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Gli auguri di rito e il rito degli auguri

A volte ho la sensazione che fare gli auguri nei momenti più tradizionali – per il compleanno, a Natale o per il nuovo anno – sia uno di quegli automatismi un po’ ipocriti, come chiedere «Come va?» a uno che incontri per caso (e glielo chiedi sapendo che, dopo pochi minuti, ti sarai scordato dell’eventuale risposta, a meno che l’Incontrato Per Caso non ti abbia rivelato, spesso per ragioni freudianamente misteriose, d’essere preda di sfighe mediche o socio-affettive poco o punto felici e invidiabili).

Ho un amico che fino a poco tempo fa, se gli mandavo qualche augurio di rito, tipo «Buon Natale» o un più laico «Buon anno», mi cazziava neanche l’avessi insultato pesantemente. Eppure l’altro giorno ho ricevuto un suo messaggio, che mi ha sbalordito: Tanti auguri, mi ha scritto a poche ore da Capodanno.

D’accordo, non ha sprecato la sua fantasia, abitualmente traboccante.

Ma ha fatto bene, al di là degli editti di quando i sessant’anni gli sembravano lontani: Tanti auguri, tutto lì. Detto da lui per me ha significato molto. Perché ha scritto a me, non ai soliti undisclosed-recipients della posta elettronica.

Allora, in questi primi scorci del 2017, voglio rivolgere un augurio pedagogico ai miei lettori, quelli fedeli e quelli occasionali, partendo da Snoopy, l’eroico e imperturbabile peanut di Charles Schulz: «Educare non è riempire un secchio, ma accendere un fuoco».

Ha scritto Paola Mastrocola: «Noi, quando uscivamo dalla lezione di un maestro, camminavamo per un bel po’ a un metro da terra. Diciamo che quel metro da terra fa la differenza. […] Diciamo che forse questo contraddistingue un maestro: ti contagia. […] Un insegnante che non insegna procura un danno davvero incalcolabile al singolo allievo, e quindi anche all’intera società: condanna all’ignoranza, […] quindi al vagolamento professionale infinito». [La scuola raccontata al mio cane, 2004, Guanda editore. Vedi anche la mia recensione sul Corriere del Ticino: Quella scuola che sfrittella il pensiero].

In un suo romanzo successivo [Non so niente di te, Torino, Einaudi, 2013], c’è un passaggio esemplare. Fil, il protagonista, uno studente modello iscritto a economia, a un certo punto comincia ad andare sempre meno a lezione, anche se «Lo sa che suo padre soffrirebbe, che se ne farebbe una colpa». Ma «andando sempre meno a lezione, trova il tempo. Il tempo di leggere moltissimo, per esempio. La biblioteca diventa la sua nuova tana. Si mette lì e tutto il resto della vita gli sparisce. Via gli esami, i compagni, la crisi dei mercati, i genitori… Restano solo i pensieri, le idee. Cose aeree, leggere. Astrazioni. Altri mondi. Dov’è escluso che ti trovino.

Fil ci va quasi tutti i giorni, e ci resta fino a tardi. Fa una cosa sola: si prende un libro e se lo divora, piano, un pezzetto al giorno. Ci va anche la domenica, così gli riesce di azzerare un po’ quella malinconia, quella morsa di vuoto che ti prende ogni domenica, cascasse il mondo, qualunque cosa fai, tutte le domeniche della tua vita. È lì che scopre i classici. Il secondo anno a Londra, in biblioteca. Affonda. Affonda nella lettura. Adam Smith, Schumpeter, Von Hayek, Ricardo, Milton Friedman, Keynes… E Robert Solow, soprattutto lui, un classico vivente…

Preso da quelle letture intense, assolute, comincia a non studiare più. A non studiare più per gli esami, cioè secondo quella particolare forma di studio non libero, finalizzato al superamento di una prova: un’attività competitiva, più che altro, ben poco rilassante, solo utile (ma utile a che cosa, poi?)».

Auguri, appunto.

