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Pinocchio e il fascino discreto della lettura

Non so se oggi sia ancora di moda l’esortazione di tanti insegnanti: «Bisogna leggere tanto per imparare a scrivere bene». Ho fatto l’insegnante e poi il direttore di scuola. Quelle sollecitazioni hanno un loro senso, è indubbio; ma contengono un che di moraleggiante, come uno che non sa bene a che santo votarsi e cerca una scusa per trarsi d’impaccio. La correlazione non è automatica: se il tuo insegnante, ad esempio, non è un lettore assiduo e magari – rara avis, ma può succedere – non ha particolari doti didattiche, la lettura come esercizio fine a sé stesso, un compito scolastico come tanti, diventa una (s)tortura semplicemente dannosa.

In buona sostanza è sempre meglio riflettere sul significato di quel che si dice, sennò si rischia di sparare precetti a vanvera, un po’ come quando chiedi Come va? all’incontrato per caso: non ti interessa neanche lontanamente la risposta, e ti meriteresti ogni volta un lungo catalogo di malanni e malesorti, da ascoltare pazientemente. Annuendo.

Non è il momento, proprio quando ci stiamo avvicinando al termine di questo strano anno scolastico, di imboccare lunghe dissertazioni pedagogico-linguistiche. La questione mi è venuta in mente incrociando un po’ per caso (ma proprio solo un po’) l’attività di due professionisti che stimo. Sul Corriere delle Sera del 17 maggio Paolo Di Stefano ha scritto: «Nessuno pensi di liberarsi di Pinocchio, come in fondo ha fatto Carlo Collodi, il quale, dopo aver creato il burattino di legno indomabile e bugiardo, per amore di lieto fine lo neutralizzò trasformandolo in un bravo ragazzo in carne e ossa. E come continua a fare la scuola, che lo ignora tranquillamente da oltre un secolo forse con l’idea che si tratti di un libro per l’infanzia e dunque un genere di narrativa «minore». Si sa che non è affatto così. Le avventure di Pinocchio sono un capolavoro della letteratura italiana, e bisognerebbe avviare una campagna perché la sua lettura diventi obbligatoria. O forse no: meglio evitare il rischio del rigetto scolastico, di cui sono vittima da sempre I promessi sposi» (Pinocchio in cattedra: saggi e convegni anche nelle università).

Cammina, cammina, cammina, alla fine sul far della sera arrivarono stanchi morti all’osteria del Gambero Rosso.

A naso, e guardando alle mie esperienze recenti, direi che nel canton Ticino Pinocchio e le sue avventure accendono ancora amori e passioni, forse perché le vicende del burattino più famoso del mondo non sono mai diventate, neanche a scuola, strumenti di sevizia. Fino a qualche decennio fa Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino erano un intermezzo ai pur piacevoli libri di lettura di Dante Bertolini – che erano solo quattro, uno in meno della durata della scuola elementare. Ecco allora che in 3ª, o più facilmente in 4ª, il romanzo di Collodi era un’inusuale parentesi lunga un anno. Mi verrebbe da dire che i personaggi di questo grande romanzo resistono bene all’usura del tempo e continuano a solcare le nostre aule, come racconti continuati e come letture individuali, ma anche come veri e propri itinerari didattici: forse perché, a parte qualche inevitabile eccezione, Pinocchio non è mai stato usato come strumento di accanimento pedagogico – e il personaggio è avvincente per conto suo.  Che poi, a ben guardare, anche il finale del romanzo – quando Pinocchio diventa leziosamente un bambino – può prestarsi ad altre interpretazioni. Philippe Meirieu, nel suo «Frankenstein pédagogue», libro del 1996 poi tradotto in italiano nel 2007 col titolo Frankenstein educatore, ne dà un’interpretazione divergente e originale.

