso l’iniquo e arbitrario meccanismo delle valutazioni ricorrenti e ravvicinate, che non hanno nulla di scientifico. Lo si è visto anche nel passato recentissimo: le note scolastiche sono talmente irrinunciabili, che riescono ad annientare ogni riforma seria e di sostanza.


I punti di Rodari è una rubrica che Gianni Rodari pubblicò sul Corrirere dei piccoli fra il 1968 e il 1970. «Qui risponde alle lettere che gli arrivano da bambini, ragazzi e anche da genitori. E lo fa con precisione e sensibilità sugli argomenti più diversi, sempre però legati alla vita reale come: la scuola, l’importanza dei libri, la difesa della natura, la disoccupazione, la mancanza di spazi per i giochi, le distanze fra Nord e Sud, ma allarga il suo sguardo anche al mondo: la fame, l’analfabetismo, l’importanza della pace e il rifiuto della guerra. Di sicuro tanti anni sono passati da allora, ma certi argomenti sembrano ancor oggi attualissimi» [PINO BOERO, WALTER FOCHESATO, L’alfabeto di Gianni, 2019, Coccole Books].

L’unico e fondamentale senso della scuola dell’obbligo

Ci sono espressioni che, ogni tanto, conviene circostanziare e rammentare, sennò si rischia di chiacchierare a vanvera: io ti dico A e tu interpreti Z, benché l’espressione sia sempre quella. È un po’ come l’aggettivo «solare», che va molto di moda da qualche tempo nei curriculum vitae: «Sono una ragazza solare», e vattelapesca cosa significa. Da circa un ventennio si è scoperto che «La scuola è un’istituzione» (continuazione: e non un servizio), un’affermazione che si incontra abbastanza di frequente, una specie di monito: «Attento a te, guarda che la scuola è un’istituzione!». Allora ci riprovo, alla partenza della campagna elettorale che rinnoverà gli organi politici della Repubblica, con la certezza che se ne sentiranno delle belle.

La scuola, infatti, non è un servizio, come lo sono la distribuzione dell’elettricità, la raccolta dei rifiuti, la gestione della rete viaria, la posta o la ferrovia. Molti godono del marchio di «servizio pubblico» – e un qualcuno, una volta, lo era per davvero, benché poi sia stato messo sul mercato, e buona notte al secchio. Ci sono invece dei compiti che oltrepassano la semplice funzione di offrire un servizio, sotto forma di prestazione a pagamento diretto. Le votazioni su La scuola che verrà, il Salmo svizzero o l’educazione alla cittadinanza hanno mostrato due cose: che anche ai supposti «addetti ai lavori» ogni tanto manca l’ABC dei processi che fanno funzionare l’apprendimento (e, conseguentemente, l’insegnamento); e che si vuole una scuola che istruisca e che svolga compiti di selezione precoce.

Se la scuola che oggi prevale nelle idee della maggioranza è questa, allora siamo di fronte a un servizio, vale a dire a un organismo che fornisce un prodotto o una prestazione. È seccante doverlo ripetere, ma la scuola dell’obbligo dovrebbe avere lo stesso valore politico e culturale della giustizia e dell’esercito, vale a dire istituzioni che non possono perseguire interessi individuali. L’educazione non può ubbidire a leggi di mercato, così come i giudici non devono soggiacere alla soddisfazione dei condannati; deve invece rispondere a principi specifici, definiti dai primi articoli della legge della scuola. La scuola dell’obbligo è diversa dalle scuole che vengono dopo. Essa non deve formare medici e idraulici, architetti e falegnami, maestri e bancari, tutti, possibilmente, di alto livello; ma ha un obiettivo diverso e più nobile, quello di gettare le basi per educare i cittadini di domani.

L’educazione non è disgiunta dalla conoscenza e dall’istruzione. È incomprensibile che ci si ostini a sostenere che senza la meritocrazia, applicata coi voti scolastici, sia impossibile «fare scuola» senza diminuirne il livello. Quando lo Stato decide che tutte le persone tra i quattro e i quindici anni devono – devono! – andare a scuola, non può limitarsi a inseguire la selezione delle menti scolasticamente più leste. Il suo compito è invece quello di fare in modo che ogni ragazzo possa raggiungere il massimo delle sue possibilità culturali e intellettive entro i quindici anni, nel contesto sociale, famigliare, economico e culturale in cui sta crescendo. Se lo Stato non è in grado di garantire ciò e sceglie invece, per mezzo della scuola pubblica e obbligatoria, di ridursi a sancire la rapidità e i picchi più alti dei successi scolastici, tanto vale metterla sul mercato: costa meno, non crea illusioni né recriminazioni antipatiche ed egoiste, e si può sempre cambiare. Insomma: soddisfatti o rimborsati.