Per capire e (ri)conoscere la barbarie

Agosto 1942: arrivo a Treblinka
Agosto 1942: arrivo a Treblinka

Faccio fatica a capire se la scuola di oggi sia (ancora?) capace di uscire dalle sue quattro mura per occuparsi dei temi più sensibili che interrogano l’Occidente e la comunità in cui viviamo, affinché la sua opera di mediazione culturale e pedagogica continui a difendere e marcare il suo primato politico, quasi la sua ragion d’essere: scuola pubblica e obbligatoria, scuola dello Stato per educare cittadini informati, interessati alla res pubblica, capaci di orientarsi in una società difficile e variegata, in grado, nel contempo, di non lasciarsi deprimere e di non gettare la spugna, accogliendo col sorriso il canto facile delle sirene ammaliatrici, le moderne vestali che invitano al Panem et circenses, che proprio di questi tempi sembra godere di una nuova età dell’oro.

A volte si ha l’impressione che, oltre gli enunciati di principio e i piani di studio così ben dettagliati, spiegati e strutturati, nelle aule scolastiche si fatichi a tenere la barra al centro, perdendosi in innumerevoli gabbie didattiche che se ne vanno per conto loro, inseguendo risultati e rendimenti che servono proficuamente al lavoro di selezione economica e sociale, ma si allontanano in maniera surrettizia dalle vere finalità dell’essere a scuola, quella pubblica (e, per qualche anno, pure obbligatoria).

Ne ho parlato più volte, negli ultimi mesi. Oggi voglio segnalare due libri tanto vicini ai miei amori pedagogici e alle inquietudini che mi accompagnano.

eduquer-apres-les-attentatsIl primo è fresco di stampa, in libreria dall’estate scorsa. È di Philippe Meirieu, un autore che si incontrata spesso nel mio blog. Potrebbe sembrare il solito instant book, messo lì per accalappiare un po’ di gonzi. Ma non è così. Dopo «L’École ou la guerre civile», scritto in tempi insospettabili (1997) col giornalista Marc Guiraud, ecco ora «Éduquer après les attentats».

Leggo nella scheda di presentazione: I terribili attentati del 2015 e del 2016 hanno scosso profondamente il nostro paese – anche il mio, a dirla sinceramente. Gli insegnanti sono ampiamente sguarniti a questo livello, si pongono un insieme di “domande vitali”: cosa fare, giorno dopo giorno, per permettere a tutti i nostri ragazzi di scoprire l’importanza del rispetto dell’altro, della fraternità e della costruzione del bene comune? Quali ideali offrire a chi, non potendo accedere a un impiego e al consumo, vede nell’integralismo religioso l’unica maniera di darsi un’identità?

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Attraverso venti capitoli molto chiari, fondati su situazioni reali, Philippe Meirieu si sforza di rispondere a queste domande: senza imposture, né peli sulla lingua. Il volume – conclude la presentazione – è rivolto a insegnanti e educatori, e a tutti coloro che vogliono una democrazia in cui ognuno abbia il suo posto… e dove non esistano più tentazioni stimolate dalla violenza più barbara.

Le quasi 250 pagine del libro, appassionanti e appassionate, mantengono le premesse: fossi stato ancora un insegnante ne sarei rimasto stregato.

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E vengo all’altro volume, pubblicato nel 2012. Stavolta si tratta di un libro illustrato per ragazzi, tradotto e pubblicato in italiano dall’editore Junior nel 2013. Il testo è nuovamente di Philippe Meirieu, le illustrazioni sono di Pef. Si intitola «Korczak, Perché vivano i bambini» e racconta la storia di Janusz Korczak, pedagogo, scrittore e medico polacco, nato a Varsavia nel 1878, morto nel campo di sterminio di Treblinka il 6 agosto 1942. Di Korczak avevo già scritto nel settantesimo della sua morte (A settant’anni dalla morte di Korczak a Treblinka).