«Salitemi a cavalluccio sulle spalle e abbracciatemi forte forte. Al resto ci penso io, disse Pinocchio a suo padre. Appena Geppetto si fu accomodato per bene sulle spalle di suo figlio, Pinocchio, sicurissimo del fatto suo, si gettò in acqua e cominciò a nuotare… Ora è ben lontana la piccola peste velleitaria e capricciosa di cui nessuno si sarebbe fidato. Al suo posto c’è un bambino determinato che non esita ad affermare la sua volontà, serenamente e senza violenza; un bambino che ha abbandonato le gesticolazioni disordinate e gli impulsi contraddittori… per stabilire, alla fine, un atto, uno vero, “un atto di coraggio”, direbbe qualcuno: forse, semplicemente, “un gesto da uomo”.

A fare da contraltare a questo intervento preoccupato e combattivo, ecco nuovamente Paolo Di Stefano, ospite di Daniele Dell’Agnola nella puntata del 24 maggio del programma Il bidello Ulisse nella rete dei libri La vera storia di Selim! – durante la quale si è parlato del romanzo I pesci devono nuotare, attraverso tre pareri di ragazze di scuola media, che l’hanno letto, e una chiacchierata con l’ospite della puntata, lo stesso Di Stefano.

Il bidello Ulisse è il personaggio, inventato da Dell’Agnola, che ha mosso i primi passi come protagonista di una rubrica pubblicata nell’inserto culturale del Corriere del Ticino. Nel 2015, pur continuando sporadicamente le incursioni cartacee, Ulisse si è trasferito armi e bagagli su Teleticino: in tre anni ha inanellato quaranta puntate, ha coinvolto un centinaio di allieve e allievi, coi loro insegnanti di una decina di sedi di scuola elementare e media; e, soprattutto, ha presentato ottanta libri, messi di volta in volta sotto i riflettori e gli occhi critici di quei ragazzi che, i libri, li avevano incontrati a scuola.

Insomma, un gran bel segnale (anche se tra gli ottanta titoli, sino a oggi, non è comparso Pinocchio: forse perché non ha più bisogno di promozioni televisive). Anche se…

Anche se non bisogna mai dare nulla per scontato, perché il pericolo è che, un giorno o l’altro, di Pinocchio restino solo le versioni cinematografiche, da quella scioccamente moralista di Walt Disney (1940), allo sceneggiato televisivo di Luigi Comencini (1972) o alla prova di Roberto Benigni (2002), oltre alle innumerevoli rivisitazioni del teatro per ragazzi, che resteranno tali solo fino al giorno in cui il pubblico conoscerà ancora l’originale, con tutti i suoi sani sberleffi.

Qui giace la bambina dai capelli turchini, morta di dolore per essere stata abbandonata dal suo fratellino Pinocchio.

Prima che sia troppo tardi, quindi, conviene tener viva l’anima anarchica di Pinocchio, in modo da custodire la storia di quel pezzo di legno, che piangeva e rideva come un bambino, e che subito dopo aver imparato a camminare da sé e a correre per la stanza, infilata la porta di casa, saltò nella strada e si dette a scappare.


Le due immagini sono tratte dal volume Pinocchios Abenteuer. Eine Geschichte die vor mehr als hundert Jahren in Italien Passierte, mit 60 Bildern von Frl. Martha Pfannenschmid, 1968, Zürich: Silva-Verlag.

Il fascino di imparare per imparare, e creare insieme cose bellissime!

In questo cantone smodato succedono a volte delle “cose” che converrebbe propagandare a dovere, mentre invece se ne viene a conoscenza un po’ per caso. Nel passato fine settimana gli occhi del Ticino tutto – si fa ovviamente per dire – erano rivolti agli appuntamenti referendari, quello cantonale sui rifiuti (partecipazione del 41.7%) e quello federale sull’energia (42.3% in Svizzera), alla Notte bianca di Locarno e alla manifestazione podistica straLugano (per la cronaca ha vinto un keniano).

Al LAC di Lugano c’era invece il concerto di Superar Suisse. Carneade? Sì.

Sono grato al direttore generale delle scuole comunali di Lugano, Sandro Lanzetti, che me ne ha accennato giusto due mesi fa, in occasione di un incontro informale e amichevole, e di aver messo in questa informazione tanta passione e un’emozione neanche troppo velata.

