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«Polis e manicaretti»: un articolo del filosofo Fabio Merlini

Fa impressione, certo. Però anche sulla stampa quotidiana di questa Repubblica esagerata, delle dimensioni di un paio di quartieri di Milano, succede che appaia un articolo dal respiro e di un livello intellettuale degno di ben più blasonati quotidiani europei. È il caso di uno scritto del filosofo Fabio Merlini apparso su La Regione Ticino di lunedì 2 giugno 2014, col doppio titolo di «La politica dei manicaretti» in prima pagina e «Polis e manicaretti» a pagina 2.

Senza farmi le tradizionali soverchie illusioni, sono quindi felice di riproporre qui il lucido testo di Merlini, con la speranza che riesca a superare la volatilità della stampa quotidiana d’immediato consumo. Capita purtroppo a tutti – quindi presumo anche a Merlini – di sentirsi dire «Ho letto il tuo articolo» (varianti: «T’ho visto in televisione», «T’ho sentito alla radio») senza che l’occasionale interlocutore abbia la benché minima idea di cosa hai raccontato.

Eppure «Polis e manicaretti» è uno scritto importante, perché parla del fragile confine tra democrazia e demagogia, di «Una politica-manicaretti» che è sempre più «una politica che non mira al bene della polis».

E che c’entra la scuola? C’entra, c’entra…

C’entra per tantissime ragioni, ma naturalmente non è il caso che ne faccia l’elenco (il mio elenco) e che per ogni elemento ne tracci motivazioni e intrecci. Ma ho sempre più la spiacevole e amara sensazione che lo Stato abbia perso la bussola, proprio in un settore di così fondamentale importanza: quando, nel 1804, quel medesimo Stato decise che «Tutti i Padri di famiglia, tutori, e curatori sono obbligati mandare i loro figlj, e minorenni alla Scuola» aveva un obiettivo alto. Il Gran Consiglio dell’epoca spiegava che «la felicità di una Repubblica ben constituita deriva principalmente dalle savie istituzioni, e da una buona educazione; mentre da uomini bene educati si può sperare ogni bene, e dalla ignoranza nascono tutt’i vizj, e disordini».

Tante volte ho citato il monito di uno dei pedagogisti contemporanei che amo di più, Philippe Meirieu, che nel suo libro L’école ou la guerre civile – pubblicato nel 1997! – scrive:

[…] l’école doit renoncer à la gestion juxtaposée et conflictuelle de millions d’intérêts privés ; elle doit redevenir une affaire publique. En d’autres termes, l’école n’est pas un service, c’est une institution. […] Or, l’éducation, pendant la période de la scolarité obligatoire – c’est-à-dire au moment crucial où l’État prend la décision de scolariser l’ensemble des enfants et garantit leur égale instruction –, se doit d’obéir à des valeurs spécifiques. Elle n’a pas vocation à être le champ clos de la concurrence sociale. Demander à l’école de satisfaire l’ambition individuelle de chacun, c’est se condamner à l’école-supermarché.

Tuttavia siamo proprio dalle parti della scuola-supermercato, con la corsa sfrenata a investire la scuola di interessi privati giustapposti e conflittuali. Nessuno è stato in grado di capitalizzare l’enorme atto di stima che la popolazione aveva accordato alla Scuola dello Stato in occasione della “storica” votazione del 18 febbraio 2001. Nel frattempo le discussioni attorno alla scuola continuano a toccare ambiti certo importanti – il percorso casa-scuola, il numero di allievi per classe, le nuove tecnologie, il bullismo, le mense, il doposcuola e via elencando – senza mai avere il coraggio di andare dritti al cuore del problema: che è quello di battersi per una vera equità, affinché la scuola dello Stato non si occupi più della selezione delle élite entro la quarta media, ma si dia da fare sul serio per promuovere «lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà». Invece che cosa continua a succedere? Che l’insuccesso scolastico ha sempre radici altrove, fuori dalla scuola. La colpa è della famiglia, dell’allievo, delle classi troppo numerose…

A ciò si aggiunga Una legge della scuola incartapecorita, frutto di una politica del manicaretto che legittima la deresponsabilizzazione collettiva. Ma, in fondo, è inutile fingersi ingenui: il voto di insegnanti, genitori e altre figure che ruotano attorno alla scuola fa gola a tutti i partiti, mentre i più sgarrupati non hanno voce in capitolo: non hanno il diritto di voto.