È un libro bello da guardare e intenso da leggere, con una struttura originale. Nella prima parte c’è il racconto della sua avventura umana e intellettuale, dalla fine dell’800, quando si chiama ancora Henryk Goldszmit e, nella Polonia occupata dall’armata russa, diventa insegnante dei bambini che vivono nei quartieri più discosti e disagiati; fino al drammatico epilogo in uno dei più importanti centri di sterminio del regime nazista, dove seguì i centonovantadue bambini, ospiti della “Casa degli orfani”, da lui fondata nel ghetto ebraico di Varsavia, e i dieci adulti che lavoravano con lui.

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Accanto al racconto, scritto con linguaggio chiaro e accessibile, ma non banale né scioccamente moralista, scorrono le immagini di Pef e alcune riflessioni di Janusz Korczak. Le ultime pagine del libro – introdotte dal titolo Korczak, l’amico dei bambini – propongono alcuni dati essenziali della sua vicenda intellettuale e umana: le date della sua vita, il suo impegno per affermare i diritti del bambino, l’antisemitismo e la Shoah, alcuni significativi estratti dalla sua opera Re Matteuccio I, il Re bambino (Król Maciuś Pierwszy, 1922), assieme ad alcune immagini documentarie.

È un libro avvincente, che offre tanti spunti anche sui temi affrontati in «Éduquer après les attentats», un libro per ogni persona che si occupa di educazione.

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PHILIPPE MEIRIEU, Éduquer après les attentats, 2016: Paris, ESF éditeur

PHILIPPE MEIRIEU et PEF, Korczak, pour que vivent les enfants, 2012: Rue du Monde éditeur; traduzione italiana: Korczak. Perché vivano i bambini, 2013: Bergamo, edizioni Junior (ISBN 978-88-8434-526-4, 56 pagine)

L’immagine che apre questo articolo e le altre citazioni illustrate sono tratte da Korczak, pour que vivent les enfants.

La scuola nel libero mercato: riecco gli istituti privati

Toh, chi si rivede!? Sergio Morisoli, con Paolo Pamini, ha presentato un’iniziativa parlamentare intitolata «La scuola che vogliamo: realista». Scopo dichiarato: riformare l’attuale Legge della scuola. In un riassunto per chi è di fretta si elencano ventotto principi fondatori di una scuola di destra: se ne sentiva la mancanza. Da dritta a manca è tutto un tratteggiare scuole che verranno. Manuele Bertoli, socialista e direttore del dipartimento dell’educazione, ha già detto la sua, sollecitato dal Corriere. A domanda «Quali le misure problematiche o molto problematiche?», ha risposto con inusuale prudenza, affidando una risposta più articolata al normale percorso degli atti parlamentari.

Ma qualcosa ha detto. Ad esempio che «Il finanziamento delle scuole private, anche parziale, è senza dubbio problematico», anche «perché il popolo ha detto molto chiaramente la sua nel 2001». Oddio, sono passati tre lustri, che, di questi tempi febbrili e smemorati, è quasi un’era geologica. Avevo subito avuto l’impressione che la grande fiducia ottenuta quell’anno dalla nostra scuola fosse stata dilapidata nel breve tempo della vita effimera di una farfalla. In questa rubrica avevo pubblicato un articolo nel febbraio del 2002 – «Che ne è stato del 18 febbraio?» – in cui evocavo, tra tante persone e cose, la lettera di uno studente liceale che segnalava una riforma in corso, «che sfavorisce il settore umanistico, aumenta la selezione» e tende «a sottomettere la formazione agli interessi del mercato». Naturalmente la scuola realista sognata da questa destra non è la stessa di quella che la sinistra dice che ci sia già, almeno in parte, o vorrebbe che ci fosse, migliorata. Nei quasi trenta enunciati, che si configurano come «le maggiori novità della proposta», si leggono asserzioni non sempre fresche di pensata: una scuola pubblica anche un po’ privata; civica obbligatoria e religione a doppio binario; mantenimento della valutazione con i voti; difesa di un percorso selettivo a livelli; e via conservando.