Serenità, tempo, diritto: le parole perdute della scuola

Non è, di per sé, che mi spiaccia fare gli auguri, e nemmeno lo sento come un dovere più o meno conveniente. Però ci sono date con un sapore simbolico più gradevole di altre. Il passaggio da un anno al successivo è una di queste.


Nei giorni sotto Natale è circolata nei media l’originale iniziativa didattica di un’insegnante di lettere di una scuola secondaria dalle parti di Lodi. Per i suoi allievi ha avuto un’idea insolita: la rubrica delle parole perdute. Gli ultimi cinque minuti di lezione – racconta – ho deciso di impiegarli ricordando termini di scrittori del passato (da Dante ad Alessandro Manzoni) o andati ormai in disuso. Chiedo loro di memorizzarli e contestualizzarli. Il massimo per i miei alunni era citare i versi dei rapper del momento; io, invece, batto sull’antico. All’inizio erano perplessi, poi hanno iniziato a incuriosirsi, a divertirsi e a creare frasi, fino a quando una mattina un alunno si è “dichiarato” a una sua compagna affermando: “La tua presenza è alcinesca”. L’aggettivo alcinesco vuol dire attraente. In quel momento ho capito che la mia iniziativa stava funzionando.

Ne ha scritto Paolo Di Stefano sul Corriere della Sera del 23 dicembre (“Le parole che fanno crescere”):

In un tempo in cui il vocabolario viene sfregiato dalle volgarità e dalle sciatterie di politici cialtroni e volgari nonché dall’esibizionismo anglofilo, quello della prof. De Luca è un gesto quasi eroico. Proporre ai ragazzi di aggiungere al loro repertorio lessicale parole inconsuete e strane, significa opporsi a quella che Pasolini, sin dagli anni 70, intravedeva profeticamente come omologazione culturale da civiltà totalitaria. E non è facile, visto che spessò l’educazione «sentimentale» giovanile è improntata al turpiloquio finto trasgressivo e finto maledetto di tanto rap o trap commerciale […]. La lingua ha un’infinità di risorse: è un deposito di storie (le etimologie sono intrecci straordinari come i migliori romanzi), un patrimonio di potenzialità creative con cui si può anche giocare, ed è il più ricco arsenale di armi (non da fuoco!) con cui farsi valere. La Prof. De Luca ha capito, probabilmente, che con l’aria che tira la prima educazione civica è quella linguistica.

ALFRED SISLEY – «Le Chemin de Montbuisson à Louveciennes», 1875, Huile sur toile (cm 46 x 61), Paris: Musée de l’Orangerie

Anche la scuola ha il suo elenco di parole perdute. Di alcune non si sente la mancanza, anche se il mondo è pieno di nostalgici – Si stava meglio quando si stava peggio!, e quattro scapaccioni erano più pedagogici di tante manfrine. No, grazie.

Ci sono invece parole che si dovrebbero recuperare, parole che arrivano da tanto tempo fa. Una, ad esempio, è tempo, una parola che ci riporta a Jean-Jacques Rousseau.

Émile ou de l’éducation, par Jean-Jacques Rousseau, citoyen de Genève, 1762: Amsterdam, chez Lean Néaulme, Libraire | Tome premier, Livre second, pp. 191-2

Così la filosofa Lina Bertola:

(…) se l’educarsi è un divenire ciò che si è, un viaggio verso sé stessi, la scuola per educare deve anche saper resistere. Resistere alle esigenze sempre più pressanti di un mercato che richiede prestazioni, inducendo a sacrificare la pienezza dell’essere allo sviluppo delle capacità di funzionare bene. Ma per educarsi occorre tempo (…). Nell’educazione di Emilio bisogna in un certo senso perdere tempo, non essere impazienti di vedere nel fanciullo l’uomo. Grande idea: perdere tempo, lasciarlo scorrere il tempo, attraversarlo con calma, come richiede l’ascolto di un sentimento, il filo di un ragionamento, la trama di un pensiero e di un racconto che sappia diventare esperienza di sé nell’ordine del senso. Bella idea per contrastare una scuola che senza il tempo non può educare. Per contrastare una scuola frettolosa e un po’ disorientata che rincorrendo performances di ogni genere arriva perfino a pensare di anticipare le scelte per migliorare la sua qualità.[Rousseau e l’educazione, RSI Rete 2, giugno 2012].