Fabio Merlini – La politica dei manicaretti (La Regione del 2 giugno 2014)

Partirò da lontano, ma solo perché sovente ciò che è lontano è anche molto vicino. Nel Gorgia platonico, Socrate dice a Callicle: «Credo di essere uno dei pochi ateniesi – per non dire il solo – a capire che cosa sia davvero la politica, e credo di essere il solo a fare davvero politica di questi tempi. Nel senso che tutto quello che dico lo dico non per compiacere la gente, o per rendermi gradito, ma per perseguire il bene». Il problema nasce quando (“di questi tempi”) l’idea del bene non trova più alcuna rispondenza nel proprio uditorio, poiché più che il bene ciò che conta per il destinatario è la possibilità di riconoscersi in un discorso capace di intercettare le proprie attese, siano esse relative a inquietudini, a frustrazioni o a desideri. Di intercettarle – si intende – così da offrire, con un linguaggio semplificato e seduttivo, risposte a portata di mano, tanto deve risultare chiara e certa la fonte dei problemi da rimuovere senza tanti distinguo. Allora, osserva Socrate, non vi è più spazio per la vera politica, poiché ostinarsi a credere ancora all’esistenza di un bene pubblico non necessariamente riducibile alla singolarità interessata dei diversi punti di vista – come pretende invece Callicle – significa esporsi ad un giudizio impietoso che condanna ad essere inascoltati. Il giudizio di quale tribunale? Il tribunale a cui si riferisce Socrate ha certo il carattere della farsa. Indica però bene la condizione di impasse nella quale incorre una democrazia a rischio di demagogia. La situazione descritta è questa: immaginate un tribunale in cui il procuratore pubblico sia un cuoco, l’accusato un medico e la giuria si componga di sbarbatelli immaturi. «Ragazzi – direbbe il cuoco rivolgendosi alla giuria –, quest’uomo passa il tempo a farvi del male […] non fa come me, che vi ho sempre preparato ogni tipo di manicaretti: lui vi fa bere medicine amarissime». E semmai l’accusato rispondesse «tutte queste cose le ho fatte per la vostra salute», i giurati, possiamo esserne certi, «protesterebbero e farebbero un gran baccano» – così conclude Socrate rivolgendosi a Callicle. Una politica-manicaretti è una politica che non mira al bene della polis. Anzi, è una politica per la quale la polis come referente privilegiato dell’azione politica non esiste nemmeno più. Ciò che esiste è ancora solo la preoccupazione di soddisfare le rivendicazioni di una soggettività ripiegata su di sé, tesa unicamente ad affermare il proprio godimento e il proprio dominio. Qui lo spazio per la temperanza viene meno, così come viene meno lo spazio per norme e divieti, i quali secondo la prospettiva di Callicle altro non sono che astuti espedienti attraverso cui la massa dei più deboli pone dei vincoli all’iniziativa e alla volontà espansiva dei più forti.