Non mancano neanche le idee innovative, come la decentralizzazione del potere scolastico dal dipartimento agli istituiti scolastici: d’accordo, ma a condizione che resti il primato della Scuola pubblica e obbligatoria, un’istituzione al servizio dello Stato, come l’esercito o la giustizia. Delle sparate liberiste, secondo cui il mercato risolve tutto, ne abbiamo piene le tasche. Infatti la sensazione che si prova leggendo il corposo documento della destra nostrana è che si voglia realizzare un sistema scolastico che non faccia perdere tempo: è chiaro a tutti che chi nasce nella famiglia giusta avrà tante probabilità di riuscire bene a scuola e di proseguire il suo cammino verso la ricchezza e il potere, senza troppi affanni. Perché, allora, perdere soldi e tempo a causa della menata delle pari opportunità? Quel febbraio del 2001, quando il Ticino si scoprì convinto difensore dell’istituzione «Scuola», sembra lontano. Ora siamo ad HarmoS, coi suoi piani di studio, le competenze e un gran brulicare di attività convulse. Poi si riprenderà il filo della scuola che verrà, e sarà curioso capire fino a che punto il paese saprà resistere alle sirene liberiste: che non sono nuove, perché di veramente nuovo, sotto il sole della scuola, c’è poco o nulla. Altre istituzioni – l’esercito, la giustizia, addirittura le chiese – nell’ultimo mezzo secolo son cambiate di più.


P. S.: Il domenicale Il Caffè del 25 settembre aveva dedicato un ampio servizio alla proposta di Morisoli e Pamini: La scuola-azienda finisce dietro la lavagna. In quell’ambito era pure apparsa una breve intervista a me (L’intervista/2: “La formazione umanistica fa capire le trasformazioni”).

Un amico e collega mi aveva mandato un breve messaggio: «Secondo me a queste domande va dato più spazio per le risposte, per l’approfondimento, altrimenti chi ti conosce condivide perché sa cosa c’è dietro, gli altri non sono sicuro che colgano il senso». Sono naturalmente d’accordo, è il rischio delle interviste telefoniche, improvvise e incontrollabili. In questo senso l’articolo sul Corriere del Ticino di oggi può fare un po’ di chiarezza.

Tra l’altro avevo chiosato questo problema in occasione di un’altra breve intervista dello stesso settimanale: si veda il post L’inclusione non esclude di per sé la selezione, del 30 marzo scorso.

Cinema a scuola, per l’etica e l’estetica

«La scuola che non si occupa di cinema perde il contatto con la realtà».

È un’affermazione forte, questa di Gino Buscaglia, presidente di Castellinaria, il Festival internazionale del cinema giovane, che giungerà alla XXIX edizione in novembre.

Castellinaria_logo

La dichiarazione, riportata dal Giornale del Popolo, rinvia alla tradizionale conferenza stampa organizzata nell’ambito del Festival del Film di Locarno per presentare la prossima edizione di Castellinaria, che propone quest’anno una novità di grande interesse: una giornata di studio per i docenti della Svizzera italiana di ogni ordine di scuola, che prevede, dopo alcune relazioni introduttive, l’esposizione di diverse esperienze di educazione all’immagine – e al linguaggio cinematografico in particolare – già vissute o attualmente in corso nelle nostre scuole.

«L’obiettivo – ha spiegato il presidente di Castellinaria – è quello di riflettere, con gli insegnanti, sull’opportunità di incrementare nel mondo della scuola gli spazi/tempo da dedicare a questo genere di attività e di esperienze educative».

Buscaglia batte ’sti chiodi con ostinazione e passione da almeno mezzo secolo. Sotto la sua presidenza, e con la direzione di Giancarlo Zappoli, Castellinaria si è evoluto qualitativamente e quantitativamente, tanto che oggi è una bella e radicata manifestazione che caratterizza l’autunno culturale e pedagogico del Cantone.

