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Caro Dell’Agnola, per rifar la magistrale ci vuole un po’ di creatività…

Daniele Dell’Agnola non è uno che le manda a dire. Ha il pregio di esprimersi pubblicamente su problemi concreti con coraggio e onestà intellettuale. Così il 10 luglio ha pubblicato un interessante scritto sul portale ticinonews. Titolo: La ex magistrale. Argomento (di partenza): il crescente fabbisogno di maestri di scuola elementare ha trovato una prima parziale soluzione attraverso due misure che saranno operative dal prossimo anno scolastico. Quattordici maestre di scuola dell’infanzia – «Brave e con esperienza», chiosa Dell’Agnola; brave dovrebbero esserlo tutte – frequenteranno un corso di due semestri per diventare insegnanti di scuola elementare. Inoltre i nuovi iscritti al corso bachelor del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI – il DFA, cioè l’ex ASP, cioè l’ex scuola Magistrale – saranno circa ⅓ in più degli anni scorsi, vale a dire 88, invece dei 60 usualmente ammessi. Se tutto filerà liscio, questi 88 entreranno nella scuola elementare nel settembre 2017.

Non intendo riprendere le diverse tesi evocate da Dell’Agnola; invito semmai i miei lettori a leggerselo, anche perché non è lunghissimo. Sono d’accordo, e non potrebbe essere altrimenti, che una buona scuola ha bisogno di bravi maestri. Il problema, semmai, è che lo Stato dovrebbe dire cosa vuole dalla sua scuola, mentre la Magistrale dovrà poi formare i bravi docenti. Si capisce subito che siamo confrontati con due sistemi di grande complessità. Dico spesso che la Scuola avrebbe bisogno di modifiche strutturali importanti a tutti i livelli. Per restare agli insegnanti – lo zoccolo duro di una buona scuola – occorrerebbe tra l’altro rivedere una lunga serie di «condizioni istituzionali perverse» che impediscono o, almeno, frenano tante interessanti strategie per tener alti l’impegno e la tensione etica di ognuno. Penso alla sempre più improrogabile necessità di risolvere il problema dell’aggiornamento regolare e della formazione continua; penso alla differenziazione delle carriere (non è normale, ad esempio, che uno possa diventare direttore di un istituto scolastico solo perché è un insegnante, magari del partito giusto); penso alle collaborazioni tra insegnanti, non solo per scambiarsi esercizi, per organizzare la festa di fine anno o per votare ampollose prese di posizione di natura politico-sindacale; penso a un titolo abilitante con la data di scadenza. Penso, insomma, a una struttura scolastica che sappia offrire serenità e rigore e a un’organizzazione delle sue risorse umane che non sia sempre più in emergenza – il burn out, i casi difficili, la burocrazia crescente, … – tanto da richiedere costosi cerotti un giorno sì e l’altro pure.

Anche sul versante della formazione dei maestri e dei professori (sic) è urgente chinarsi sulle migliori strategie per assolvere al meglio il mandato della Magistrale. Ed è soprattutto qui che dissento da Dell’Agnola: diminuire il numero di studenti seguiti da ogni docente e, conseguentemente, aumentare le risorse finanziare proporzionalmente con il numero di insegnanti da formare è una soluzione che comincia a venire a noia, benché trovi quasi tutti concordi. Ma ragioni e torti non sono una questione di maggioranze e minoranze. È da trent’anni e passa che la magistrale riflette approfondisce riforma, senza mai riuscire ad andare al nocciolo della questione.

La prima chiave di volta è il passaggio dal modello seminariale a quello post-liceale, che de facto aveva spazzato via il primato della pedagogia e della didattica generale, a tutto vantaggio delle didattiche disciplinari, con tutti i danni che ciò comporta e ha comportato: non ultima, l’imperante e antipatica tecnocrazia scolastica. Detto di transenna: i primi insegnanti di scuola elementare formati dalla post-liceale erano veramente pochissimi, complice anche la crisi occupazionale del settore. C’eran quasi più docenti che studenti, e questi maestri in formazione erano coccolati e amati come creature eteree. Malgrado il numero ridottissimo, non tutti sono passati agli annali della scuola ticinese. Anche per quei pochi vale l’affermazione secondo cui alcuni erano molto bravi e altri diversamente bravi…

Qualche anno dopo fu il momento dell’Alta Scuola Pedagogica (ASP), che poi così alta non era. Tagliando un po’ con l’accetta, si può dire che gli assi portanti della magistrale precedente furono travasati pari pari nella nuova scuola, che doveva pur rispondere ai tanti requisiti formali fissati dalla famigerata «Dichiarazione di Bologna» del 1999. È con la nascita dell’ASP che si inventano i moduli, gli ECTS, i Docenti di Pratica Professionale (DPP), i Coordinatori di Pratica Professionale (CPP) e altre amenità di contorno. Mi si passi un’osservazione critica sul reclutamento dei DPP. Ne servivano a vagonate e, nelle intenzioni dei loro inventori, si sarebbero selezionate rigorosamente le centinaia di postulanti, così da poter far capo à la crème de la crème. Le cose non andarono per il verso atteso e sognato. Tanti bravi maestri che negli anni precedenti avevano collaborato con la magistrale per la formazione pratica degli studenti scapparono a gambe levate. Così l’ASP aveva allentato i filtri, mentre i responsabili del reclutamento telefonavano alle direzioni scolastiche come moderni «fra cercòtt», frati questuanti alla ricerca di DPP disponibili. Una menata che durò diversi anni e che fece venire l’orticaria a diversi direttori di scuole comunali.

L’ASP, tuttavia, non durò molto. Con l’anno scolastico 2009-2010 avvenne il passaggio della gloriosa magistrale dal Cantone, che la gestiva tramite il DECS, alla SUPSI, diventandone uno dei dipartimenti. Fu nominata direttrice quella Nicole Rege-Colet che fu defenestrata dal Consiglio della SUPSI già nel novembre del 2011 (avevo dedicato due articoli al tema: La frittata al DFA, in attesa della prossima portata e La formazione dei docenti tra politica e missione della scuola). Quell’anno, dunque, il DFA fu gestito ad interim dallo stesso direttore della SUPSI, in attesa che fosse nominato Michele Mainardi, che ha iniziato il suo mandato due anni fa. Va da sé che i primi tre anni della nuova scuola non hanno favorito la riflessione alla ricerca di importanti cambiamenti, per far sì che questo dipartimento della Scuola Universitaria Professionale iniziasse per davvero ad accostarsi al modello universitario, lasciandosi alle spalle, senza troppi rimpianti, i cinque lustri della post-liceale e della scuola tanto alta.

È pure ovvio che l’eredità del nuovo direttore può far tremare i polsi anche al più scafato tra gli uomini di scuola. Mainardi si è trovato a dover creare dalle fondamenta la nuova struttura, in un momento dalle mille emergenze e dovendo fare i conti con decisioni e invenzioni estemporanee del passato, recente e meno. Va da sé che i cambiamenti, di cui si avverte l’impellente bisogno, non possono essere realizzati da un direttore deus ex machina, ma servirà il contributo critico e fantasioso di tanti collaboratori del DFA, che non manca certo di personalità di tutto rispetto.

E qui torno al mio dissenso rispetto alla tesi di Dell’Agnola concernente il rapporto tra docente del DFA e numero di studenti che gli sono affidati. Vi sono, in effetti, alcune stranezze proprio nel modello formativo, che rasentano a volte l’astrusità e che appesantiscono, col rischio di vanificarlo, il compito del docente. Senza naturalmente entrare nel merito dei contenuti, vale a dire in ciò che è essenziale insegnare ai futuri docenti.

Provo a enumerare qualche bizzarria, così alla rinfusa, ispirato da quel che sento in giro. Non ci sono fonti di riferimento, ma non credo di essere troppo lontano dalla realtà e, così, di prendere qualche cantonata vistosa.