Democrazia e demagogia

Del Gorgia platonico, più che la figura di Socrate, ci interessa allora quella di Callicle. Poiché il suo personaggio, se interpretato alla luce di quando accade oggi, esprime al contempo la deriva demagogica e quella neoliberista. Per un verso, l’arte del compiacere le aspettative del demos e, per l’altro verso, l’insofferenza verso norme e divieti, il disprezzo per tutto quanto ostacoli l’affermazione del diritto di natura, limitando arbitrariamente il domino dei più forti – ciò che nella prospettiva di Callicle equivale al totale misconoscimento del fatto che la sopraffazione, e non la temperanza, sia la condizione naturale degli uomini. Dunque, chi è l’uomo politico callicleo? È colui il quale afferma il suo potere affinando gli strumenti per compiacere il popolo; la sua politica è una variante cinica della comunicazione consensuale, di più: è uno sfruttamento tattico della democrazia. Il mezzo per realizzare questo sfruttamento si chiama retorica e il suo campione è il demagogo, una radicalizzazione estrema della figura del sofista. Attraverso il suo comportamento è possibile vedere come la demagogia appartenga alla democrazia stessa – in Platone ne è addirittura l’esito inevitabile, prima di trasformarsi in tirannide. Perché la relazione della democrazia con la verità e il bene è una relazione fragilissima. Una relazione subito pronta a decadere, a favore dell’esaltazione delle istanze più incontrollate e irrazionali della volontà, proprio quelle sulle quali fa, appunto, breccia la retorica politica. Essa è tanto più efficace, quanto più è abile ad anticipare, rappresentare ed enfatizzarne le attese, orientandosi esclusivamente su di esse, facendole così diventare il perno stesso dell’azione politica: non che cosa converrebbe impegnarsi a realizzare insieme, ma che cosa il destinatario desidera sentirsi dire. È la differenza che corre tra la ricerca della concordanza attorno a una certa idea di bene o di equo e l’astuzia di rappresentarsi l’immaginazione pubblica, per guadagnare potere attraverso un immediato riconoscimento consensuale. Come qualcuno ha osservato, tutto il contrario della “politica culinaria” nel senso callicleo è quando Winston Churchill, in relazione alla guerra con la Germania, si rivolse agli Inglesi parlando di “lagrime e sangue”: in questo frangente, la convinzione attorno ad un bene politico fondamentale, la sconfitta del nazismo, viene presentata senza occultare i costi che la sua realizzazione avrebbe certamente comportato. Questo è allora il caso di una simmetria etica tra chi parla e chi ascolta, dove chi parla si assume la responsabilità di una duplice verità: quella relativa alla propria convinzione intorno a un bene collettivo (la sconfitta di una micidiale dittatura) e, soprattutto, quella relativa ai mezzi per conseguirla (l’inevitabile perdita di vite umane). L’esempio ci dice che la simmetria può funzionare in due modi. L’uno, virtuoso, giocato sulla condivisione di ciò che in una certa congiuntura equivale al bene comune – una condivisione che richiede di rendere persuasivi argomenti e ragioni, indipendentemente, per così dire, dallo “stato dell’arte” dell’umore e delle aspettative imperanti. L’altro, vizioso, in cui la questione politica principale diventa la loro intercettazione strategica, per cui il destinatario del discorso politico diviene mera volontà assecondabile. Egli non esiste più come cellula della sfera pubblica, membro di una comunità: esiste ancora solo come aspettativa anticipabile e vale unicamente per ciò che desidera ascoltare. In questo senso, come aveva visto perfettamente Platone, la prossimità del demagogo al demos è ingannevole, perché, anziché essere il destinatario di un progetto politico, il popolo diventa mero strumento di una investitura elettorale. Con il risultato che, alla fine, è la democrazia stessa a ridursi a mera procedura elettorale.