Per evitare sciocche sviolinate, meglio dire senza attardarsi che Gino Buscaglia, genovese cresciuto in riva a quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno, l’ho conosciuto nei primi anni ’70 del secolo scorso, durante un’edizione del Festival del film di Locarno, lui inviato del Giornale del Popolo (e, mi pare, del mensile Sipario), io improbabile fotoreporter e impiegato del Festival, forse come “caposala” al cinema Pax…

Locarno 1976
Una testimonianza archeologica: è il Festival del film di Locarno del 1976, quando il vodese Francis Reusser si aggiudicò il pardo d’oro (e noi lo fischiammo), passò Jonas qui aura 25 ans en l’an 2000 di Alain Tanner e la giuria FIPRESCI conferì un premio speciale a Salò o le centoventi giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, ammazzato neanche un anno prima. Io sono quello di spalle. L’autore dello scatto è ignoto.

Siamo diventati amici, e più volte l’ho coinvolto professionalmente, proprio perché credevo e continuo a credere che la settima arte dovrebbe trovare nella scuola, a partire da quella dell’obbligo, un suo ruolo sostanziale e autorevole, al pari di tante altre arti più celebrate: penso al teatro e alla letteratura, alla pittura e alla poesia, alla musica e alla scultura…

Chiusa la parentesi nostalgico-biografica (ebbene sì, nel ’76 avevo 23 anni), torniamo alla recente dichiarazione del presidente di Castellinaria: «La scuola che non si occupa di cinema perde il contatto con la realtà». Concordo col Gino.

Solo che la scuola il contatto con la realtà l’ha perso da tempo ormai immemore. Ho scritto nel maggio scorso (La scuola per il Paese di domani tra il progresso e i gattopardi) che «La scuola obbligatoria è forse quella che, tra tante istituzioni pubbliche, si è riprodotta negli anni infinitamente uguale a sé stessa (…), aggrappata a consuetudini ormai secolari».

Proviamo a dare un’occhiata alla realtà: che ne è stato della letteratura e della poesia, per restare a due arti intimamente legate alla tradizione della scuola?

Senza pensare alla musica, che pure ha un posto nelle griglie orarie settimanali, altre forme artistiche sono confinate nelle pause tra un test e un consiglio di classe, sebbene allievi e studenti si emozionino di fronte a proposte culturali che esulano dai percorsi un po’ tecnocratici della scuola contemporanea: penso, per indugiare su mie esperienze recenti, ai ragazzi della scuola elementare a contatto con Ovidio (A cosa potrà mai servire proporre Ovidio a ragazzini di dieci anni?), ai liceali locarnesi che hanno assistito allo spettacolo teatrale «Donna non rieducabile – Memorandum teatrale su Anna Politkovskaja» (Esercizi di cultura nella scuola) o, ancora, alle proposte musicali dei «Concerti per le scuole», che hanno già superato le cinquanta edizioni (Dalla Russia con passione: un’altra avventura con la musica per le scuole).

La storia dell’educazione al cinema e ai mass-media è disseminata di ideologismi e forzature, e dura da oltre mezzo secolo. Fanno bene a insistere Castellinaria, i suoi dirigenti, il DFA (Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI) e il DECS (Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport), che  sostengono questo festival del cinema giovane.

«Cinema e Scuola: quali sinergie?», la giornata di studio per gli insegnanti organizzata e voluta da Castellinaria, è un nuovo e importante contributo a questa causa. Il rischio, come spesso accade, è che parteciperanno solo quelli che hanno già le loro convinzioni al proposito: plauso a loro e a chi ha voluto incontrarli per riflettere insieme. Ma è giusto, e nel contempo inutile, farsi troppe illusioni.

Senza le discipline scolastiche ingabbiate nelle griglie settimanali, con tanto di certificazioni al seguito, la scuola si sente svuotata della propria identità e assolutamente incapace di funzionare.

Sicuro!, la scuola dovrebbe occuparsi anche del cinema, per tante ragioni. Il celebre aforisma di Umberto Eco – Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria! Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è una immortalità all’indietro – si applica naturalmente anche al cinema. Occuparsi di cinema a scuola, come di letteratura pittura o poesia, significa pure imparare a confrontarsi con i canoni dell’etica e dell’estetica: che è Educazione vera.