  • Per essere una scuola di livello universitario, gli studenti stanno troppo a scuola, seguono troppe lezioni. Ho frequentato l’università prima che finisse in salsa bolognese. L’anno accademico durava 25 settimane e le lezioni erano otto o nove a settimana, ognuna di due ore. Il lavoro individuale, organizzato autonomamente, era, sull’arco dell’anno, molto di più. Gli studenti della magistrale, invece, sono trattati come allievi di scuola media. Così, tra l’altro, non li vedi mai a un evento se, in cambio, non ricevono qualche biscottino, sotto forma di ECTS o di ore-lezione bonificate.
  • Oltre a ciò sembra che accanto ai corsi e alle pratiche professionali debbano compilare protocolli che richiedono un impegno sproporzionato, che potrebbe essere speso molto meglio. Tra l’altro: questi documenti qualcuno li deve pur leggere (tra i “qualcuno” gli assistenti non esistono ancora), e non è detto che il biologo riciclato in docente di didattica delle scienze sia in grado di iscrivere ciò che legge nel contesto del «lavoro in aula», con allievi concreti: che sono solitamente assai diversi dagli allievi libreschi.
  • Sento di docenti del DFA che svolgono un numero spropositato di corsi durante la settimana, magari saltabeccando da un bachelor all’altro e da un master all’altro. Poi fanno anche ricerca. In parallelo, almeno durante i periodi di pratica degli studenti, corrono su e giù per il Ticino come piazzisti, a veder lezioni, di solito dopo regolare preavviso. Anche dal profilo economico l’organizzazione non regge.
  • Per tornare alla mia esperienza universitaria, ricordo, il primo anno, un bel corso sulla valutazione tenuto dalla prof. Linda Allal. Tra le altre cose, per la certificazione era richiesto un lavoro personale che affondasse le sue radici nella pratica. A quel corso eravamo in tanti. Ma a seguire i nostri lavori personali c’erano fior di assistenti, mica la titolare del corso.
  • Non so se, a tutt’oggi, certi corsi prettamente teorici impartiti al DFA si svolgano un’unica volta per tutti, oppure se il docente deve sottoporsi al rito delle repliche. A leggere Dell’Agnola sembrerebbe di sì. So che ai tempi della post-liceale questa proposta era stata avanzata, ma respinta dai docenti medesimi. Chissà perché.
  • I DPP, a statuto comunale o cantonale, sono pagati dal DFA per accogliere gli studenti in formazione. Vi sembra logico che per formare gli insegnanti della scuola ticinese la SUPSI deva pagare? Non sarebbe nell’interesse della scuola ticinese mettere a disposizione insegnanti e classi per la formazione dei futuri colleghi? Per quel che ne so, il DFA versa centinaia di migliaia di franchi solo per pagare i DPP, per coordinarli e formarli. Non è assurdo?

Mi fermo, anche se avrei ancora molte cose da dire. Daniele Dell’Agnola, che è artista prima che docente di scuola media e formatore del DFA, m’insegna che la creatività è quella capacità di superare ostacoli che, di primo acchito, sembrano insormontabili. La creatività non serve solo per scrivere romanzi originali, per dipingere quadri stupefacenti e modernissimi o per progettare edifici straordinari e più funzionali. La teoria della relatività di Einstein, il teorema di Pitagora, le intuizioni di Mendel, la teoria dell’eliocentrismo di Copernico sono imprese di grande creatività.

D’accordo, la Magistrale non è la fisica, né la matematica, le genetica o l’astronomia. Ma, per favore!, finiamola di proporre la soluzione d’ogni problema con le prime cose che saltano in mente. O con le proposte evocate anche dai paracarri.

Chi si ricorda più del «Profilo degli insegnanti»?

Si trattava in realtà di un documento del dicembre 2007, così definito: «Per profilo professionale è intesa la descrizione accurata delle competenze e dei comportamenti attesi dai docenti e riferiti  al lavoro in sezione con gli alunni,  alla preparazione,  alla formazione,  alla vita di istituto,  alle relazioni con i colleghi, le autorità, i genitori, la comunità locale»: mica minuzie. Il documento, come ho accennato, aveva avuto una larga diffusione, benché si trattasse di una proposta in consultazione e non ancora di una sorta di contratto impegnativo tra le parti. In particolare l’avevano ricevuto, oltre ai soliti uffici cantonali e gli ispettorati, i direttori, l’Alta Scuola Pedagogica, le autorità comunali, le associazioni magistrali e la Conferenza cantonale dei genitori. Naturalmente, anche la stampa ne aveva parlato, erano apparsi articoli e riflessioni, c’erano state serate pubbliche. Non mi interessa qui entrare nel merito di questo «Profilo», che chiunque può consultare nella sua versione originale e incompiuta (basta digitarne il titolo in un qualsiasi motore di ricerca). Invece vi sono un paio di dettagli di un certo interesse, anche per capire le cose di questo cantone e della nostra scuola. Nella lettera che accompagnava la trasmissione del documento si può leggere che «tra i numerosi fattori che concorrono a determinare la qualità del complesso sistema scolastico, la professionalità dei vari attori è e rimarrà uno degli elementi centrali. Per questo motivo il Collegio degli ispettori ha riservato una riflessione importante, nel corso di questi ultimi tre anni scolastici, alla figura e al mandato dei docenti di scuola dell’infanzia ed elementare». Infatti già il 23 novembre 2006 il direttore dell’USC, prof. Mirko Guzzi, aveva presentato un documento, a quell’epoca un pochino diverso, ai direttori delle scuole comunali, riuniti in seduta plenaria a Sementina. Solo che il titolo era un altro: «Valutazione docenti». I direttori avevano applaudito l’iniziativa, ma avevano altresì consigliato, con un po’ di sdegno, di non “bruciare” tutto sull’altare della valutazione. Anzi: meglio togliere del tutto l’accenno alla valutazione e pensare invece a valorizzare i docenti. Ohibò: vuoi vedere che chi vive di valutazione quotidiana, ha poi paura della valutazione? Tant’è. Sta di fatto che per la fine del 2010 gli ispettori avrebbero dovuto esaminare il «Profilo» nell’ambito dei loro nove circondari e inviare poi il loro parere e le loro proposte all’USC, affinché il documento fosse calibrato e approvato dal DECS, per diventare quindi uno strumento operativo e impegnativo per valorizzare, correggere, aiutare, formare e, perché no?, liberarsi degli insegnanti «diversamente bravi»… Il circondario di cui facevo parte – il VI – aveva fatto i compiti e aveva inviato entro i termini le sue riflessioni e le sue proposte: mi sembra un documento interessante e per questo motivo lo metto a disposizione di chi fosse interessato [Profilo professionale – Documento del VI circondario] E qui sta la seconda curiosità, perché non se n’è saputo più nulla.

Di competenze, conoscenze, valutazioni e regole del gioco

Lo scopo di una partita di calcio è quello di segnare più reti dell’avversario. Nei canonici 90 minuti di durata di una partita, recuperi esclusi, è chiaro a ognuno quali sono le regole del gioco. È chiaro per gli arbitri, i giocatori e il pubblico – a meno che uno sia capitato per caso allo stadio, un po’ come se io andassi a una partita di baseball tanto per vedere, da turista, che aria si respira. Così, ad esempio, il fuori gioco è definito in termini molto precisi, e con altrettanta puntigliosità i «governanti e i parlamentari» del calcio stabiliscono con chiarezza quando si va alla rimessa laterale, cosa è lecito e cosa non lo è nei contrasti con l’avversario, quando si rischia l’espulsione o è necessario tirare un calcio di rigore. Poi, anche in questo caso come in tutte le umane vicende, non è possibile prevedere tutto. Così capita che un giocatore riesca a farla franca, o che il direttore di gioco si faccia turlupinare dall’attaccante che rantola sul terreno da gioco senza che nessuno l’abbia nemmeno sfiorato. Chi non ricorda il gol di Maradona con le mani al mondiale messicano del 1986?

La partita di calcio, ha detto qualcuno, è la simulazione di una battaglia, il cui scopo fondamentale è di vincere, divertendo e divertendosi, affinché altre battaglie possano essere combattute.

 

Le regole del gioco

Anche la scuola, mi si passi il paragone, potrebbe per certi versi assomigliare a una partita di calcio. Ma due differenze sono sostanziali. La prima è che la scuola – e mi riferisco alla scuola dell’obbligo – è una partita per la vita che si gioca una volta sola, soprattutto se non si ha avuto la fortuna di nascere con la camicia, nel ceto giusto. La seconda, ben più importante, è che le regole fondamentali sono tutt’altro che chiare, benché testi costituzionali, leggi, regolamenti, decreti, norme, programmi e via di seguito siano certamente più corposi dei regolamenti del calcio.