I nipotini di Callicle

La crisi della progettualità politica, negli eredi di Callicle, ossia negli odierni populismi, si riflette allora proprio in questo insistito appello al popolo come fonte di legittimazione. Dove il punto centrale, lo ripeto, non è impegnarsi a raccogliere, dopo averlo coltivato, il consenso popolare attorno ad una progettualità, bensì selezionare opportunisticamente i referenti dell’azione politica, a dipendenza dell’umore popolare. È il disimpegno della politica attraverso la politica stessa. Di fatto, secondo questa logica, la politica salta a piè pari la questione della costruzione del consenso, inserendosi là dove il consenso dei più è già assicurato, è già dato come sentire comune. La questione che ora voglio affrontare è il senso della relazione che la demagogia populista intrattiene con questa idea di popolo. La prossimità dei populismi al popolo, per quanto mendace, è il riflesso della crisi delle forme tradizionali di mediazione sociale e politica. È una prossimità che vuole farla finita con le istituzioni, e in questo senso vive di immediatezza. Il linguaggio che la realizza tradisce in tutte le sue forme proprio questa immediatezza: esso deve andare a segno, senza condizioni. Per questo si spettacolarizza. In ragione di questa spettacolarizzazione, il luogo privilegiato dell’azione politica non può più essere rappresentato da istituzioni come il parlamento, perché il suo canale ideale è semmai la comunicazione mediatica. In questo senso, possiamo osservare che se il parlamento nasce come espressione di una nuova forza politica (la borghesia nascente) in opposizione allo Stato assoluto, facendo così valere un luogo per legiferare e trasformare le leggi; la demagogia populista inventa illusoriamente il popolo (la “gente”) come forza che delegittima il sistema parlamentare, in virtù di una immediatezza dove la sovranità popolare immagina di potersi nuovamente affermare quale diritto al riparo da qualsiasi opacità, da qualsiasi interesse occulto di parte, da qualsiasi arbitrio del potere delle élite. Più che apolitico, il populismo è una telepolitica – proprio come parliamo di teletecnica per indicare quegli artefatti che permettono di comunicare in tempo reale, eliminando l’intermediazione dello spazio, cioè azzerando le distanze. È una politica priva di mediazioni che si presenta come interpretazione senza scarti della volontà popolare, spazio di una rappresentazione intenzionato a presentarsi quale garante unico della rappresentanza popolare. Per concludere, desidero segnalare che questa immediatezza, per essere compresa appieno, va posta in relazione con un altra immediatezza: quella esercitata oggi da una economia fuori di qualsiasi controllo statuale. Potremmo dire così: il populismo, nelle sue forme contemporanee, è la risposta politica all’immediatezza con cui l’economia speculativa realizza i suoi scopi, è una risposta alla forza della sua affermazione, una affermazione diretta sulle cose e le persone, idealmente priva di mediazioni politiche. Il populismo risponde con la sua immediatezza all’immediatezza del comando economico, contrappone una immediatezza ad un’altra immediatezza: risponde a una minaccia – l’esposizione incondizionata ai suoi dettami – con le sue stesse armi. L’allergia della economia verso la mediazione politica, viene fatta propria dalla stessa politica, attraverso il discorso populista. In questo modo, però, senza volerlo il populismo si allea ai disegni egemonici di una economia resasi autonoma e indipendente da qualsiasi potere che non sia quello della sua azione sul mondo. E lo fa disiscrivendo la società da qualsiasi forma politica. Il risultato conseguito – non a caso da entrambi – è il restringimento della sfera pubblica. L’illusione che volontà, aspettative e desideri possano essere realizzati immediatamente – proprio come quando siamo invitati ad acquistare e a consumare (ne sanno qualcosa i nostri giovani) pur non avendone i mezzi. È l’illusione di far vivere un soggetto a pretese totalizzanti, privo degli argini dettati dalla vita civile. Laddove salta la mediazione tra psiche e polis, salta anche la sfera pubblica e con essa la mediazione necessaria alla socializzazione. Ma è questo che vogliamo? Trovarci sempre più soli e isolati, nonostante la pletora degli odierni mezzi comunicativi?

Supermarket «Scuola»: griglie orarie e lobby scolastiche

Il 27 maggio è stato presentato a Locarno il rapporto della SUPSI relativo alla valutazione della sperimentazione dell’insegnamento di «Storia delle religioni», che è iniziata in sei sedi di scuola media del Cantone Ticino nel settembre del 2010. Per il ministro dell’educazione e della scuola Manuele Bertoli è stata l’occasione per tratteggiare a grandi linee la quadratura del cerchio necessaria per istituire nella scuola media il corso di «Storia delle religioni» e la nuova disciplina «Educazione alla cittadinanza», esigenze espresse dal Parlamento il primo e da un’iniziativa popolare la seconda.

Non m’interessa, per ora, entrare nel merito delle due nuove discipline pretese dal “popolo sovrano”, in attesa di leggere il rapporto della SUPSI. Segnalo di transenna che nella mia rubrica sul Corriere del Ticino ho già parlato in tre occasioni di insegnamento della religione: il 24 dicembre 2003 (Scuola, cultura religiosa e indifferenza), l’8 maggio 2007 (La nuova ora di religione sconfiggerà la barbarie?) e il 24 ottobre 2012 (Religione a scuola: una sperimentazione inutile?).

Durante l’incontro di Locarno Bertoli, secondo quanto ha riferito il Corriere del Ticino, ha detto a chiare lettere che in nessun caso si deve aumentare la griglia di 33 ore settimanali in vigore nella scuola media: «Questo è il carico massimo che i ragazzi possono sopportare, anzi, idealmente andrebbe ridotto». Concordo, soprattutto sull’accenno alla riduzione, anche se avrei preferito l’uso del modo indicativo al posto del condizionale. Ergo: va ridotto.

Teoricamente i nostri ragazzi sono a scuola per trentatre ore settimanali, dunque, più o meno, per circa 1’200 ore all’anno. Bisogna poi aggiungere i famigerati compiti a casa, vacanze comprese, che sono difficili da quantificare e, sempre teoricamente, sono inversamente proporzionali alle attitudini di ognuno e ai suoi ritmi di apprendimento. Si può ipotizzare che per alcuni le ore di lavoro potranno avvicinarsi a cinquanta, mentre per altri non giungeranno nemmeno alle canoniche trentatre: i “bigioni” son sempre esistiti.