«Superar Suisse» è la ramificazione di un progetto europeo, che, a sua volta, si è ispirato al famoso «El Sistema», un modello didattico musicale, ideato e promosso in Venezuela da José Antonio Abreu, che consiste in un sistema di educazione musicale pubblica, diffusa e capillare, con accesso gratuito e libero per bambini di tutti i ceti sociali.

Superar è un termine spagnolo che significa andare oltre i limiti, vincere e crescere andando oltre i propri confini.

Si legge nel sito elvetico che «Superar utilizza tutte le possibilità e gli effetti positivi che la promozione musicale e artistica rappresentano, al fine di dare un notevole contributo al cambiamento in senso egualitario della società. Superar è stata fondata nel 2009 dal Konzerthaus di Vienna, il Vienna Boys Choir e la Caritas dell’Arcidiocesi di Vienna come un progetto musicale dell’Europa centrale ricalcante lo stile del progetto “El Sistema” venezuelano. Nel corso degli anni Superar è cresciuta rapidamente, sia in Austria che in altri paesi. Attualmente è attiva in 14 sedi in Austria e in dieci sedi in Slovacchia, Svizzera, Liechtenstein, Romania e Bosnia. Superar Suisse è stata fondata nel 2012. [Essa] rende reale un’educazione musicale di alta qualità sia nella formazione della voce e del canto, sia nella formazione strumentale orchestrale per tutti i bambini e adolescenti – a prescindere dalla loro origine familiare e situazione economica».

Per farla breve, ho assistito a un momento musicale e sociale molto appassionante, assieme a un pubblico folto, entusiasta e caloroso. Al LAC, domenica, c’erano i ragazzini del coro e dell’orchestra di Lugano (oltre cento ragazzine e ragazzini tra gli otto e i dieci anni), con i cori di Winterthur e del Vorarlberg e le orchestre di Zurigo e Milano. Sotto la direzione dei maestri Marco Castellini, Carlo Taffuri e Pino Raduazzo hanno dato vita a un’ora di belle emozioni, dove i termini di energia, entusiasmo e divertimento hanno caratterizzato l’evento, annullando le inevitabili esitazioni esecutive.

È vero che il seme originario – El Sistema venezuelano – nel frattempo ha generato l’Orquesta Sinfónica Simón Bolívar e ha lanciato nel firmamento artistico mondiale musicisti di sicura fama, uno su tutti il direttore d’orchestra Gustavo Dudamel. Ma la forza di Superar, discendente europeo di El Sistema, risiede nel grandissimo progetto di coinvolgere chi, per scelta autonoma, non avrebbe probabilmente mai imboccato un’avventura artistica come questa.

Sarebbe banale, e pure stucchevole, imboccare un discorso sulla forza educativa della musica d’assieme, che si potrebbe facilmente ergere a modello educativo. Però mi piace l’idea che questi ragazzi, sotto la guida e la partecipazione di maestri che non sono assillati da sciocchi traguardi di pagelle e certificazioni inoppugnabili e troppo spesso definitive, diano vita – gioiosamente e insieme – ad armonie che sono artistiche e, nel contempo, sociali. Qualche insegnamento lo dovrebbe pur ricavare anche la scuola dei test, degli esami reiterati e un poco tribunaleschi. Quella dell’immediata e finta spendibilità di acquisizioni scolastiche troppo spesso solo scolastiche.

Mi ha detto un collega luganese all’uscita: «Conosco tanti di questi ‘orchestrali’ e ti posso garantire che, tra i banchi di scuola, non sono sempre facilmente gestibili».

Chissà come mai a scuola no e in orchestra sì? Vuoi vedere che…

Superar Suisse sarà alla Tohnalle di Zurigo l’11 giugno alle 11.15 e il 29 giugno alle 19 alla Elisabethenkirche di Basilea.