Sì, tempo è una parola da togliere dalla soffitta, perché suggerisce altre parole da rimettere in piena forma, come serenità, affinché la scuola sia un ambiente protetto, dove si possa crescere e imparare perché si percepiscono la fiducia e il rispetto. O come diritto, altra parola che ha radici millenarie, perché la vita nell’aula deve offrire a tutti la certezza del diritto, al riparo da ogni vessazione, contro l’indifferenza alle differenze, e con la scelta precisa di «passare dal mito delle pari opportunità al diritto all’educazione per tutti».

Anche nella scuola ci sono le parole perdute e sarebbe bello se qualcuno cominciasse a riportarle in vita, dentro le aule della scuola dell’obbligo e negli spazi di formazione degli insegnanti.

È il mio augurio per il 2019.

Tra la bellezza che rimane ancora e la scuola che verrà

Mi scuso coi miei lettori più assidui. Non vorrei sbagliarmi, ma credo che sia la prima volta che infilo due articoli in due giorni.

Come sanno i ticinesi, domenica 23 settembre si è votato sul credito per la sperimentazione del progetto «La scuola che verrà». I risultati sono giunti nel primissimo pomeriggio. Il verdetto è chiaro: la richiesta di poter testare l’ampia riforma proposta da Manuele Bertoli, direttore del Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport, è stata bocciata dal 56.7% dei votanti, con una partecipazione del 40%.

Chi mi segue sa che ho votato a favore, anche se preferivo la prima versione del progetto, quella ancora incontaminata di quattro anni fa (versione che, lo so bene, non avrebbe neanche lontanamente convinto un’esigua minoranza del Parlamento).

Il mio sito, domenica pomeriggio, si è animato. Un inusuale numero di curiosi cercava probabilmente un mio commento, che non c’era e non ci sarà. Ero convinto che i contrari (a questa riforma, a Bertoli, ai socialisti, ai progressisti, ai pedagogisti, …) avrebbero vinto facilmente. Conservare è facile, si rischia poco e, se necessario, si trovano sempre dei colpevoli.

Domenica, invece, ho pubblicato La bellezza che rimane ancora: echi dal diario di Anne Frank, un mio personale ricordo dell’edizione di Piazzaparola del 20 settembre scorso.

In tarda mattinata Luca Del Notaro ha inviato un commento, che non ho pubblicato:

Ha ha… tutti i tuoi lettori, io compreso, si aspettavano una bella analisi del risultato della votazione sulla scuola che non verrà più… e invece…  beccatevi questa!!

Non è stato un sotterfugio, il mio, o una fuga fifona. Le proposte di Piazzaparola, così come i concerti o il teatro per le scuole, sono più vicini alla scuola dei miei sogni dei tanti efficientismi di quella che in tanti vagheggiano, una scuola che vorrebbe preparare alla vita – anche se lorsignori confondono la vita con l’economia e il mondo del lavoro. Cittadini e lavoratori non sono la stessa cosa.

Gabriel Lemmonnier (1743-1824), Une soirée chez Madame Geoffrin (1812)

Quindi non commenterò un bel niente, i commenti dell’esito referendario sono affare di politici e politologi.

Il partito liberale (che si ostina a dirsi anche radicale) ha già comunicato che la colpa della sconfitta è del ministro Bertoli: ha voluto una riforma – si pensi un po’! – ideologica. Si vede che i liberali fanno politica senza ideologia. Commento inutile per dire di chi, senz’ideologia per ammissione a mezzo stampa, continua a menarla con le pari opportunità di partenza, ma non di arrivo: scienza pura, ovvio, nessuna idea di scuola.

Però bisogna ammettere che almeno loro, i liberali, si sono fatti sentire subito, anche se poi, come ha scritto il Corriere del Ticino, «In casa PLR c’è maretta: i commissari liberali radicali in Scolastica prendono le distanze dal comunicato dell’Ufficio presidenziale dopo il no popolare alla sperimentazione». Altri, nelle medesime ore, non si sa dove fossero e a cosa pensassero.