Prendiamo un esempio. I «Programmi per la scuola elementare» attualmente in vigore dicono a chiare lettere che vi sono alcuni obiettivi che tutti gli allievi devono raggiungere. «Gli obiettivi di padronanza – vi si legge a pagina 91 – indicano ciò che ogni allievo dovrebbe essere in grado di fare con sicurezza al termine del primo e del secondo ciclo. […] Gli obiettivi di padronanza costituiscono quindi un impegno che la scuola assume nei confronti degli allievi e delle loro famiglie, e svolgono, perciò, una duplice funzione: informano le famiglie e gli insegnanti dell’ordine scolastico successivo di ciò che deve considerarsi acquisito nel corso della scuola elementare; richiamano all’insegnante il dovere di prodigarsi perché anche gli allievi con maggiori difficoltà di apprendimento possano conseguire, per questi obiettivi, il livello di padronanza indicato.» Così, tra gli obiettivi di padronanza, troviamo cosa l’allievo dev’essere in grado di padroneggiare in scrittura alla fine della II elementare. Egli deve «Saper scrivere brevi testi, usando le parole appropriate, con frasi chiare nella costruzione e corrette nell’ortografia, limitatamente ai casi più semplici e senza esigere la sicurezza assoluta nell’uso delle doppie, dell’h nelle forme verbali, dell’apostrofo e dell’accento. Usare correttamente il punto, dimostrando ad esempio di saper inserire i punti mancanti in un semplice testo e di individuare le frasi di senso compiuto.»

Chiaro? Mica tanto, a dirla tutta. Quanto breve dovrà essere un breve testo? Quali saranno le parole appropriate e quali, invece, quelle non conformi? Fino a che punto ci si può spingere sul piano della correttezza ortografica? La soluzione più frequente è che ogni insegnante raffigura nella sua testa la soglia di padronanza, che equivale poi alla sufficienza (nota 4). A partire da quell’empirico punto di riferimento assegnerà poi le valutazioni verso il basso e verso l’alto (e sarebbe bello, una volta, leggere una chiara descrizione della soglia di padronanza, affiancata dalle sfumature che contribuiscono a gonfiare il misero quattro fino a farlo diventare un sei tondo tondo). Ora si tenga conto che già per assegnare la nota di italiano non ci si può limitare a verificare quest’unico obiettivo, ma bisogna dare una valutazione anche alle capacità orali, di ascolto e di lettura. La medesima operazione andrà ripetuta per ogni disciplina che richiede una nota – e, lo si può bene immaginare, le cose si complicano maledettamente mano a mano che passano gli anni di scuola e ci si avvicina alla quarta media.

 

La valutazione: un azzardo?

La definizione chiara di un obiettivo, inoltre, non si traduce ancora in una valutazione scientificamente oggettiva. Tante altre variabili, in effetti, concorrono a far sì che le valutazioni ottenute da un allievo non garantiscano nella realtà il raggiungimento del tale o del tal altro obiettivo: dall’inadeguatezza dei sistemi di valutazione impiegati, a un insegnamento manchevole, a scelte didattiche sbagliate. Si aggiunga poi la ben nota «indifferenza alle differenze», di cui già parlava Pierre Bourdieu quasi cinquant’anni fa. Con l’imbroglio delle «pari opportunità», e con l’esistenza stessa del meccanismo della promozione da una classe all’altra, «…la scuola trasforma differenze e disuguaglianze di diversa derivazione in insuccessi e riuscite scolastiche. Se a sei anni alcuni bambini sanno già leggere, mentre altri sono ancora molto distanti, si esige che tutti sappiano leggere circa un anno più tardi. Questa indifferenza alle differenze [Bourdieu, 1966[1]], propria della scuola, contrasta col trattamento differenziato delle persone nel campo della sanità, della giustizia, del lavoro sociale, tanto per citare qualche esempio.»[2] Eppure il tema della differenziazione dell’insegnamento non è propriamente una trovata più o meno utopica ed estemporanea di quest’ultimi anni, ma vanta una lunga serie di esperienze e di importanti riflessioni. E, d’altra parte, vi sono docenti che organizzano il loro insegnamento proprio centrando la loro attenzione pedagogica su questo basilare principio: si pensi, ad esempio, alla correzione interattiva del testo di un alunno, in luogo della correzione differita dei testi dell’intera classe; alla somministrazione mirata e adeguata di esercizi, al posto di esercizi identici per tutti; al primato del lavoro attivo dell’allievo, invece dell’ascolto fors’anche passivo di lezioni ex cathedra.

Philippe Meirieu ha annotato che «Per fortuna non è la scuola che insegna a camminare ai bambini, sennò la popolazione sarebbe formata da un terzo di buoni camminatori, un terzo di zoppi e un terzo di persone costrette a stare a letto!»[3] Camminare, in effetti, è un’operazione complessa, che non s’impara in quattro e quattr’otto, così come non si impara in un battibaleno a mangiare autonomamente col cucchiaio oppure a parlare. Statisticamente si inizia a camminare attorno all’età di dodici mesi. La statistica, per definizione, suggerisce che ciò può avvenire prima o dopo l’età indicata, che, in quanto media, si riferisce grosso modo al 70% dei bambini. Il genitore attento osserverà suo figlio e lo aiuterà a passare dal gattonare allo stare in piedi e poi a camminare al momento che gli sembrerà opportuno. Non è detto che Usain Bolt abbia iniziato a camminare con largo anticipo, né che Luciano Pavarotti strillasse meglio degli altri a poche ore dalla nascita. Sappiamo bene che la crescita di un individuo è il frutto di elementi endogeni ed esogeni. Tagliando un po’ con l’accetta, nella prima categoria metteremo le caratteristiche fisiche e mentali dell’individuo, ricevute per trasmissione genetica; nelle seconde le esperienze vissute dalla nascita in poi, alcune del tutto fortuite, altre frutto di un meditato e consapevole stimolo (insegnamento).

D’altro canto conosciamo bene gli effetti perversi che possono scaturire dall’analisi molto approfondita degli obiettivi scolastici, che per forza di cose cominciano con l’escludere tutto ciò che è di complessa valutazione, soprattutto attraverso i soliti strumenti, quali il tradizionale test o l’interrogazione. È inoltre doveroso rammentare in ogni momento che la scuola è un luogo di educazione formale, che intende insegnare o far apprendere delle conoscenze, delle nozioni, delle attitudini o delle capacità in un ambiente fortemente artificiale. Sono abbastanza note talune esperienze condotte sin dagli anni ’80 sulle competenze matematiche acquisite «on the job», sul lavoro, rispetto al classico apprendimento scolastico, per lo più di natura teorica[4]:

Numerose ricerche dimostrano la ricchezza dei saperi acquisiti fuori dalla scuola. Nel campo della matematica, ad esempio, gli analfabeti non sono necessariamente ignoranti. Essi possono risolvere problemi che richiedono dei calcoli, a volte abbastanza complessi, anche se gli algoritmi sono spesso limitati: si conta sulle dita, per esempio, e la moltiplicazione è sostituita da addizioni in sequenza. In tal modo il calcolo (mentale o orale) è spesso più lungo, più complicato, limitato ai numeri più abituali. Invece che manipolare simboli, si manipolano quantità, vale a dire delle cifre con un significato effettivo, e il risultato è immediatamente valutato in rapporto alla realtà. A scuola, per contro, l’allievo manipola per lo più dei simboli, con degli algoritmi che ricordano a volte dei ritornelli, e il risultato è confrontato solo raramente con la realtà.

Tramite una ricerca svolta a Recife, in Brasile, Nunes, Schliemann e Carraher (1993) hanno osservato dei bambini che vendevano frutta al mercato. I ricercatori hanno posto, in situazione spontanea, una serie di problemi basati sul calcolo (del tipo: quanto costano 10 ananas da 35 cruzeiros l’uno?). In seguito hanno sottoposto a quegli stessi bambini i medesimi calcoli in versione più scolastica. Mentre il 98% dei calcoli era giusto al mercato, la riuscita scendeva al 73% se gli stessi calcoli erano posti sottoforma di problemi, e solo al 37% chiedendo le operazioni fuori contesto. In un altro studio degli stessi ricercatori, si è rilevato che alcuni bambini che utilizzavano a scuola delle strategie «orali» (della strada) per la moltiplicazione, riuscivano al 100%, contro il 39% con le strategie scritte.