Sarebbe però una sciagura se il Cinema diventasse una disciplina scolastica, coi test e le note.

Dice: «Tutta un’altra scuola! (quella di oggi ha i giorni contati)»

Tutta un'altra scuolaNel mese di luglio il Corriere del Ticino ha dedicato quattro pagine ad alcune segnalazioni librarie da parte delle sue firme (le quattro puntate sono apparse il 7, il 12, il 14 e il 28 luglio). Ho avuto il piacere di poter proporre anch’io un libro, e – pensa te! – ho scelto un argomento scolastico: Tutta un’altra scuola! (quella di oggi ha i giorni contati) di GIACOMO STELLA (2016, Giunti Editore, p. 128, € 10).

Che la scuola di oggi abbia i giorni contati non è ovviamente un dato certo. Ma questo pamphlet è una lettura assai tonica per tutti quelli che soffrono mal di pancia infiniti a contatto con «l’esperienza più importante della nostra vita»: una scuola vecchia con il vestito nuovo. Detto dei «10 motivi per cui la scuola fa male», l’autore spiega come e perché la scuola potrebbe essere un posto dove la paura non esiste, un luogo da cui guardare il mondo dei grandi non per distruggerlo, ma per cambiarlo. Tutto lì.

Trovo utile che sui temi della scuola, la scuola come istituzione, siano pubblicati di tanto in tanto libri per il grande pubblico, fuori da quel grande terreno troppo spesso recintato col filo spinato solitamente gestito dagli addetti ai lavori. Un esempio di due anni fa (che peraltro non mi aveva granché elettrizzato, malgrado il successo editoriale…) è L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, di Massimo Recalcati (2014, Einaudi).

Giacomo Stella è conosciuto in Italia e in Europa per i suoi studi sulla dislessia e, in genere, sui disturbi specifici di apprendimento. Ed è proprio osservando a scuola tanti allievi in difficoltà che è nata la sua riflessione, riassunta nel titolo di uno dei primi capitoli: «La cosa più grave che si può fare a scuola è sbagliare». Appunto.

Eccoli qua, allora, i «10 motivi per cui la scuola fa male (lo faccio per il tuo bene)»:

  1. Non riesci a imparare le tabelline? Devi ripassarle tutti i giorni e fare i calcoli senza la tavola pitagorica. Devi sforzarti, altrimenti non imparerai mai. È per il tuo bene!
  2. Sottolinea tutti i miei errori di ortografia in rosso. Ogni pagina sembra un campo di battaglia. «Correggi tutto e ricopia in bella grafia. È per il tuo bene!».
  3. Devi scrivere in corsivo. Mi rifiuto di leggere i tuoi temi se sono scritti in stampato, eppoi alle medie non si può scrivere in stampatello. Usare il computer? Troppo comodo ragazzo mio, bisogna esercitarsi per ottenere risultati. Lo dico per il tuo bene.
  4. Alle prove di verifica ho sempre tutto il compito come gli altri: fotocopie che non riesco a leggere con parti da completare. Se non riesco a finire la maestra mi fa stare in classe durante la ricreazione per terminare. Gli altri giocano e io scrivo. Perché? «Per il tuo bene!»
  5. L’inglese non lo capisco per niente. Le lettere non si leggono mai allo stesso modo. L’insegnante però dice che devo studiare perché l’inglese è importante eppoi lei non può fare differenze con gli altri. L’inglese è una lingua indispensabile per comunicare. Ma allora, se serve per comunicare, perché non posso impararlo solo all’orale? «È per il tuo bene!».
  6. Non hai risposto con sicurezza all’interrogazione, come al solito non hai studiato abbastanza. Eppoi mi chiedi di essere comprensiva con te, per le tue difficoltà. Cosa dovrei fare? Darti la sufficienza? No, non posso farlo, debbo darti un voto insufficiente, così la prossima volta studierai di più. Lo faccio per te, per il tuo bene!
  7. Non riesco a ricordare a memoria i verbi ma la prof dice che me li chiederà tutti i giorni. Lo fa per il mio bene.
  8. Ho ricevuto una nota perché non prendo appunti durante le lezioni. lo non riesco a scrivere e ascoltare. Ho chiesto di registrare la lezione, ma mi hanno detto che non si può, per la privacy.
  9. Leggere ad alta voce davanti a tutti, incespicandomi a ogni parola con il sottofondo delle risatine dei miei compagni. Perché? «Per il tuo bene».
  10. Non amo la scuola, detesto gli insegnanti e quando i miei genitori mi dicono di studiare mi chiudo in camera mia e ascolto la musica. Lo faccio per il mio bene.