I principi di Superar sono:

  • la regolarità e l’assiduità: almeno due lezioni, ma al meglio tre o quattro alla settimana.
  • Gratuità: La partecipazione alle lezioni Superar sono gratuiti per i bambini e genitori.
  • Pari opportunità: Superar si prefigge che tutti i bambini e i giovani possano accedere all’istruzione musicale, che si estende evidentemente in campo artistico e culturale. In tal modo Superar vuole rafforzare la loro partecipazione nella società e potenzialmente migliorarne le opportunità.
  • Preparazione artistica: Superar stabilisce elevati livelli artistici e di insegnamento per la selezione dei suoi tutor. Regolari aggiornamenti di essi anche contemporaneamente a Tutor Superar di altri paesi – che garantiscono l’alta qualità dell’insegnamento.
  • Respiro internazionale: Superar è finora l’unico progetto ispirato al programma El Sistema venezuelano, ad essere attivo in diversi paesi, tenendo concerti congiunti, corsi di formazione e incontri, sia per i tutor che per la direzione Superar, nonché per i bambini e gli adolescenti che ne fanno parte.
  • Ulteriori sviluppi: Superar è concepito come un programma di costruzione e formazione che fornisce moduli avanzati per permettere a tutti anche un futuro percorso artistico.

A che serve una nuova materia come l’educazione civica?

A fine aprile, dopo un profluvio di tira e molla, sembrava ormai guerra aperta tra i promotori dell’iniziativa «Educhiamo i giovani alla cittadinanza» e la commissione scolastica del Gran consiglio. Quando pareva che si fosse giunti al solito compromesso, il primo firmatario dell’iniziativa aveva risposto picche, bocciando la proposta della Scolastica, colpevole di raccontare un sacco di fandonie e di non rispettare i patti così faticosamente raggiunti. «Sulla civica si andrà al voto», aveva sintetizzato questo giornale. Nei giorni successivi, invece, si è avuto il sentore che ci potrebbe essere spazio per un accordo: staremo a vedere.

Il problema resta però reale e palpabile: c’è nel paese una deficienza di senso civico, non solo tra i giovani. La proposta è l’introduzione di una nuova materia, l’«Educazione civica, alla cittadinanza e alla democrazia diretta», insegnata per almeno due ore al mese e con l’immancabile nota sul libretto. Più volte mi sono dedicato al tema, già prima di questa raccolta di firme. La civica è una competenza complessa, che non si assimila attraverso un corso, con tanto di esami al seguito, nella convinzione che solo questo dispositivo sia in grado di far sudare le proverbiali sette camice agli studenti, ritenuti, con un pregiudizio di comodo, degli scansafatiche che si dànno da fare solo in cambio di un tornaconto immediato, come seguaci maldestri di un qualsiasi finanziere globalizzato. Già questa tesi la dice lunga sull’idea di cittadino garbato, consapevole e attivo. Ma c’è un’altra contraddizione evidente, che caratterizza chi è contrario alla proposta della nuova disciplina scolastica: perché nessuno, fino a oggi, ha detto chiaro e tondo che un corso siffatto non serve a un fico secco?

Pensiamoci bene: siamo sicuri che le finalità della scuola non mirino proprio al traguardo di educare cittadini che conoscono i loro diritti e i loro doveri, cioè che siano civicamente educati? Non c’è lo spazio per riportare il testo completo dell’articolo di legge, ma già il primo paragrafo, nella sua complessità, è di una chiarezza disarmante: «La scuola promuove, in collaborazione con la famiglia e con le altre istituzioni educative, lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà». In questa quarantina di parole c’è tutto: si vogliono educare cittadini che non evadono il fisco, che si interessano della cosa pubblica, che hanno i mezzi culturali per crearsi un’opinione autonoma, che praticano instancabilmente l’arte del dubbio, alla ricerca di risposte esaurienti e mai definitive. E ancora: che si appassionano alle arti, alla filosofia e alla storia, che padroneggiano la propria lingua, che sanno evitare le ‘verità dogmatiche’, che conoscono la differenza tra tollerare – verbo infido – e accogliere.

Una volta la scuola dello Stato era consapevole che il compito doveva essere svolto con la famiglia e con altre istituzioni educative. Oggi non si sa, sembra essersene dimenticata. Diego Erba, per tanti anni direttore della Divisione della scuola del DECS, ricordava in un suo articolo che «la democrazia s’impara soprattutto praticandola in famiglia, negli istituti scolastici e quindi nella società». Inventare una nuova disciplina scolastica e obbligatoria, che si affiancherebbe alle finalità della Scuola, è una goffaggine del tutto inutile: anche se, ormai, siamo abituati a tutto.