Naturalmente si potrebbero ricamare tante considerazioni attorno a ricerche come questa. Ciò mette comunque in luce almeno due aspetti fondamentali dell’insegnamento scolastico: il primo, che vi è sovente un più o meno alto grado di confusione tra i dati reali e la loro simbolizzazione; il secondo, che in parte può scaturire dal primo, che la conoscenza astratta può prescindere dalla comprensione adeguata dell’algoritmo, semplicemente memorizzando le strategie simboliche richieste dalla scuola. E, d’altra parte, Ivan Illich, il grande descolarizzatore, osservava che «Quasi tutto ciò che sappiamo lo abbiamo imparato fuori della scuola. Gli allievi apprendono la maggior parte delle loro nozioni senza, e spesso malgrado, gli insegnanti. Ma il tragico è che i più assorbono la lezione della scuola anche se a scuola non mettono mai piede.

È fuori della scuola che ognuno impara a vivere. Si impara a parlare, a pensare, ad amare, a sentire, a giocare, a bestemmiare, a far politica e a lavorare, senza l’intervento di un insegnante. Non fanno eccezione a questa regola neanche quei bambini che sono soggetti giorno e notte alla tutela di un maestro».[5]

 

Tempi moderni: un nuovo paradigma antropologico

E ancora: oggi siamo forse immersi in quella mutazione antropologica di cui parlava Pier Paolo Pasolini già nei primi anni ’70, per descrivere l’omologazione della società italiana attraverso i cambiamenti sociali e culturali prodotti dalla massificazione televisiva[6]. «L’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli ha inconsciamente ricevuto, e a cui “deve” obbedire, a patto di sentirsi diverso. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L’uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una “falsa” uguaglianza ricevuta in regalo. Una delle caratteristiche principali di questa uguaglianza dell’esprimersi vivendo, oltre alla fossilizzazione del linguaggio verbale (gli studenti parlano come libri stampati, i ragazzi del popolo hanno perduto ogni inventività gergale), è la tristezza: l’allegria è sempre esagerata, ostentata, aggressiva, offensiva.»

Oltre a ciò nel corso degli anni è cresciuta a dismisura e si è fatta più variata l’offerta televisiva, alla quale è necessario aggiungere tutto ciò che può essere consumato sui computer, schermi dietro ai quali i nostri allievi trascorrono ore innumerevoli. «L’esperienza della lettura e quella televisiva presentano (…) molte (…) differenze: una è legata alla capacità di concentrazione richiesta dalla lettura, che, proprio per le complesse operazioni mentali che implica, è estremamente superiore rispetto al guardare la televisione, che implica soltanto una disponibilità ad assorbire messaggi e immagini. Una seconda differenza riguarda il ritmo, estremamente individuale nella lettura, che lascia spazio a rallentamenti, accelerazioni, ritorni all’indietro ecc., mentre in televisione il ritmo è imposto dall’esterno e non può essere variato, sia che un programma sia interessante, sia che sia noioso, sia che richieda una chiarificazione e quindi un ritorno indietro: in televisione si può andare soltanto in una direzione, in avanti, seguendo un ritmo che è uguale per tutti e che non risente della nostra momentanea capacità di attenzione. Attraverso la lettura noi creiamo le immagini cui allude un testo e la nostra creatività viene stimolata nel momento in cui leggiamo: la lettura, insomma, libera l’immaginazione e fa lavorare la nostra mente. A differenza della lettura, altre esperienze basate su un mondo fatto di immagini, come la televisione, hanno un minor potere evocativo e non mettono in moto strutture e funzioni addette alla logica del linguaggio. Per dirla con le parole dello psicologo Bruno Bettelheim, l’esperienza televisiva è molto diversa in quanto “la televisione cattura l’immaginazione ma non la libera, mentre un buon libro stimola e libera la mente”.»[7]

Tant’è, è inutile far finta che questi fenomeni non esistano e che sia possibile continuare a organizzare l’insegnamento «come se…», tanto più che il bombardamento massmediatico non colpisce certamente solo i nostri allievi, ma concerne anche i loro genitori, i loro insegnanti e i nostri politici. Nelle nostre aule, tuttavia, cresce il numero di allievi fin troppo vivaci, che faticano a concentrarsi, a ricordare, ad ascoltare, a dedicarsi al compito con la necessaria attenzione; e che, col crescere dell’età, manifestano vieppiù comportamenti tanto esuberanti, da sconfinare sovente nel «problematico».

 

La scuola dell’obbligo e la preparazione alla vita

Tutto quanto precede deve poi per forza di cose confrontarsi con i programmi di studio degli attuali due settori della scuola dell’obbligo, che si trasformeranno in un «nuovo» piano di studio in vista dell’introduzione di HarmoS. Le virgolette non sono casuali, perché è difficile immaginare chissà quali stravolgimenti. Benché la scuola dell’obbligo debba prevedere l’insegnamento di alcune competenze fondamentali, sappiamo che alcune discipline sono più «fondamentali» di altre, così come siamo consapevoli che, all’interno di ogni disciplina, è difficile capire cosa sia per davvero necessario conoscere entro i quindici anni e cosa, invece, potrebbe essere indispensabile solo a determinate condizioni, come ad esempio imboccare la via degli studi superiori fino all’università.

È noto, ad esempio, che nella scuola elementare l’italiano e la matematica sono più «fondamentali» delle altre discipline, soprattutto in termini di valutazioni finali e di selezione. Ma anche nella scuola media questo fenomeno è ben presente, anche se non è formalizzato né, tanto meno, dichiarato. Ed è in particolare nella scuola media che crescono e si diffondono molti contenuti per nulla fondamentali nel contesto della scuola obbligatoria, seppur con alcune doverose precisazioni. Philippe Perrenoud, citando lo psicologo Christian Guillevic, fa un esempio un poco provocatorio[8]: «È sufficiente, per essere meglio preparati alla vita, che gli allievi imparino a mobilitare il teorema di Pitagora per risolvere dei problemi reali? Evidentemente si risponderebbe in modo affermativo se fosse necessario attivare di frequente il teorema di Pitagora nella nostra vita. Ma in realtà chi se ne serve, a parte quelli che esercitano una professione legata alla geometria? Taluni che se ne servono professionalmente, ad esempio i carpentieri, non conoscono quel teorema, ma applicano una regola che ne è solo una derivazione e che loro stessi sarebbero in difficoltà a spiegare: per verificare che due travi di un tetto formino un angolo retto, il carpentiere fa un segno su una trave a 6 dm dal vertice e un segno a 8 dm sull’altra. Tende poi una cordicella tra i due segni e misura la distanza che li separa. Se questa è esattamente di un metro, conclude che l’angolo è retto. A giusto titolo, poiché in effetti nel triangolo rettangolo virtuale così creato, il quadrato dell’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati dei due lati dell’angolo retto (102 = 62 + 82, ovvero 100 = 36 + 64). La procedura funziona perché è fondata sul teorema di Pitagora, ma non c’è nessuna necessità di conoscerlo per servirsene in modo efficace».

Va da sé che non è certo nelle mie intenzioni – né, immagino, in quelle di Perrenoud – estendere concretamente tale ragionamento a tanti e tanti contenuti dei programmi scolastici, con un’azione un poco iconoclastica, ciò che, d’altra parte, rischierebbe di contribuire all’ampliamento ragguardevole della già estesa schiera dei Fachidioten, gli «idioti specializzati». Per coerenza, lo stralcio del teorema di Pitagora dai programmi della scuola dell’obbligo comporterebbe pure la cancellazione di tanti e tanti contenuti, forse di intere discipline: dalla letteratura alla poesia, dall’algebra alla musica, dalla biologia alla storia, è tutto un fiorire di conoscenze di cui, volendo, si può fare a meno. In realtà il problema non risiede nel teorema di Pitagora, né negli eucarioti o nella Svizzera dei 13 cantoni, e men che meno in Francesco Petrarca, Alessandro Manzoni, Johann Sebastian Bach o Michelangelo Buonarroti. Sul piano dell’arricchimento culturale e dello sviluppo della speculazione intellettuale e dello spirito critico servono ben altre conoscenze, che superano le competenze pratiche per preparare alla vita. Ma è palese che se tali conoscenze diventano le armi improprie della selezione scolastica, allora la scuola dell’obbligo vien meno al suo mandato. Lo stesso Perrenoud, inoltre, solleva un altro problema, legato ad alcune discipline ugualmente «utili» e importanti per la formazione dei futuri cittadini, discipline che, tuttavia, non fanno parte, se non sporadicamente e di straforo, dei programmi della scuola dell’obbligo, come la psicologia e la psicanalisi, la sociologia, le scienze politiche e quelle economiche, il diritto, la criminologia, l’architettura e l’urbanistica. [9]

La questione si pone naturalmente in tutta la sua complessità, tenuto conto che già oggi gli allievi della scuola media sono sottoposti a un carico orario molto (troppo?) elevato. Eppure l’elenco delle discipline ignorate dalla scuola dell’obbligo non può lasciare indifferenti. Ma come fare? Si immagini il putiferio che si scatenerebbe se solo il Dipartimento avviasse una procedura per ridurre di una quindicina di ore settimanali la dotazione oraria delle discipline attuali per far posto alle nuove. Le diverse lobby disciplinari ipotizzerebbero scenari apocalittici, con un Ticino del futuro deprivato di ingegneri, scienziati e letterati. E farebbero certamente presente che già oggi le ore riservate alle loro discipline è ampiamente insufficiente. I sindacati, dal canto loro, minaccerebbero scioperi e barricate, sommando apocalisse ad apocalisse. Insomma, sarebbe (è!) difficile modificare tradizioni e convinzioni, quasi sempre basate sulla (semplice) constatazione che «si è sempre fatto così».

