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Ecco perché «La scuola che verrà» è un progetto progressista

L’articolo sottostante, col titolo (redazionale) Si tratta di un progetto liberal e non è per nulla… socialista, è apparso sul domenicale ilCaffè dell’8 aprile nel contesto di un confronto a due voci sul progetto La scuola che verrà e sulla raccolta di firme contro il credito concesso dal Parlamento per l’inizio della fase sperimentale a partire dal prossimo anno scolastico.

Va da sé: la raccolta di firme, che, se riuscisse, sottoporrebbe a referendum la risoluzione del Gran consiglio, è solo formalmente contro la concessione del credito, perché in realtà intende affossare l’intero progetto – ciò che i promotori del referendum non hanno nascosto in sede parlamentare.


Manuele Bertoli avrà anche lui qualche difetto, come tutti; ma non lo si può accusare di essere tronfio e megalomane. È un uomo che ha molto a cuore la scuola pubblica e obbligatoria: la conosce bene, perfino dal profilo istituzionale e pedagogico. Il progetto La scuola che verrà intende concretizzare le finalità che il Parlamento aveva dichiarato nel 1990: La scuola promuove lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà. È un progetto umanistico, ispirato ai più alti valori repubblicani. Chi dice che si tratta di un progetto socialista – e calca su quell’aggettivo come se fosse un insulto – è in malafede. La scuola che verrà è un progetto liberal, nel senso anglosassone del termine. Se davvero si vuol credere che questa riforma è socialista, allora si deve convenire che Pestalozzi, illuminista ed erede di Rousseau, era un brigatista rossissimo.

Altrettanto scorretta è l’equazione secondo cui il fatto di voler portare ogni allievo al limite estremo delle sue possibilità equivale a un inevitabile abbassamento del livello medio della scuola. Il sociologo Walo Hutmacher aveva pubblicato nel 2012 un’interessante riflessione. Scriveva che «le pari opportunità fanno parte della scuola pubblica. Ma è un’uguaglianza astratta, di maniera, perché presume, senza dirlo, che la scuola di base sia una gara, così che ha un senso solo in una scuola selettiva. Contrariamente a ciò che dicono tutti i partiti, la politica non deve mirare alle pari opportunità, ma puntare all’equità dei risultati a livello elevato, allo scopo di creare buone capacità per affrontare le esigenze della vita sociale, civica ed economica. L’equità dei risultati è meno astratta delle pari opportunità. In senso assoluto è inarrivabile, ma si può tentare con tenacia di avvicinarvisi. Bisogna però farne un’ambiziosa meta politica. La logica della selezione estremizza le regole del gioco: per allievi e genitori che sono, loro malgrado, protagonisti di un processo di selezione, lo scopo principale non è quello di imparare, bensì di “riuscire”, di “essere promosso”. In questa logica i più bravi si accontentano di “gestire la loro media” col minimo sforzo, mentre i più deboli si scoraggiano davanti a ostacoli che ritengono di non poter superare: è esattamente ciò che comincia a essere intollerabile, tanto dal punto di vista dell’efficacia, quanto da quello dell’equità».

È l’obiettivo nobile del progetto di Bertoli.

Al posto del nostro ministro dell’educazione io non mi sarei fidato troppo di certi compromessi coi partiti. Ad esempio non avrei ceduto sull’abolizione della soglia minima per l’accesso al liceo. Ma, per la fortuna del Paese, non sono un governante e posso quindi fare a meno di quel forse utile pragmatismo.


L’articolo di Walo Hutmacher, da cui ho tratto la citazione in una mia libera traduzione, è apparso sul numero speciale della rivista Éducateur del 24 febbraio 2012, pubblicato in occasione del centenario di fondazione dell’Institut Jean-Jacques Rousseau, che nel 1975 sarebbe diventato la Facoltà di psicologia e di scienze dell’educazione dell’Università di Ginevra (Les bâtisseurs du «siècle de l’enfant» | Cent ans de recherches et d’innovations pédagogiques).

Qui è possibile scaricare l’articolo integrale e originale, intitolato Réclamer l’égalité des chances, c’est s’empêcher de viser l’égalité des résultats à un niveau élevé (p. 64-66).