Vietare non serve a nulla, ma è un bell’alibi quando l’adulto non sa più che pesci pigliare

Il portale TicinoLibero ha dato notizia che tre parlamentari – il popolare democratico Giorgio Fonio, il socialista Henrik Bang e la liberale Maristella Polli – hanno presentato un’interrogazione per chiedere di proibire i cellulari a scuola, mirando ad arginare il fenomeno bullismo.

Scrivono che «Sui telefonini l’assedio si moltiplica per dieci, per cento, per mille. Chi è finito nel mirino ha l’impressione che non ci sia nulla da fare, che sia impossibile difendersi. Nasce un senso di solitudine e di impotenza. La vergogna spesso conduce al silenzio: non si osa parlarne ai genitori, ai docenti. Il ragazzino, l’adolescente, si deprime. Se la cosa si prolunga nel tempo, possono comparire idee suicidarie e in qualche caso la vicenda finisce in tragedia».

La proposta non è una novità assoluta. Già sul finire del 2006 un altro parlamentare liberale, all’epoca pure insegnante di scuola media, aveva chiesto al Consiglio di Stato se non fosse «finalmente intenzionato a proibire totalmente l’uso del telefonino in tutte le scuole obbligatorie del Cantone». Avevo commentato la notizia sul Corriere de Ticino del 12 gennaio 2007: Telefonini a scuola: educare o reprimere?

La mia opinione, oggi che sono passati dieci anni, non è per nulla cambiata, anche se di miglioramenti concreti non se ne sono visti, malgrado la drammaticità di tanti esiti.

A scuola, come in famiglia, certi divieti sono il chiaro segnale di adulti che non sanno più che pesci pigliare: ma i docenti sono professionisti formati e pagati per fare scelte educative  attendibili, a differenza dei genitori. Oso credere che la sparata dei tre parlamentari sia una sorta di sasso nello stagno, per svegliare chi non dovrebbe proprio dormire.

Insomma: e se la scuola ricominciasse a educare e a far cultura, smettendo di essere al traino dell’economia globalizzata? Se la piantasse di essere schiava di una selezione controproducente, iniqua e costosa, e tentasse invece di puntare alle vere finalità della scuola pubblica e obbligatoria?

“Imparare” la cittadinanza non è come mandare a memoria una filastrocca

Comincio con un prologo, a mo’ di cronaca:

  • giusto quattro anni fa un comitato presieduto dall’imprenditore Alberto Siccardi aveva lanciato un’iniziativa popolare legislativa generica denominata «Educhiamo i giovani alla cittadinanza (diritti e doveri)», che in poco tempo aveva raccolto più di 10 mila firme.
  • L’obiettivo principale dell’iniziativa è l’introduzione nelle scuole medie, medie superiori e professionali di una nuova materia di insegnamento denominata «Educazione Civica, alla Cittadinanza e alla Democrazia Diretta» [la maiuscole appartengono dalla dicitura originale] che abbia un proprio testo e un proprio voto separati; tale materia dovrà essere obbligatoria e dovrà essere insegnata per almeno due ore al mese; onde evitare un aumento delle ore totali di insegnamento, e relativi costi, si propone di ricavare il tempo necessario dalle ore di storia.
  • Dopo di che era iniziato il tiramolla tra i promotori, il dipartimento dell’Educazione e il Parlamento.
  • Nei primi mesi di questo 2017 sembrava che si fosse riusciti a trovare il rinomato onorevole compromesso tra i proponenti e la Commissione scolastica del Gran Consiglio. Invece il 18 aprile scorso il primo firmatario dell’iniziativa ha inviato una lunga lettera alla Commissione parlamentare, dove in sostanza si distanzia dall’accordo, che pareva raggiunto, e si mette di traverso: non ci sto.