 

Insegnare per competenze? A certe condizioni…

In tutto questo contesto di domande senza risposte convincenti, HarmoS e il conseguente nuovo piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese porteranno con sé anche l’insegnamento «per competenze». Non entro nel merito delle diverse definizioni che tentano di chiarire cosa possa significare, nel concreto, un funzionamento della scuola sulla base della costruzione di competenze piuttosto che, secondo una tradizione molto diffusa, sulle più identificabili conoscenze, quelle che prima del ’68 si chiamavano nozioni. Diversi sistemi scolastici del mondo occidentale sono stati sedotti dall’insegnamento per competenze, soprattutto da quando, negli ultimi anni del secolo scorso, diversi organismi internazionali, tra i quali l’OCSE, ne hanno fatto un cavallo di battaglia. Per quel che mi concerne mi intriga la possibilità di organizzare l’insegnamento obbligatorio attraverso tematiche pedagogiche e didattiche marcatamente interdisciplinari. A pensarci bene, già Jean-Jacques Rousseau dispensava al suo Emilio un insegnamento che mirava alle competenze, così come in maniera analoga agiva Johann Heinrich Pestalozzi, così sensibile alle diverse dimensioni educative (la testa, il cuore, le mani). La stessa corrente nota come scuola attiva, quella dei Freinet, dei Lodi e dei Don Milani, aspirava a superare il nozionismo, utile più a chi dà le note che a chi le riceve, per affrontare dei percorsi pedagogico-didattici fortemente interdisciplinari, con tutte le loro ricchezze umane e umanistiche, nonché piuttosto efficaci anche sul piano delle conoscenze fondamentali.

In approcci di questo tipo, nondimeno, c’è un rovesciamento rilevante delle prospettive che guidano gli anni scolastici e le diverse programmazioni, a partire proprio dal tema della valutazione, tema che il «Gruppo direzione e coordinamento HarmoS» del nostro DECS ha ben presente. Insegnare per competenze, o per ambiti tematici, pone problemi di valutazione enormi. In un’organizzazione pedagogica di tal fatta non c’è posto per la selezione in vista della prosecuzione degli studi, con tutta la sua tradizionale tiritera di valutazioni sommative che scandiscono le settimane e i mesi, diventando in definitiva più importanti di ciò che si vuol valutare e inducendo negli allievi quell’attitudine perversa che li obbliga a studiare per i test e non per i contenuti più preziosi della scuola. Insegnare per competenze significa in primo luogo privilegiare l’educazione e la costruzione di conoscenze e di cultura, nell’accezione più ampia del termine, rispetto alla valutazione/classificazione di alcune nozioni o capacità. Per fare un esempio un po’ banale, è abbastanza facile, attraverso un esercizio mirato, verificare la conoscenza della coniugazione e della declinazione dei verbi. Una sequenza di frasi coi verbi all’infinito, da completare con modi e tempi corretti, permette solitamente di controllare se l’allievo ha metabolizzato la regola, ma non dice nulla sulla capacità del medesimo allievo di utilizzare un congiuntivo imperfetto quando si esprime oralmente o quando scrive una sua riflessione.

 

La realtà resiste ancora

Sappiamo fin troppo bene che la realtà resiste. La stessa scuola media è ancor oggi debitrice, a quasi quarant’anni di distanza dalla sua nascita, del peccato originale che la maggioranza del Parlamento aveva dovuto ingollare affinché la Legge passasse (le sezioni A e B, poi trasformatesi nel corso degli anni, mantenendo però intatto il progetto iniziale di selezione verso la scuola post-obbligatoria). E anche la scuola elementare non è passata indenne attraverso la più recente riforma di peso – la riforma dei programmi, approvati dal Consiglio di Stato nell’ormai lontanissimo 1984. Da un’organizzazione con l’Ambiente al centro dell’azione pedagogica, si è presto tornati alle discipline. E, dall’anno scorso, con gli applausi convinti di molti «addetti ai lavori», si è nuovamente introdotta la valutazione sommativa a metà anno – senza nota, ma con degli aggettivi: che sono più subdoli – in perfetta linea col settore scolastico successivo. Ora c’è solo da sperare che la scuola dell’infanzia, con l’obbligatorietà scolastica che la concerne in virtù di HarmoS, non si cali nel medesimo solco di continuità.

Anche se, in fondo, è la soluzione più facile e in linea con le nostre consuetudini.


[1] PIERRE BOURDIEU, «L’école conservatrice. L’inégalité sociale devant l’école et devant la culture », in Revue française de sociologie, 1966, N° 3

[2] PHILIPPE PERRENOUD, La pédagogie à l’école des différences, 1995, Paris: ESF Éditeur (la traduzione italiana è mia)

[3] PHILIPPE MEIRIEU, MARC GUIRAUD, L’école ou la guerre civile, 1997, Paris: Édition Plon (la traduzione italiana è mia)

[4] PIERRE R. DASEN, «Développement humain et éducation informelle», in Pierre R. Dasen, Christiane Perregaux, Raisons éducatives N° 3/2000 – Pourquoi des approches interculturelles en sciences de l’éducation?, 2000, De Boek

[5] IVAN ILLICH, Deschooling Society, 1971, trad. it. Descolarizzare la società, 1972, Milano: Mondadori

[6] Si vedano, in particolare, «Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia» (10 giugno 1974) e «Ampliamento del “bozzetto” sulla rivoluzione antropologica in Italia» (11 luglio 1974, da cui è tratta la citazione nel testo), in PIER PAOLO PASOLINI, Scritti corsari, 1975, Aldo Garzanti Editore

[7] ALBERTO OLIVERIO, Memoria e oblio, 2003, Rubbettino Editore

[8] PHILIPPE PERRENOUD, Quand l’école prétend préparer à la vie… – Développer des compétences ou enseigner d’autres savoirs?, 2011, Paris: ESF Éditeur

[9] PHILIPPE PERRENOUD, 2011, Ibidem

Una lettura critica dell’iniziativa «Aiutiamo le scuole comunali»

Il testo che segue, e le schermate Power Point che lo accompagnano, riferiscono di una presentazione e di una riflessione che proposi alla Conferenza dei Direttori degli Istituti Scolastici Comunali (cosiddetta CDD, con un vecchio acronimo) durante una seduta che si tenne al Centro diurno di Rivera il 20 gennaio 2011, oggi comune di Monteceneri. Questo intervento mi fu chiesto dalla presidenza della Conferenza, all’epoca presieduta da Matteo Cavadini. Leggo dal verbale datato marzo 2011 che erano presenti 36 direttori (su 44).

Avevo trasmesso le slides e i miei appunti all’ufficio presidenziale, con questa premessa: «Il testo che segue è il complesso degli appunti utilizzati durante la presentazione, durata circa un’ora. Proprio per la loro natura di brevi annotazioni a mo’ di promemoria, è necessario sottolineare che a far stato è il testo proposto oralmente».


Gli appunti dell’intervento

In tutta sincerità, non ho ben capito come mai sia stato chiesto proprio a me di intervenire oggi sull’Iniziativa popolare legislativa nella forma elaborata, lanciata nel 2009 da persone vicine al sindacato VPOD e al Partito socialista. L’iniziativa ha goduto di un successo che definirei strepitoso, raccogliendo rapidamente 10 mila firme, dunque ben più del necessario.