La raccolta di firme è relativa alla risoluzione del parlamento del 12 marzo 2018. L’oggetto in questione è il Messaggio 7339 del 05.07.2017 concernente la «Concessione di un credito quadro di fr. 5’310’000.- per la sperimentazione del progetto La scuola che verrà». A questo indirizzo sono disponibili i documenti ufficiali.

Infine quest’altro indirizzo propone i dettagli della votazione del Gran consiglio.

Ancora sugli insegnanti di domani

Nella mia rubrica apparsa sul Corriere del Ticino del 12 marzo scorso avevo proposto una piccola riflessione sulla formazione degli insegnanti (Un paio di idee per inventare gli insegnanti di domani), stimolato in tal senso dal contributo di Michele Mainardi – fino all’agosto scorso direttore del Dipartimento formazione e apprendimento – contenuto nell’ultimo rapporto annuale della SUPSI.

Nel 2000 quello che all’epoca si chiamava ancora Dipartimento dell’Istruzione e della Cultura (DIC) aveva promosso una vasta consultazione in margine al progetto di Alta Scuola Pedagogica (ASP). In particolare si chiedevano delle prese di posizione sui documenti preparatori in vista della presentazione del messaggio del Consiglio di Stato al Parlamento. L’ASP, che avrebbe sostituito la Magistrale post-liceale creata negli anni ’80, sarebbe nata nel 2002, ma avrebbe avuto vita brevissima: in effetti già nel 2009 era stato deciso e realizzato il passaggio dell’istituto per la formazione degli insegnanti dal Dipartimento dell’educazione alla SUPSI.

Anche la Conferenza dei direttori delle scuole comunali, di cui facevo parte (credo che in quegli anni fossi pure membro dell’Ufficio presidenziale), prese parte alla consultazione, e inviò le sue osservazioni e le sue proposte al Dipartimento (il documento integrale può essere scaricato qui), che si chiudeva con un capitolo che mi sembra ancora attuale e interessante (come, d’altronde, tutto il resto).

Quale diploma per i futuri insegnanti?

Dal punto di vista giuridico le scuole comunali sono frazionate in due settori (SI e SE), e la scuola elementare è nuovamente sezionata in classi e cicli. Abbiamo visto che per insegnare occorrono alcune attitudini, conoscenze e capacità che travalicano gli aspetti specifici legati all’età del gruppo dei discenti. Detto questo, si potrebbe immaginare che lo studente possa “specializzarsi” nell’insegnamento in uno dei tre settori, di cui il primo da scegliere durante la formazione di base, e gli altri due come diplomi da conseguire a livello di formazione continua (…).

Analogamente si potrebbe immaginare la possibilità di diplomi che permettano anche all’insegnante della scuola dell’infanzia o elementare di accedere ad altri livelli della professione (sostegno pedagogico, scuola speciale, scuola media; ma anche: certificato post-diploma nelle didattiche disciplinari, o in aspetti particolari della pratica pedagogica: valutazione, pedagogia istituzionale, ecc.), attraverso l’acquisizione di certificati riconosciuti (nell’ambito dell’ASP, di istituti analoghi o a livello strettamente universitario). Spingendo sull’accelerato­re di questa logica, si potrebbe immaginare che nell’ambito dell’Alta Scuola Pedagogica sarebbe possibile organizzare dei moduli di formazione non necessariamente legati all’acqui­si­zione diretta di un’abilitazione (SI, I ciclo, II ciclo, SSP, …), ma il cui insieme potrebbe rappresentare il requisito per l’accesso ad altre cariche (direttore, ispettore, orientatore, e via di seguito).

Va da sé che le successive acquisizioni in termini di formazione andranno riconosciute anche sul piano contrattuale, indipendentemente dal settore scolastico in cui si insegna in un dato anno scolastico.