Sull’altra faccia della medaglia, vale a dire dal punto di vista della scuola, possiamo dare altre letture, assai variegate. Ne segnalo una, ben descritta da Don Milani in anni ormai lontani:

«Attualmente lavorate 210 giorni di cui 30 sciupati negli esami e un’altra trentina nei compiti in classe. Restano 150 giorni di scuola. Metà dell’ora la sciupate a interrogare e fa 75 giorni di scuola contro 135 di processo. Anche senza toccare il vostro contratto di lavoro potreste moltiplicare per tre le ore di scuola.»

D’accordo, oggi la maniera di essere a scuola è forse un po’ diversa, ma non poi così tanto. A colpi di test e di blitz e di verifiche, quasi sempre spacciati per strumenti scientifici e pertinenti (ohibò!), si perde un sacco di tempo che potrebbe essere dedicato all’insegnamento, all’approfondimento e al recupero. Senza naturalmente contare i giorni durante i quali non si insegna né si valuta – e, altrettanto naturalmente, senza scordare la grande ricreazione di fine anno (v. il mio scritto del 4 giugno 2003).

C’è poi almeno un secondo aspetto, tutt’altro che di niuna importanza. La griglia oraria settimanale, sintetizzando un po’, è occupata più o meno dalle medesime discipline che l’avevano presidiata tanti decenni addietro: l’italiano, la matematica, la storia e la civica, la geografia, le scienze naturali, e poi le seconde e terze lingue (queste in crescita), le educazioni visiva, manuale e tecnica, musicale, fisica e via etichettando. Poi, giustamente o no, il peso specifico di ogni materia cambia: il peso specifico dell’italiano o della matematica è ancor oggi ai vertici della classifica, con un’accelerazione delle scienze naturali. In fondo troviamo la religione. Tra i due un’ammucchiata di difficile interpretazione educativa: l’educazione fisica ha più ore, poniamo, della storia, che ha lo stesso numero di ore delle educazioni manuale e tecnica, musicale e visiva (almeno nei primi due anni).

È difficile capire quale logica educativa e pedagogica sia sottesa a un simile allestimento della griglia oraria: che è troppo fitta e che serve a poco. A dirla tutta, non contribuisce neanche alla “famosa” selezione delle future élite e alla formazione dei cittadini di domani, perché è sotto gli occhi di tutti che per almeno due terzi degli allievi i risultati scolastici dipendono strettamente dal contesto socio-culturale (ed economico!) di appartenenza, da un po’ di fortuna nell’incappare negli insegnanti più bravi (o più larghi di manica, e naturalmente non sempre le due variabili vanno insieme) e dalle tempeste ormonali, ovviamente in agguato proprio in quegli anni della scolarità. Mi par di capire che la tradizione, le lobby disciplinari e certe mene corporative sanciscano il futuro dei nostri ragazzi, e conseguentemente dell’intero Paese, al di là di ogni ragionamento più razionale.

Philippe Perrenoud, sociologo e professore onorario dell’università di Ginevra, ha pubblicato nel 2011 un libro dal titolo intrigante: «Quando la scuola pretende di preparare alla vita». È una lettura interessante, che pone sul tavolo della discussione diversi temi di sicuro interesse: sempre che, naturalmente, la discussione non dia troppo fastidio e il dibattito si apra. Fino a non tanti anni fa, si dava per scontato che la scuola dell’obbligo doveva insegnare a leggere, scrivere e far di conto, con l’obiettivo finale, allo scadere dei quindici anni, di preparare alla vita e di trasmettere gli elementi fondamentali della cittadinanza. Altri tempi, certo. Con gli anni sulla scuola son piovuti sempre più compiti, sia all’interno stesso delle sue discipline tradizionali – la matematica, la storia, la geografia, le scienze naturali, … – sia inserendo qua e là nuove «educazioni»: ai media, alla salute, sessuale, interculturale, alimentare, … Come sempre, però, tra il dire e il fare c’è proverbialmente di mezzo il mare. Basta avere qualche figlio alla scuola media o scorrerne il «Piano di formazione» per rendersi conto che tante nozioni che fluiscono durante i quattro anni, e che assai spesso concorrono alla riuscita scolastica, sono destinate a non sedimentarsi in nessun angolino del cervello e della mente. Ma Perrenoud va oltre, osservando come ben altre conoscenze sarebbero molto utili alla vita, mentre non sono contemplate dai programmi, se non, qualche volta, solo di striscio: si pensi alla psicologia e alla psicanalisi, alla sociologia, alle scienze politiche ed economiche, al diritto.