Immagino che tutti sappiano che personalmente non l’ho firmata e che sono intervenuto due o tre volte, nell’ambito della mia rubrica sul Corriere del Ticino, con considerazioni piuttosto critiche. Do quasi per scontato che molti di voi l’hanno firmata, così come l’ha firmata un gran numero di nostri insegnanti.

Il “taglio” del mio intervento di questa mattina non è certo quello di spiegare le proposte dell’iniziativa: ci mancherebbe. Nel contempo non è neanche mia intenzione aprire un fronte politicamente contrario a quelle proposte: credo che l’iniziativa debba compiere fino in fondo il suo percorso democratico, con la discussione in Parlamento e, semmai, il voto popolare.

Non credo nemmeno che la nostra Conferenza si trovi attualmente nella posizione di inserirsi nel dibattito, al limite in modo critico, dopo che per anni è stata zitta oppure non è stata ascoltata. Mi limiterò invece a fare una specie di «esercizio accademico» per riflettere sulla nostra scuola partendo dalle proposte dell’iniziativa: ma questo, naturalmente, è un parere del tutto personale.

Un’ultima precisazione prima di entrare nel merito: l’invito a sedermi qui questa mattina mi è giunto giusto una settimana fa. Ogni riga dell’iniziativa scatena in me una ridda di considerazioni che, quasi sempre, meriterebbero un approfondimento più scientifico: cosa che non ho potuto fare per ragioni che mi paiono evidenti.

CDD 002

Apparentemente le proposte sono di tre tipi: di ordine sociale, di ordine pedagogico e di ordine amministrativo. In realtà i tre grandi capitoli riassumono qualcosa come una ventina e più di riforme e/o cambiamenti, che toccano la scuola dell’infanzia e quella elementare, nonché servizi para-scolastici, direzioni, circondari e così via. Immagino che, nel dettaglio delle proposte, conosciate l’iniziativa meglio di me. In ogni modo, più che come direttore di una scuola comunale, mi esprimerò come pedagogista e osservatore dei sistemi formativi.

CDD 003

Da sempre la scuola ha svolto anche un ruolo sociale, di sorveglianza dei bambini, per permettere ai genitori di lavorare. Nell’800 ciò era fondamentale, soprattutto per l’asilo, mentre quando i ragazzi crescevano il problema si capovolgeva: i genitori preferivano tenere i figli a casa, per dare una mano nei campi, piuttosto che mandarli a scuola. È una preoccupazione che ben traspare dalla prima Legge della scuola, del 4 giugno 1804:

CDD 05

Più difficile, invece, è capire come mai permanga oggi questa valenza sociale della scuola, che non è più adeguata ai tempi, dal momento che il mondo del lavoro è cambiato radicalmente ed è in continuo movimento.

CDD 004

Le ipotesi possono essere diverse.

Votazione del 18 febbraio 2001 sui sussidi alle scuole private

Si tratta di rivendicazioni che hanno assunto grande importanza soprattutto in occasione della votazione del 18 febbraio 2001 concernente il sussidio alle scuole private. Come si ricorderà, la campagna in vista della votazione si era occupata in maniera spropositata, a mio modo di vedere, proprio di tali servizi, di cui spesso le scuole private erano già dotate.

Ricordo che Franco Zambelloni era intervenuto a un certo punto chiedendo se si stesse discutendo del primato della scuola pubblica e del suo progetto di educazione dei futuri cittadini attivi oppure se il problema erano le mense, i doposcuola e gli asili a orario prolungato. A mente mia si tratta essenzialmente di un problema di natura sociale e socio-economica, che come tale avrebbe dovuto essere affrontato.

La LSiSe si occupa anche di trasporti, mense e doposcuola

Un primo peccato originale che ha probabilmente originato questo malinteso – chiamiamolo pure così… – risiede proprio nella LSiSe del 1996, che dedica alcuni capitoli proprio ad alcune di queste problematiche. Ma perché la LSiSe ha sentito la necessità di occuparsi di questi temi, che le competono solo marginalmente?

  • all’epoca il problema era più marginale e toccava per lo più solo alcune fasce di popolazione e alcune scuole;
  • contiguità tra l’allora capo dell’UIP e qualche direttore più vicino a questi temi.

Un nuovo paradigma sociale, che richiederebbe forse un altro ruolo dello Stato

  • Almeno fino ai primi anni ’70 vi era una più marcata corrispondenza tra gli orari della scuola e quella del mondo del lavoro.
  • La scuola dettava i ritmi della società; per esemplificare: nessuno si sarebbe sognato di aggiungere settimane di vacanza alle normali vacanze scolastiche.
  • La famiglia-tipo era caratterizzata, tra l’altro, da una moglie-madre-casa­lin­ga, e l’orga­niz­za­zione delle vita sociale ruotava attorno ai ritmi dettati dalla scuola.
  • Inoltre, almeno fino alla prima crisi del petrolio (1973), il salario del capo-famiglia permetteva un sostentamento decoroso dell’intero nucleo familiare.
  • Nel trenta/quarantennio successivo abbiamo assistito all’emergere di ben altre problematiche, che oggi presentano famiglie dalla struttura molto più variegata.
  • La famiglia odierna si è assottigliata, almeno dal punto di vista statistico (-> meno figli).
  • Possiamo raggruppare le nuove famiglie attorno ad alcune caratteristiche assai diffuse:
    • famiglie mono-parentali;
    • famiglie che, nel territorio in cui abitano, non hanno parenti sui quali contare per la gestione familiare, magari anche solo per momenti di piccola emergenza;
    • doppi redditi “obbligati”, nel senso che con un unico reddito non si garantirebbe un livello di vita almeno sufficiente: cameriere e commessa in un grande magazzino.
    • Si tenga conto che una famiglia con due figli a carico ha bisogno di un salario lordo attorno a 6 mila franchi per garantirsi una vita normalmente “tranquilla”, che magari consente anche qualche breve vacanza…
    • doppi redditi che garantiscono un livello di vita più che dignitoso (Es.: coppia di insegnanti di scuola elementare);
    • doppi redditi che garantiscono un livello di vita almeno “benestante” (Es.: coppia di liberi professionisti).

Non intendo ovviamente entrare nelle scelte individuali di ogni singola famiglia, soprattutto tenendo conto che le vere possibilità di scelta toccano solo queste ultime due categorie (dal dignitoso in su…). È però evidente che sono proprio queste scelte e queste costrizioni che fanno lievitare la necessità di disporre di più mense, più doposcuola e più sorveglianza durante la prima infanzia – il problema non tocca soltanto gli allievi di tre anni, ma anche quelli nati prima, tanto che si sta assistendo alla proliferazione di nidi dell’in­fanzia pubblici e privati.

Un paio di altri aspetti mi sembrano evidenti:

  • Non sono sicuramente le coppie di camerieri e inservienti di cucina che hanno i mezzi per far pressione sullo Stato affinché questo intervenga con ineludibili forme di sostegno.
  • Un ruolo importante nella richiesta di servizi cosiddetti parascolastici – meglio sarebbe dire sic et simpliciter sociali! – è rivestito dagli ambienti economici (grandi aziende come banche e assicurazioni, Économie Suisse, ecc.: tanto che anche HarmoS si occupa di queste cose).

Concretamente la soluzione di queste problematiche in ambito scolastico sottrae molte energie e distoglie l’atten­zio­ne dai veri problemi della scuola: pubblica, laica e democratica.

Soprattutto in tempi contraddistinti da una certa confusione attorno al ruolo e agli obiettivi della scuola, credo che sarebbe ben più legittimo, serio e corretto che fossero i settori sociali dello Stato a occuparsi di queste faccende e non certo la scuola, che ha già le sue belle gatte da pelare.

Mi si permetta, quindi, una semplice osservazione. Il ruolo sussidiario dello Stato dovrebbe prendere in considerazione soprattutto i ceti che vivono coi salari più trasandati. Allora, invece che costringere le coppie di genitori a svolgere lavori men che modesti, sovente con salari scandalosi, converrebbe aiutare le famiglie con contributi finanziari, così da difendere – tra l’altro – il ruolo educativo della famiglia.