Non voglio tirarla per le lunghe: chi non ha seguito la disputa che ne è immediatamente scaturita, può farsene un’idea con:

Da quando è iniziata la recita introdotta dall’iniziativa di Siccardi e compagni, non ho letto o sentito un parere, anche solo generico, che invitasse a riflettere sulla concreta utilità della proposta. La gran parte – forse è un eufemismo, ma voglio essere prudente – di chi si è adoperato per cercare un punto d’incontro tra il Parlamento e i promotori dell’iniziativa ha per lo più evocato questioni di costi, di carico eccessivo delle griglie orarie, di equilibrio tra discipline, di peso scolastico per gli studenti, di leggi e norme che limiterebbero l’attuazione delle proposte dei diecimila che hanno seguito Siccardi e il suo comitato policromo.

Ma non ho sentito nessuno dire che le soluzioni prospettate dall’iniziativa per affrontare di petto un problema che è reale – quello di una certa deficienza civica, che peraltro non appartiene solo alle giovani generazioni – sono velleitarie e ignoranti – ignoranti nel senso che ignorano come funziona l’apprendimento di una competenza complessa e mai definitiva come l’educazione alla cittadinanza.

Un breve testo pubblicato su La Regione del 22 aprile (nella rubrica del sabato ALTI-BASSI, che per questa settimana “abbassa” Siccardi) dà per scontato il succo della proposta: Prendete l’insegnamento della Civica a scuola. Chi oserebbe dire che non serve?

Chi oserebbe dire che non serve? Io, ad esempio: da diversi anni sostengo che, di per sé, un corso articolato di educazione civica non serve a un fico secco. In questo sito mi sono occupato più volte, direttamente o meno, di educazione alla cittadinanza e alla democrazia (questo link rimanda a tutti quei miei scritti con il tag «Educazione civica»; e in calce si trova un elenco, in ordine di pubblicazione, di alcuni articoli dedicati espressamente alla questione). In un articolo apparso diversi anni fa su La Regione (purtroppo ho perso la bibliografia precisa), Diego Erba, a quel tempo direttore della Divisione della scuola del DECS, ricordava che “la democrazia s’impara soprattutto praticandola in famiglia, negli istituti scolastici e quindi nella società”. E, se lo si legge bene, l’articolo 2 della Legge della scuola, dedicato alle Finalità, è di per sé un’articolata definizione di educazione alla cittadinanza e alla democrazia, tanto che il volerle accostare una nuova disciplina, con tanto di nota sul libretto, sembra un ossimoro istituzionale e pedagogico.

Per diventare un cittadino consapevole e attivo di questo paese, in questo continente e in questo contesto culturale ci vuol altro che quattro nozioni in croce, per lo più centrate su precetti moralisti di certa democrazia di maniera: perché un conto è pagare le imposte e un altro evadere il fisco; un conto è tollerare – verbo infido – e un altro accogliere; e ancora: interessarsi della cosa pubblica, cercare sempre un’opinione indipendente, praticare instancabilmente il pensiero socratico, appassionarsi alle arti, alla filosofia e alla storia, padroneggiare la propria lingua e il proprio pensiero, evitare come la peste le verità dogmatiche.

Essere un cittadino democratico significa conquistare idealmente quel che c’è nel motto di Piero Gobetti: «Che ho a che fare io con gli schiavi?» Per arrivarci non ci sono scorciatoie, non servono i sotterfugi. Occorre invece l’impegno costante di tutto il sistema formativo, con la scuola nel ruolo di protagonista affidabile, affascinante, sensibile, rigorosa e tenace.

A ’sto punto, però, mi schiero anch’io con la volontà di Siccardi, così sintetizzata dal Corriere del Ticino del 22 aprile: «Sulla civica si andrà al voto». Forza. Così, durante la campagna in vista della votazione, vedremo se si riuscirà a (ri)scoprire una terza via, alla larga da quel determinismo didattico, secondo cui si può insegnare il senso dello Stato come se si trattasse di mandare a memoria le caselline, e, nel contempo, lasciando perdere le ragioni-alibi tipiche di chi ha solo un vago sentore di ciò di cui sta dibattendo, e s’attacca ai costi, ai codicilli e a qualche altra amenità.


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