Tra addetti ai lavori si parla da decenni della necessità di rendere più essenziali i piani di formazione dei diversi settori, ognuno dei quali è messo sotto pressione da quello successivo, un po’ come il pesce grande che mangia il pesce piccolo: l’università preme sul liceo, che a sua volta sollecita la scuola media, che si lamenta dell’impreparazione di chi giunge dalle elementari. Ma al di là del mero parlarne, è difficile, se non impossibile, riuscire a modificare qualcosa in più di alcuni dettagli, solitamente marginali. Lascio immaginare cosa succederebbe qualora si volessero ridurre le ore di una qualsiasi disciplina: la lobby annessa inizierebbe certamente a strillare, e gli strilli sarebbero tanto più alti e robusti, quanto più la presunta utilità della disciplina sarebbe blasonata. Già sarebbe difficile ridurre l’educazione musicale; ci si immagini quale coraggio ci vorrebbe per ritoccare la matematica. Si possono immaginare catastrofi epocali.

Per tornare al ministro Bertoli e alle nuove imposizioni parlamentari o popolari che sono oggi sui tavoli del DECS, non resta che immaginare cosa potrebbe succedere se, nei prossimi mesi, giungessero nuove imposizioni popolari o parlamentari da ficcare in qualche modo in questa e/o quella griglia oraria della scuola dell’obbligo: non sono certo gli argomenti a mancare. Nel frattempo il vescovo, Mons. Lazzeri, e gli iniziativisti dell’educazione alla cittadinanza hanno già manifestato il loro netto disaccordo alle proposte dipartimentali.

C’è da sperare, dunque, che qualcuno, magari il dipartimento di Manuele Bertoli, s’ispiri alla rinomata poesia di Robert Desnos «Le pélican», che Bourdieu e Passeron avevano inserito come epigrafe al loro libro più importante – La reproduction. Éléments pour une théorie du système d’enseignement (Minuit, Paris, 1970) – e avvii finalmente la frittata.

La Grande Guerra e il recupero della Storia

Il bello di certi anniversari è che permettono di recuperare delle conoscenze che, se va bene, erano state acquisite negli anni di scuola, mentre ora sono immerse nelle nebbie più fitte. È stato il caso nel 1991, con le celebrazioni del 700° della Confederazione, o, in anni più recenti, con il bicentenario del Canton Ticino membro della Confederazione svizzera, nel 2003, quando si era parlato dell’Atto di mediazione. Per capirci: ricordo un servizio della TSI durante il quale il cronista aveva posto a bruciapelo la domanda ad alcuni politici d’alto bordo, attesi all’uscita da uno degli innumerevoli momenti ufficiali di quell’anno: «Cos’è l’Atto di mediazione?», aveva chiesto il giornalista. Arrampicate sui vetri e giustificazioni un po’ comiche.

Il 2014 sarà l’anno del centenario dello scoppio della Grande Guerra. È dunque lecito aspettarsi pubblicazioni, servizi giornalistici, esposizioni e opere divulgative che mireranno a offrire almeno i contorni essenziali di cosa fu la prima guerra mondiale. In un simpatico articolo apparso sul Corriere, Michele Fazioli ha osservato: «Una volta ho scritto che i nostri studenti non imparano bene la Storia. Alcuni docenti di storia mi hanno rimproverato, dicendomi che non è vero. Sarà. Comunque io più volte e ancora recentemente ho effettuato dei piccoli test. Ho interrogato alcuni studenti al termine del ciclo di studi sulla nascita del Canton Ticino e sulle lotte fra liberali e conservatori. Ho chiesto loro se sapessero come mai cento anni fa fosse scoppiata la Prima Guerra mondiale. Boh!, mi hanno risposto».

Capisco la reazione dei docenti di storia, che immagino stizzita e un po’ piccata. Conosco qualche docente di storia che va in aula a combattere contro i mulini a vento con grande passione e competenza, credendo profondamente in quel che fa. Ma lo studio della storia, in questi tempi globalizzati e tecnocratici, sembra inutile ai più. Fa ancora parte dei nostri programmi, almeno a partire dalla scuola media, ma non si sa se per inerzia, perché s’è sempre fatto così, oppure se per la convinzione che la storia sia maestra di vita – o, almeno, uno strumento inevitabile per leggere il presente.