Quel documento, poi riporta altre proposte della Conferenza. Scrivevamo ad esempio: «Sembrerebbe quindi di intuire che, accanto alla riforma della formazione dei docenti, occorra attendersi in tempi brevi una conseguente riforma delle strutture scolastiche e dello statuto giuridico dei docenti. Non nascondiamo che saremmo di fronte ad un ormai vecchio postulato della CDD, che già nel 1993 aveva sottoposto all’Ufficio dell’Insegnamento Primario una riflessione sul cambiamento delle strutture» (il riferimento era a un rapporto del 22 aprile 1993).

Oppure ecco il riferimento a un altro documento della nostra Conferenza, del 1998, denominato «La Valutazione Nella Scuola Elementare – Riflessioni e proposte per un nuovo orientamento nella valutazione degli allievi»:

«(…) la CDD aveva chiesto degli incisivi cambiamenti degli strumenti di valutazione, e ancora in occasione della consultazione sulla riforma amministrativa (UEP-UIP) aveva scritto:

A livello di insegnanti, occorrerà sottoporre a seria ed analitica riflessione sia il concetto di formazione di base, che quello di formazione continua, chiedendosi ad esempio se è ancora concepibile, nel 2000, un maestro formato una volta per tutte (salvo, qua e là, qualche update più o meno omologato), capace di svolgere tutte le mansioni richieste dalla funzione nel giorno del conseguimento della patente: dalla programmazione annuale alla valutazione certificativa, dai contatti con i genitori alla gestione dei conflitti, dall’organizzazione pedagogica alle didattiche disciplinari, dalla psicopedagogia delle diverse materie di insegnamento allo screening dei comportamenti e degli apprendimenti difficoltosi, …

In altre parole, e senza entrare in dettagli peraltro contemplati dal documento in esame, la CDD nutre la speranza che nel 2020 non si debba leggere da qualche parte che “Le grandi riforme scolastiche d’inizio secolo non hanno dato sempre l’esito sperato”».

Mix & Remix – L’interview (30.09.2013)
Vignetta tratta da 1er degré – La strips Parade (http://www.1erdegre.ch/blog/)

L’impressione, anni dopo, è che tutto si muova con indecifrabile (si fa per dire!) lentezza, alla faccia della scuola come cantiere perennemente aperto, delle riforme “epocali” e delle discussioni tanto frequenti da sembrare serie e perenni.

Non giudico le proposte della CDD di quegli anni, anche se, a titolo personale, continuo a sostenerne la bontà. Certamente c’erano delle visioni.


Sono grato al collega Marco Rossi, da poco in pensione e per tanti anni presidente della nostra Conferenza: è grazie a lui se ho potuto recuperare questi documenti, di cui ricordavo gli elementi essenziali.


Nella mia rubrica Fuori all’aula mi ero occupato a due riprese del passaggio dalla magistrale post-liceale all’ASP:

Magistrale: si cambierà tutto… del 29 settembre 2001
Scuola pedagogica: ma chi sono i genitori? del 9 ottobre 2002

E adesso chissà mai quale scuola verrà?!

Comincio dalla cronaca.

La fase di sperimentazione del progetto «La scuola che verrà», di cui si è parlato per la prima volta nelle ultime settimane di quattro anni fa (La scuola che verrà…), è stato accolto a maggioranza dal Parlamento cantonale lo scorso 12 marzo, dopo un lungo negoziato tra il Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport e i diversi partner interessati.

«Gli esami per la scuola che verrà», ha titolato il Corriere del Ticino del 13 marzo: La riforma del DECS ha superato un primo esame. Dopo un dibattito fiume durato oltre 5 ore, la maggioranza del Gran Consiglio ha detto sì – con 51 voti favorevoli, 19 contrari e 5 astensioni – al credito di 6.7 milioni di franchi per avviare la fase pilota a settembre. A sostenere la sperimentazione sono stati i deputati di PLR, PPD e PS mentre un chiaro no è stato espresso da La Destra e dalla maggioranza della Lega. Sollevato dal via libera parlamentare, il direttore del DECS Manuele Bertoli ha precisato come «questa non è una riforma socialista, ma un progetto che ha quale obiettivo quello di migliorare la scuola dell’obbligo riuscendo a seguire meglio gli allievi nella loro individualità».