Potrebbe darsi che, in futuro, sia lo Stato a doversi occupare dell’educazione dei suoi «cuccioli» fin dalla primissima età. Sarebbe un nuovo paradigma educativo, del quale non conosciamo ancora nulla. Oggi, in ogni modo, da una parte è difficile sostituirsi alla famiglia nei suoi primari compiti educativi e, nel contempo, troppo spesso alla famiglia vengono sottratte le possibilità concrete di occuparsi dei figli, salvo poi metterle alla gogna, soprattutto mediatica, quando le famiglie sono latitanti e i figli adolescenti delinquono.

Insomma: più mense, più doposcuola e più asili nido.

Ma chiediamoci: a chi giova realmente?

CDD-06In realtà gli ultimi due punti fanno parte, secondo la presentazione dell’iniziativa, degli aspetti organizzativi, ma io li ho posti qui.

La reazione del Consiglio di Stato

Proprio in questi giorni sono in atto alcune scaramucce tra Governo e iniziativisti. Per il momento il Governo ha dato qualche risposta, come ad esempio il potenziamento del sostegno pedagogico (con cantonalizzazione), una specie di “liberalizzazione” del docente di appoggio (più di forma che di sostanza, a dire il vero), il coordinamento dei programmi (HarmoS), … I proponenti, dal canto loro, chiedono che l’iniziativa vada in Parlamento entro aprile e che, in caso di quasi sicuro voto contrario, l’iniziativa sia sottoposta al popolo.

A scanso di equivoci: al di là del giudizio che ognuno di noi può dare all’iniziativa – che, lo ricordo, è riuscita a furor di popolo – sarebbe meglio se fosse rispettata la normale procedura entro i tempi stabiliti. Trovo molto “alla ticinese” questo tergiversare e cambiare qualche carta in tavola. Se l’iniziativa è stata lanciata e se ha raccolto tali e tanti consensi, significa che nel corso degli anni qualcuno è riuscito a far passare nell’opinione pubblica la convinzione che quanto proposto s’ha da fare.

D’altra parte lo stesso ministro Gendotti aveva scritto a suo tempo che il discorso sul numero di allievi per classe non poteva essere affrontato per motivi finanziari. Ergo: anche lui è d’accordo col principio, ma purtroppo non ci sono i soldi. Attitudine fuorviante, a mente mia: perché se fosse convinto della bontà della proposta dovrebbe darsi da fare per perseguire l’obiettivo. In sostanza, nondimeno, di voci critiche nei confronti di quest’ammucchiata di proposte, sino ad oggi se ne sono lette o sentite ben poche. Si può dunque immaginare che, in votazione popolare, l’iniziativa potrebbe godere di un ampio consenso popolare.

CDD 07

A parte i temi sociali, di cui ho già detto, molte parti del testo dell’iniziativa si basano su alcuni dogmi che sono divenuti tali nel corso dei decenni, benché non abbiano delle solide basi scientifiche. Il meccanismo è un po’ quello che crea le cosiddette leggende metropolitane, cioè cose dette e ripetute che, a un certo punto, diventano credibili perché reiterate e fatte proprie da un gran numero di persone. Nel nostro caso il gran numero di persone avvalora ancor più la scientificità degli assunti, dato che sono insegnanti, direttori, ispettori e operatori del settore.

Vediamone un qualcuno, di questi dogmi.

La diminuzione del numero di allievi per classe aumenta la qualità dell’educa­zio­ne e dell’istruzione

Non vi sono dati scientifici a comprova di questa tesi. A volte – a parità di caratteristiche socio-culturali – l’affermazione è vera, altre volte è falsa. Quasi sempre i cambiamenti non dipendono dal numero di allievi, ma da altre variabili, le più importanti delle quali sono:

  • le caratteristiche cognitive e socio-culturali degli allievi;
  • le scelte didattiche e pedagogiche, nonché il grado e il ritmo di differenziazione dell’inse­gnante (cioè l’insegnamento);
  • le modalità e le aspettative degli strumenti di controllo (valutazione).

Faccio un esempio.

Nella primavera 2009 ho ripreso la prova cantonale “Problemi di matematica” dell’anno precedente. Ho modificato i dati e l’ho somministrata alle mie sezioni di 5ª. A differenza della prova cantonale, però, somministrazione e correzione sono state fatte da una persona esterna. Su 6 classi, 4 avevano 20 allievi, una 19 e una 21: quindi, praticamente, classi uguali da questo punto di vista. Per sede la composizione delle classi era comparabile dal profilo socio-culturale.

Eppure:

  • ai Saleggi una classe ha ottenuto il 95.4% di riuscita (80.9% l’allievo peggiore);
  • le altre 3 tra il 79.8% e il 71.9%. La differenza è dunque stata molto significativa;
  • a Solduno una classe ha raggiunto l’85.3%, l’altra solo il 72.1%.

Un altro esempio.
CDD 08

Sul rapporto tra numero di allievi per classe e qualità almeno dell’istruzione si potrebbe ancora parlare a lungo.

La pluriclasse è un ostacolo verso un insegnamento di qualità: più sono le classi, più diminuisce la qualità

Noto in entrata che, in base all’iniziativa, questo dogma vale solo a partire dalla scuola elementare. Si vede che alla SI non si insegna…

Secondo alcuni autori – coi quali concordo pienamente – la pluriclasse è una ricchezza e non un impedimento. La pluriclasse diventa un ostacolo quando l’insegnamento è centrato essenzialmente su attività ex cathedra, con lezioni frontali, esercizi omologati, nessuna parvenza di differenziazione e di applicazione di metodi attivi, al massimo tentativi di individualizzazione per il recupero degli allievi più in difficoltà.

Tutti i docenti sono bravi

Prendo in prestito una definizione di Zambelloni: sappiamo tutti che accanto a docenti straordinariamente bravi ve ne sono altri solo normalmente bravi. Diciamo che il docente straordinariamente bravo otterrà buoni risultati con tanti o pochi allievi, in situazione di mono- o pluriclasse.

Le valutazioni espresse dagli insegnanti sono scientifiche e, quindi, attendibili

 

CDD 09

Eppure sappiamo tutti come già nel micro-cosmo dei nostri istituti il valore di un allievo può cambiare in maniera significativa cambiando istituto o, addirittura, anche solo cambiando insegnante. Nella classe migliore delle prove di matematica che ho citato prima, c’era un allievo particolarmente problematico. In matematica aveva ricevuto 3½ in 4ª, 4 in 3ª, 4½ nel I ciclo. Unanimemente – famiglia compresa – si riteneva che «non era tagliato per la matematica». Eppure in quella prova ha raggiunto una percentuale di riuscita dell’86%.

CDD 10

Nessuno, però, si assume il rischio di parlare della formazione:

  • profilo professionale dei docenti, speciali compresi, degli ispettori e dei direttori e conseguenti necessità nella formazione di base o nelle condizioni di accesso alla funzione;
  • ruolo della formazione continua e articolazione tra compiti della scuola e istituti per la formazione degli insegnanti;
  • controllo serio dei risultati: cosa imparano i nostri ragazzi?

Per andare a concludere

A inizio ’900 il nostro Governo aveva parecchie preoccupazioni nei confronti della scuola: problemi di igiene, di formazione dei maestri, di distanza della scuola dal domicilio, senza scordare la necessità – presente fino ai primi anni del XX secolo – di convincere le famiglie a mandare i figli a scuola. Non poteva mancare, già allora, il numero di allievi per classe, anche se le dimensioni del fenomeno erano altre:

CDD 11

[Scuole sta per classi].

Vediamo che la media cantonale ruotava attorno a 30. Ricordo che per la SE il numero massimo di allievi per classe era stato abbassato a 25 una trentina di anni fa, solo all’inizio degli anni ’90 per la SI.

All’epoca rimanevano però anche classi di 40, 50 e oltre 60 allievi:

CDD-12C’era infine, il problema delle pluriclassi, dette allora classi plurime. Ancora nel 1890 ci si interrogava:

Nelle scuole la divisione per sesso resterà prevalente, anche se si comincerà ad interrogarsi sull’opportunità di dividere gli allievi per classi di età.

Da questo punto di vista, dunque, si direbbe che alcune preoccupazioni siano rimaste costanti, anche se – ad esempio – il numero delle pluriclassi è molto diminuito, soprattutto in alcune zone periferiche, optando per la creazione di centri scolastici consortili: con quali reali benefici è ancora tutto da dimostrare.