Penso che di storia sia possibile parlare sin dalla scuola elementare. I programmi attuali, però, sono sufficientemente vaghi, così che è solitamente difficile chinarsi in maniera articolata su qualche tema dal sapore storico. Lo scorso anno il DECS ha pubblicato il primo volume di un bellissimo manuale di storia per la scuola media, «La Svizzera nella storia». Si percorre la strada che va dal paleolitico al XVI secolo, mentre il secondo volume ci porterà fino ai nostri giorni. Solo che già il primo tomo occupa il programma dei primi due anni, penetrando pure nel terzo, mentre la dotazione oraria è mediamente di due ore settimanali. Come faranno i nostri ragazzi a far propri questi contenuti e a ricordarne almeno gli aspetti essenziali è un mistero. Non mi risulta che la didattica abbia messo a punto negli ultimi anni nuove procedure incredibilmente efficaci, tanto più che la storia non fa certo parte delle materie più temute da allievi e studenti, perché per la selezione, si sa, si impiegano ben altre armi. E ora, ma non è una novità, c’è chi vorrebbe introdurre una nuova disciplina, l’educazione alla cittadinanza, con tanto di note e di inevitabili test, togliendo ore proprio alla storia: così che, oltre al danno, rimedieremo anche le beffe.

Papa Francesco e la scuola

Sull’importanza degli insegnanti: «Perché amo la scuola? Proverò a dirvelo. Ho un’immagine. Ho sentito qui che non si cresce da soli e che è sempre uno sguardo che ti aiuta a crescere. E ho l’immagine del mio primo insegnante, quella donna, quella maestra, che mi ha preso a 6 anni, al primo livello della scuola. Non l’ho mai dimenticata. Lei mi ha fatto amare la scuola. E poi io sono andato a trovarla durante tutta la sua vita fino al momento in cui è mancata, a 98 anni. E quest’immagine mi fa bene! Amo la scuola, perché quella donna mi ha insegnato ad amarla. Questo è il primo motivo perché io amo la scuola. […] Andare a scuola significa aprire la mente e il cuore alla realtà, nella ricchezza dei suoi aspetti, delle sue dimensioni. E questo è bellissimo! Ma se uno ha imparato a imparare, – è questo il segreto, imparare ad imparare! – questo gli rimane per sempre, rimane una persona aperta alla realtà! Questo lo insegnava anche un grande educatore italiano, che era un prete: Don Lorenzo Milani».

La scuola è luogo di socializzazione senza steccati: «Un altro motivo è che la scuola è un luogo di incontro. [A scuola] incontriamo persone diverse da noi, diverse per età, per cultura, per origine, per capacità. Questo fa pensare a un proverbio africano tanto bello: “Per educare un figlio ci vuole un villaggio”. Per educare un ragazzo ci vuole tanta gente: famiglia, insegnanti, personale non docente, professori, tutti!».

Etica e estetica, fondamenti dell’educazione: «E poi amo la scuola perché ci educa al vero, al bene e al bello. Vanno insieme tutti e tre. La missione della scuola è di sviluppare il senso del vero, il senso del bene e il senso del bello».

Al di là delle discipline: «Se studio questa Piazza, Piazza San Pietro, apprendo cose di architettura, di storia, di religione, anche di astronomia – l’obelisco richiama il sole, ma pochi sanno che questa piazza è anche una grande meridiana. In questo modo coltiviamo in noi il vero, il bene e il bello; e impariamo che queste tre dimensioni non sono mai separate, ma sempre intrecciate. Se una cosa è vera, è buona ed è bella; se è bella, è buona ed è vera; e se è buona, è vera ed è bella. E insieme questi elementi ci fanno crescere e ci aiutano ad amare la vita, anche quando stiamo male, anche in mezzo ai problemi. La vera educazione ci fa amare la vita, ci apre alla pienezza della vita!»

Il pensiero di Pestalozzi: «Si educa per conoscere tante cose, cioè tanti contenuti importanti, per avere certe abitudini e anche per assumere i valori». Perché c’è «una bella strada nella scuola, una strada che fa crescere le tre lingue, che una persona matura deve sapere parlare: la lingua della mente, la lingua del cuore e la lingua delle mani. Ma, armoniosamente, cioè pensare quello che tu senti e quello che tu fai; sentire bene quello che tu pensi e quello che tu fai; e fare bene quello che tu pensi e quello che tu senti. Le tre lingue, armoniose e insieme!»