Io continuerò a parlare di ciò in cui credo. In questo sito, tanto per dire, ci sono tantissimi articoli che parlano del progetto di riforma Scuola che verrà, di etica della scuola, di pari opportunità, di finalità della scuola dell’obbligo e di tanti argomenti analoghi, naturalmente privi di ogni parvenza ideologica.

Una scuola verrà, questo è sicuro. Magari sarà la stessa che c’era fino a venerdì scorso e ci sarà ancora domani; oppure un’altra, una tutta diversa. Il Paese, fin qua, ha scelto.

Auguri.

La scuola alla ricerca del futuro: una lezione di civica

La campagna in vista del credito per la sperimentazione della «Scuola che verrà» sta raggiungendo vette sbalorditive: per la ressa e, a volte, per i contenuti. Il Dipartimento dell’educazione aveva appena presentato i tratti essenziali della riforma – con il sottotitolo «Idee per una riforma della scuola dell’obbligo tra continuità e innovazione» – che i grandi vecchi della repubblica l’avevano già condannata: «È l’ennesimo abbassamento della selettività della scuola. L’abolizione dei livelli porterà ad ulteriori difficoltà nel momento del passaggio nel mondo del lavoro», aveva scritto l’imprenditore di successo. Qualche giorno dopo gli aveva fatto eco il politico di grido: «Ritengo fondamentale ristabilire la meritocrazia, cosa però difficilmente raggiungibile con la soppressione di valutazioni e licenze». Sono passati quattro anni, ma l’impressione è che la maggior parte di chi, in queste settimane, si esprime pubblicamente non stia partecipando a un dibattito, ma a una rissa da stadio, senza un confronto di idee per capire vantaggi, svantaggi e criticità.

Personalmente credo che sarebbe opportuno approvare la sperimentazione, per non rischiare di seguitare a tenere in vita un paziente, la scuola dell’obbligo, con incessanti mosse di contenimento, nell’improbo compito di non annaspare per star dietro a un mondo che corre all’impazzata. Il problema è che i nemici della riforma hanno portato la campagna su temi diversi dagli oggetti in votazione, a colpi di pregiudizi, frottole e diversivi; oppure facendo le pulci a qualche marginale aspetto del progetto.

Franco Zambelloni, solitamente filosofo rigoroso e attento, ha pubblicato di recente una critica sarcastica alla metodologia di controllo della fase sperimentale. «Ci sono due modelli da confrontare tra loro – ha scritto – quello della riforma proposta dal DECS e quello alternativo. Si tratta, ovviamente, di vedere quale dei due produce risultati scolastici migliori». Si guarda dal dire che il modello alternativo è quello imposto dai liberali e accolto dal parlamento. Ma se noi applichiamo con coerenza il suo discorso, giungiamo alla logica conclusione che, per gli stessi motivi, gli insegnanti dovrebbero astenersi dal valutare i loro allievi con note e certificazioni; a meno che, per citare Zambelloni, i docenti siano tutti di uguale valore. Ma è possibile?

Diciamolo senza troppe remore: valutare un’innovazione scolastica è un processo complicato, che richiede grande prudenza. È uno dei motivi che vincola l’istituzione, affinché non tratti studenti e insegnanti come topolini da laboratorio. Però, come Zambelloni ha giustamente messo agli atti processuali citando una variabile fondamentale, «è ovvio che un docente bravo ottiene risultati migliori di uno scadente». Ma allora perché quando gli insegnanti scadenti bocciano non li si può cacciare, alla faccia delle pari opportunità?

Con gli anni ho maturato una lettura selettiva dei media. Così, ad esempio, ho fatto tesoro di una testimonianza di Daniele Dell’Agnola, docente impegnato a inseguire tenacemente asticelle molto alte per tutti gli allievi. «Allenarsi a pensare – ha scritto pochi giorni fa – è ideologico, è roba per gente libera. I cittadini sono chiamati a pensare. Tutti.» È l’obiettivo più nobile della scuola dell’obbligo, ed è ciò su cui siamo invitati a esprimerci col nostro voto: scegliere di formare cittadini liberi, che pensano con la propria testa; oppure che si fidano delle teste altrui. Tutto lì.