Il sostegno dei tre partiti storici – PLR (partito liberale radicale), PPD (partito popolare democratico) e PS (partito socialista) – non è stato ottenuto senza costi: il DECS ha dovuto cedere diverse posizioni, tra le quali quella del mantenimento della soglia minima per l’accesso alla scuola media superiore, vale a dire il liceo e la scuola di commercio.

La festa, per ora, è sospesa

I festeggiamenti per il traguardo raggiunto con tanta fatica sono durati poco, perché i partiti che hanno avversato la sperimentazione hanno annunciato il lancio di un referendum. Ha detto il ministro Manuele Bertoli: «Il referendum è senz’altro legittimo, ma in questo caso è arrivato all’ultimo momento, un po’ tra il lusco e il brusco».

Il Corriere de Ticino del 15 marzo ha chiosato la reazione del direttore del DECS: Questa la reazione a caldo del direttore del DECS Manuele Bertoli, all’indomani della decisione dell’UDC di lanciare un referendum contro l’avvio della sperimentazione de «La scuola che verrà». Una presa di posizione, quella democentrista, annunciata a soli sei mesi dall’inizio della fase di sperimentazione. Fase pilota che, nel caso in cui le 7’000 firme fossero raccolte entro il termine dei 45 giorni previsto, slitterebbe ancora di un anno. E la conferma giunge dallo stesso Bertoli: «È un peccato, già abbiamo subito il rinvio l’anno scorso, e questo sarebbe il secondo stop al progetto. Infatti, in caso di riuscita del referendum, sarebbe troppo tardi per poter partire come previsto a settembre».

Sulla genesi del referendum il direttore del DECS si dice in parte perplesso: «Dal punto di vista procedurale i motivi sono democraticamente corretti, ma dal profilo della trasparenza e della deontologia politica mi permetto di esprimere dei dubbi». Bertoli lancia quindi una frecciatina al fronte contrario al progetto: «Il referendum credo poggi su due questioni. Da un lato la volontà espressa anche onestamente dal presidente dell’UDC di profilarsi, utilizzando la scuola come terreno di scontro eminentemente politico, in vista delle elezioni del prossimo anno. Atteggiamento questo che non è illegittimo, ma semmai indelicato perché la scuola è di tutti, oltre che un’istituzione estremamente delicata e sulla quale avrei preferito che una battaglia non si facesse. La seconda questione invece è più un confronto di visioni. La nostra proposta intende ammodernare la scuola ticinese secondo la tradizione, che è da sempre inclusiva e permette di dare ai docenti la possibilità di seguire uno per uno i ragazzi e all’interno di un contesto unico. Invece la proposta che La Destra aveva portato avanti era quella di una scuola selettiva, dove i bravi vincono mentre gli altri non si sa dove vanno a finire».

Ora resta da capire quale sarà la composizione definitiva del fronte referendario. Certo il sostegno di AreaLiberale e UDF, al riguardo i rappresentanti della Lega al momento preferiscono ancora non sbilanciarsi.

Io non avrei sollecitato il voto del Parlamento confidando nell’appoggio dei tre partiti citati (e tenendo conto delle importanti condizioni poste, nel merito e nella procedura sperimentale).

C’è un filo che unisce la scuola che verrà al voto sull’educazione alla cittadinanza

Non posso scordare, per restare ai temi scolastici, che pochi mesi fa il Ticino era stato chiamato alle urne sull’Educazione alla cittadinanza, per avallare una decisione parlamentare della maggioranza dei parlamentari, poi fatta propria dal popolo (v. Ecco perché non si deve banalizzare l’educazione civica).

Ricordo, per chi ha la memoria corta e/o a geometria variabile, com’era andato il voto in Gran Consiglio:

  • presenti 85
  • favorevoli 70 (La Destra 4, Lega 19, Montagna Viva 1, PLR 16, PPD 17, PS 8, Verdi 5)
  • contrari 9 (MPS-PC 2, PLR 3, PS 4)
  • astenuti 4 (PLR)

Esprimendosi sull’Educazione alla cittadinanza ci si esprimeva anche su una visione della scuola. Già in quell’occasione erano emersi i soliti trasformismi, il più appariscente dei quali è stato, a parer mio, quello del Partito socialista, che è il partito del ministro Manuele Bertoli: in quell’occasione aveva sostenuto il voto contrario durante la campagna in vista del voto popolare, benché in parlamento i contrari erano stati solo 4 (su 12 votanti).