 

Venerdì 11 aprile: «Piazzaparola» in Piazza ad Ascona

In pratica collaboro con «Piazzaparola» dacché sono in pensione, con la prima impresa nel settembre 2013 al Castello di Locarno, quando abbiamo proposto a oltre un centinaio di allievi di 5ª elementare di Locarno e Minusio alcune novelle dal Decameron di Giovanni Boccaccio nel 700° della nascita del grande scrittore fiorentino.

Con Silvia Demartini, preziosa ed entusiasta collaboratrice, ho condotto l’11 aprile ad Ascona un momento letterario destinato agli allievi di 4ª e 5ª elementare del magnifico Borgo, nell’ambito della manifestazione «Eventi Letterari Monte Verità».

Ascona per Andrea

Con l’accompagnamento musicale del percussionista Oliviero Giovannoni, abbiamo proposto «Di tutti i colori in tutti i tempi. Scherzi e avventure nella letteratura di ieri e di oggi», vale a dire alcune pagine di Giovanni Boccaccio (Chichibìo cuoco, dal «Decameron»), Un lavoro di tutto riposo (dalle «Avventure di Tom Sawyer» di Mark Twain) e Il matrimonio di Luisa (dal «Giornalino di Gian Burrasca» di Vamba): tutte con l’accattivante e spassosa interpretazione dell’attrice Tatiana Winteler. E per terminare ecco anche uno scrittore in carne e ossa, Simone Fornara, che ha proposto una gustosa pagina da «Telefonino non friggermi la zucca!», il divertente racconto scritto con Mario Gamba (2011, Editore Raffaello, vincitore del premio Montessori).

Ha scritto Raffaella Castagnola sul Corriere del Ticino del 12 aprile:

Ascona come una piccola Mantova? Direi che la sfida degli Eventi letterari è stata vinta, anche a giudicare dalle sue prime manifestazioni proposte e dai tanti eventi collaterali ben frequentati, che hanno animato il borgo, il lungolago le piazze, ma anche i giardini. Complice il bel tempo, «piazzaparola» si è potuta svolgere nel suo ambiente naturale, ossia in piazza, alla presenza, ieri mattina, di un centinaio di bambini delle scuole elementari di Ascona che, attraverso quattro storie di secoli diversi (…) hanno potuto riflettere sull’evoluzione del modo di raccontare storie, ma anche sulla morale che esse contengono. Il divertimento è stato assicurato dai brani scelti, ma la vera sfida viene dopo: dall’esercizio all’ascolto e dalla riflessione sulla lettura, che questi testi comunicano; e dallo scambio, proficuo, tra varie discipline, perché la parola letteraria è stata declinata in modo teatrale e commentata – se così di può dire – dal bravissimo percussionista Oliviero Giovannoni.

Mi piace «Piazzaparola», una creazione di Raffaella Castagnola che, accanto alla presentazione di voci contemporanee, per lo più ticinesi, a un mondo di adulti, riserva anno dopo anno spazi di grande interesse ai ragazzini delle scuole elementari: che mostrano la loro capacità di sapersi scostare dai modelli televisivi se appena li si prende sul serio. E, forse, imparano a liberare la fantasia per costruire nella loro mente i personaggi, gli ambienti e le situazioni di storie senza immagini.

Il prossimo appuntamento sarà a Locarno il 12 settembre 2014, quando presenteremo la poliedrica figura di Leonardo da Vinci: «La cosa immaginata move il senso» proporrà l’opera di uno dei più grandi genî dell’umanità attraverso la musica, la scienza e le invenzioni, i capolavori dell’arte, nonché le favole, le leggende, le facezie e gli indovinelli. Perché Leonardo è stato anche «un ragionatore affascinante, un parlator forbito, un raccontatore “magico” e fantastico, un virtuoso della parola accompagnata dal gesto. Parlando di scienza, faceva tacere gli scienziati; ragionando di filosofia, convinceva i filosofi; improvvisando favole e leggende, conquistava il favore e l’ammirazione delle corti» (Bruno Nardini, in Favole e indovinelli, 1995, Ed. Giunti).