La mia sensazione è che i problemi della scuola vengano in parte nascosti e in parte affrontati col paraocchi. Ma ciò non può stupire, se appena pensiamo, ad esempio, che a partire dal 1978 si è costruita la nuova scuola media sul modello del ginnasio – una scuola selettiva e senza troppa pedagogia – invece che sul modello della scuola maggiore, una scuola che, malgrado le difficoltà, soprattutto nei centri dove c’era il ginnasio, era una buona scuola. Mancano comunque delle visioni, mentre siamo sempre più alla cultura dell’enun­ciato: quando una cosa viene detta o, meglio ancora, scritta – magari in una legge – essa diviene realtà e il problema è risolto:

  • si pensi all’educazione civica nella scuola media, che il Parlamento ha introdotto qualche anno fa;
  • si pensi ai tanti progetti e progettini sulla gestione dei conflitti;
  • si pensi alla nuova politica delle lingue: davvero noi Ticinesi siamo pronti a quindici anni per lanciarci alla conquista del mondo?

È sintomatico il poco interesse generato, due anni fa, dalla presentazione del «Profilo professionale» dei nostri insegnanti, così come esemplare è la completa assenza di dibattito sul come organizzare la quotidianità dell’aula e come, conseguentemente, formare i maestri. In poco meno di 25 anni abbiamo visto sfilare ben tre diverse scuole magistrali:

  • la post-liceale alla fine degli anni ’80
  • l’ASP meno di dieci anni fa
  • e ora il DFA della SUPSI.

Il passaggio dalla seminariale alla post-liceale era stato oggetto di aspri dibattiti; poi, però, più nulla. Ogni volta la Magistrale di turno ha preso delle decisioni interne e tutto sommato sconosciute all’esterno sui curricoli formativi dei nuovi maestri, influenzando in tal modo le pratiche di chi già era in servizio: senza che nessuno fiatasse.

Più il tempo passa, più ci si scosta da tanti insegnamenti del passato. Ciò che prima ci riportava costantemente al principio di educabilità (da Pestalozzi in qua), oggi viene affrontato con le procedure didattiche (che non sono mai state miracolose) e con le figure demiurgiche – i vari docenti speciali, gli psicologi, i docenti integratori, i sostenitori pedagogici… E chissà cos’altro riusciremo ancora a inventare.

Torno un momento agli aspetti di natura sociale, che l’iniziativa propone di risolvere attraverso procedure note: le prime, insomma, che saltano in mente. In altri anni proprio questa conferenza aveva tentato di far partire un dibattito attorno a un nuovo e diverso rapporto tra esigenze della nuova realtà economica e sociale e le finalità della scuola. Così, ad esempio, si era parlato:

  • della scuola a tempo pieno, aperta tutto l’anno, con precise regole di frequenza per allievi e insegnanti;
  • di una diversa articolazione dell’in­se­gnamento delle discipline sull’arco delle giornata; per esemplificare:
    • le discipline essenziali – italiano, matematica, studio dell’ambiente – nella prima metà della giornata;
    • le altre discipline – le arti, l’educa­zio­ne fisica, … – nella seconda parte della giornata, invadendo pure gli orari dell’attuale doposcuola.

Oppure ancora sul numero di allievi per classe: il numero incide a seconda dell’attività che si svolge. A volte serve il rapporto 1/1, in altri momenti anche l’1/40 funziona bene. L’équipe pedagogica – il team teaching – è un modo per facilitare il variare del rapporto: ma come è possibile imboccare questa nuova organizzazione dell’inse­gnamento, se sin dall’entrata nell’istituto di formazione si basa l’insegnamento sul solito tris «Un maestro, un’aula, un gruppo di allievi»?

Come ho detto all’inizio, potrei naturalmente continuare ancora per molto, ma è meglio che mi fermi qui. Si dice che Berlusconi, prima di scendere in campo, abbia instupidito gli italiani con le sue televisioni. Vorrei far notare che quei canali televisivi sono molto seguiti anche nel nostro Cantone, sin dai primi anni ’80. Tutto ciò mi fa temere che prima o poi dovremo dare ragione a Ivan Illich, che già nel 1971 perorava la descolarizzazione della società.

Nel frattempo, a furia di perseverare nella nostra quasi atavica attitudine autoreferenziale, ci sarà il rischio di arrivare a una liberalizzazione del mercato della scuola: alla faccia di chi crede ancora nella scuola pubblica.

Ma – mi chiedo ogni tanto – ci crediamo tutti per davvero?

CDD 13

Bibliografia

  • MARZIO CONTI, Storia della scuola ticinese dal punto di vista dell’allievo (XIX-XX), 2004
  • ROBERT DESNOS, “Le pélican”, in Chantefables et chantefleurs, 1970 (postumo) – La filastrocca è citata da Jean-Pierre Bourdieu e Claude Passeron come prologo a La reproduction. Éléments pour une théorie du système d’enseignement, Minuit, 1970
  • WALO HUTMACHER, Quand la réalité résiste à la lutte contre l’échec scolaire, 1993, Genève, Service de la recherche sociologique

Insegnare come si deve è più difficile che dare le note

Era ora. Ci son voluti più di dieci anni di critiche e di proteste affinché, per diventare docente di scuola media, fosse possibile ottenere l’abilitazione – vale a dire il bagaglio di conoscenze e competenze per saper insegnare – frequentando il Dipartimento Formazione e Apprendimento della SUPSI (DFA) e, nel contempo, svolgere un’attività lavorativa. Era dal 2002, con l’istituzione dell’Alta Scuola Pedagogica e tutto l’ambaradan di regole spesso incomprensibili, che per insegnare alla scuola media era necessario conseguire prima la laurea nella disciplina e poi – ma solo poi – il diploma di docente. Adesso tutto sembrerebbe rientrare nella logica. In dicembre il Consiglio di Stato ha sottoposto al Parlamento il messaggio per la modifica legislativa volta a introdurre la possibilità di svolgere l’abilitazione alla docenza in parallelo a una professione; e a metà gennaio la direzione del DFA ha presentato alla stampa il suo nuovo modello formativo, che dovrebbe entrare in funzione già nel settembre prossimo, a meno di un’improbabile melina da parte del Gran Consiglio.
Naturalmente non sarà questa modifica strutturale che, da sola, potrà risolvere i gravi problemi. Come forse si ricorderà, in questi dieci anni le critiche alla scuola magistrale (ASP, DFA) sono state pesanti, fino a far dire a più d’uno che agli insegnanti di scuola media si chiedeva «troppa pedagogia», sottintendendo la condanna senza appello di tutto ciò che dava corpo all’abilitazione: superflui cavilli psico-peda-socio-didattici, mentre in realtà è poi sufficiente «sapere le cose»… Eppure è sempre più urgente immettere nella scuola media insegnanti capaci e preparati, il che significa che, accanto all’irrinunciabile conoscenza della propria disciplina, non si può prescindere da un bagaglio di competenze professionali che trasformano il laureato in un insegnante preparato e, perché no?, avvincente.
La scuola media resta una scuola molto selettiva, di solito più propensa ad assegnare valutazioni che a insegnare: compito difficile quant’altri mai, soprattutto considerando che gli studenti sono adolescenti alle prese col male di crescere. Lo sanno bene allievi e genitori quale sia la trafila di test che scandisce il passare dei mesi e degli anni scolastici, un vero percorso a ostacoli inutile e costoso, che non educa e non dà solide competenze disciplinari: tanto che metà degli allievi, giunti al termine della scolarità obbligatoria, non potrà far altro che abbracciare un apprendistato, mentre l’altra metà avrà l’opportunità di frequentare la scuola media superiore, spesso facendosi bastonare durante il primo biennio. Una bella frustrazione.
Sarà quindi con curiosità e grande attenzione che seguiremo la qualità della formazione pedagogica e didattica che il DFA saprà trasmettere ai futuri insegnanti della scuola media, affinché anche quest’ultimo fondamentale segmento della scuola dell’obbligo si trasformi in un luogo protetto in cui ogni allievo acquisisca al suo massimo livello di potenzialità le discipline fondamentali – l’italiano e la matematica, ma anche la storia, le scienze, le arti, le lingue, … – e che, nel contempo e trasversalmente, impari a praticare le regole del nostro vivere civile, primariamente improntate sul diritto. Perché questa sarebbe la scuola di cui il Paese ha bisogno per educare alla cittadinanza: una scuola dove si impara con impegno e dove le regole della convivenza non sono un optional o, peggio, un tribunale permanente.