Non si tratta, a ben vedere, di pratiche scolastiche che nuocciono solo a bambini e ragazzi affetti da disturbi particolari, ad esempio di natura neurologica. Sappiamo invece, e lo vediamo giornalmente, che tante abitudini così presenti tra le quattro mura dell’aula arrivano a produrre disagio e insuccesso scolastico per le cause più diverse, dalla plus-dotazione intellettuale alle differenze socio-culturali, passando naturalmente per tante tipologie di disturbi specifici dell’apprendimento.

Che poi la scuola di oggi abbia i giorni contati è ancor tutto da vedere. Come ho scritto più volte in queste Cose di scuola, bisognerebbe avere il coraggio intellettuale e politico di andare a toccare le strutture portanti della scuola stessa, che appare obsoleta a diversi livelli malgrado i continui cambiamenti interni, le riforme, le trasformazioni delle didattiche… Ma, ad esempio, non si è ancora in grado – in particolare nella scuola dell’obbligo – di superare il vetusto e iniquo dispositivo delle valutazioni reiterate, dei voti più o meno inappellabili, delle differenze enigmatiche tra un 4½ e un 5.

Tutta un'altra scuola - INDICE

La lettura di questo Tutta un’altra scuola! è piacevole, disseminata di esempi riconoscibili da chiunque, senza far capo a tecnicismi utili solo a confondere le acque. E tra un tema e l’altro, sempre presi dalla quotidianità, Stella ci conduce per mano dal decalogo introduttivo a un dodecalogo di speranze, per descrivere tutta un’altra scuola, una scuola che è il posto migliore dove andare.

  1. Perché imparare è eccitante e farlo con i miei amici è bellissimo.
  2. Perché i docenti sono sempre disponibili e sorridenti. Puoi chiedergli qualunque cosa, non gli dai fastidio, si può anche scherzare con loro.
  3. Perché posso dire sempre quello che penso ed essere ascoltato dagli altri. Il docente difende la mia idea come quella di tutti gli altri.
  4. Perché le mie idee contano, sono importanti e ho imparato ad ascoltare anche quelle degli altri.
  5. Perché a scuola trovo sempre gli strumenti migliori e si possono vedere e provare sempre le ultime novità.
  6. Perché è un posto dove posso stare quanto voglio e trovare sempre qualcuno che mi ascolta e mi dà nuove idee.
  7. Perché è un posto dove posso scegliere di fare cose diverse: musica, cinema, teatro, sport.
  8. Perché non mi sento mai uno stupido, non ho più paura di sbagliare, sento che quello che faccio è sempre qualcosa di utile.
  9. Perché sto meglio a scuola che a casa da solo e non sempre i miei mi ascoltano.
  10. Perché rispettare le regole non ci pesa. Valgono per tutti e quindi siamo tutti uguali.
  11. Perché siamo tutti belli e brutti, bravi e un po’ stupidi, capaci e incapaci, ma stiamo bene insieme.
  12. Perché la mia scuola è un posto dove la paura non esiste. Siamo tutti insieme, stiamo bene e ci sentiamo sicuri. Guardiamo il mondo da lì, guardiamo il mondo dei grandi, non vogliamo distruggerlo, vogliamo cambiarlo.