A volte ho la sensazione che fare gli auguri nei momenti più tradizionali – per il compleanno, a Natale o per il nuovo anno – sia uno di quegli automatismi un po’ ipocriti, come chiedere «Come va?» a uno che incontri per caso (e glielo chiedi sapendo che, dopo pochi minuti, ti sarai scordato dell’eventuale risposta, a meno che l’Incontrato Per Caso non ti abbia rivelato, spesso per ragioni freudianamente misteriose, d’essere preda di sfighe mediche o socio-affettive poco o punto felici e invidiabili).
Ho un amico che fino a poco tempo fa, se gli mandavo qualche augurio di rito, tipo «Buon Natale» o un più laico «Buon anno», mi cazziava neanche l’avessi insultato pesantemente. Eppure l’altro giorno ho ricevuto un suo messaggio, che mi ha sbalordito: Tanti auguri, mi ha scritto a poche ore da Capodanno.
D’accordo, non ha sprecato la sua fantasia, abitualmente traboccante.
Ma ha fatto bene, al di là degli editti di quando i sessant’anni gli sembravano lontani: Tanti auguri, tutto lì. Detto da lui per me ha significato molto. Perché ha scritto a me, non ai soliti undisclosed-recipients della posta elettronica.
Allora, in questi primi scorci del 2017, voglio rivolgere un augurio pedagogico ai miei lettori, quelli fedeli e quelli occasionali, partendo da Snoopy, l’eroico e imperturbabile peanut di Charles Schulz: «Educare non è riempire un secchio, ma accendere un fuoco».
Ha scritto Paola Mastrocola: «Noi, quando uscivamo dalla lezione di un maestro, camminavamo per un bel po’ a un metro da terra. Diciamo che quel metro da terra fa la differenza. […] Diciamo che forse questo contraddistingue un maestro: ti contagia. […] Un insegnante che non insegna procura un danno davvero incalcolabile al singolo allievo, e quindi anche all’intera società: condanna all’ignoranza, […] quindi al vagolamento professionale infinito». [La scuola raccontata al mio cane, 2004, Guanda editore. Vedi anche la mia recensione sul Corriere del Ticino: Quella scuola che sfrittella il pensiero].
In un suo romanzo successivo [Non so niente di te, Torino, Einaudi, 2013], c’è un passaggio esemplare. Fil, il protagonista, uno studente modello iscritto a economia, a un certo punto comincia ad andare sempre meno a lezione, anche se «Lo sa che suo padre soffrirebbe, che se ne farebbe una colpa». Ma «andando sempre meno a lezione, trova il tempo. Il tempo di leggere moltissimo, per esempio. La biblioteca diventa la sua nuova tana. Si mette lì e tutto il resto della vita gli sparisce. Via gli esami, i compagni, la crisi dei mercati, i genitori… Restano solo i pensieri, le idee. Cose aeree, leggere. Astrazioni. Altri mondi. Dov’è escluso che ti trovino.
Fil ci va quasi tutti i giorni, e ci resta fino a tardi. Fa una cosa sola: si prende un libro e se lo divora, piano, un pezzetto al giorno. Ci va anche la domenica, così gli riesce di azzerare un po’ quella malinconia, quella morsa di vuoto che ti prende ogni domenica, cascasse il mondo, qualunque cosa fai, tutte le domeniche della tua vita. È lì che scopre i classici. Il secondo anno a Londra, in biblioteca. Affonda. Affonda nella lettura. Adam Smith, Schumpeter, Von Hayek, Ricardo, Milton Friedman, Keynes… E Robert Solow, soprattutto lui, un classico vivente…
Preso da quelle letture intense, assolute, comincia a non studiare più. A non studiare più per gli esami, cioè secondo quella particolare forma di studio non libero, finalizzato al superamento di una prova: un’attività competitiva, più che altro, ben poco rilassante, solo utile (ma utile a che cosa, poi?)».
Auguri, appunto.