Il voto parlamentare su La scuola che verrà è stato, peraltro, ben più sfumato:

  • 51 favorevoli
  • 19 contrari
  • 5 astenuti
  • 10 non hanno votato, benché presenti

E ora?

Sul Corriere del Ticino del 15 marzo è apparso il commento di un docente (Ivano Fontana, L’UDC, l’insegnamento e il nuovo che avanza, rubrica «L’opinione»), che così esordisce:

Non so se il giovane d’anni e già vecchio presidente dell’UDC cantonale ha frequentato la scuola media, quasi sicuramente sì. Probabilmente era già la scuola che aveva abbassato il livello di istruzione (a volte, scherzando con amici – anche loro già insegnanti – veniamo a dire che se la scuola pubblica, media e liceo, fosse stata più rigorosa e quindi meno generosa, certi giovani e non più giovani… leoni della politica ticinese non sarebbero lì dove sono, con grande guadagno per loro stessi e per chi deve sopportarli, soprattutto per chi deve sopportarli).

A questo punto – benché le 7’000 firme per la riuscita del referendum non siano ancora state raccolte – possiamo chiederci davvero come sarà la scuola che verrà, quella del futuro prossimo, perché chi ha promosso il referendum non si limita a chiedere lo statu quo, e nemmeno un semplice miglioramento della scuola pubblica e obbligatoria di questi anni.

L’idea è invece un’altra, punta alla selezione precoce delle future élite – poi, dall’élite in giù, ci si può immaginare la possibile scala gerarchica. Se ciò succedesse ci allontaneremmo ancor più dal modello virtuoso delle scuole dell’Europa settentrionale (v. Qual è il segreto della scuola finlandese?) e rischieremmo di avvicinarci a taluni sistemi scolastici asiatici, noti per le procedure “scientifiche” di selezione dei quadri, ma anche per gli elevati tassi di suicidio tra i giovani.

Stefano Franscini (1796-1857), che «Nel Ticino si adoperò senza tregua per la promozione della scuola, “elemento principalissimo dell’incivilimento nazionale”, fondando, tra l’altro, la Società degli amici dell’educazione del popolo» (Dizionario storico della Svizzera).

A quel punto qualcuno dovrà pur assumersi le responsabilità del disastro civico e culturale.

Personalmente avrei scelto la prima Scuola che verrà, quella del 2014, senza livelli e senza soglie per l’accesso alla formazione terziaria attraverso la scuola medio-superiore.

Un paio di idee per inventare gli insegnanti di domani

Nell’ultimo rapporto annuale della SUPSI, pubblicato in settembre, c’è un interessante contributo del direttore, allora uscente, del DFA. Il titolo anticipa i temi e accende l’interesse: «Le sfide della formazione degli insegnanti nei prossimi (20) anni». Michele Mainardi non schiva l’oliva e chiarisce il contesto che ci attende: «Le sfide della formazione saranno dettate dalla capacità di avvicinare il soggetto in formazione, unico e diverso, con tipologie familiari nuove, con vissuti, percorsi, storie e traiettorie significativamente diversi fra loro, aspetti tutti di una società globale, liquida, in movimento, che caratterizzeranno sempre più i referenti linguistici, culturali esperienziali individuali e quindi le conoscenze pregresse, gli interessi e le attese che ognuno porta a scuola».

Non sembra, eppure è la descrizione della situazione in cui agiscono i docenti già oggi, benché assai spesso ostacolati da un loro diffuso conservatorismo e dalle risposte dei piani alti della politica scolastica, che quasi mai riescono a proporre soluzioni che possano giovare agli allievi, alle loro famiglie e, in definitiva, al Paese.

Quali possano essere le risposte concrete, in materia di formazione dei docenti, per far fronte ai nuovi assetti socio-culturali, è naturalmente un altro discorso. E lo sa anche Mainardi, che annota: «Nell’universo digitale della rete del “2037”, le possibilità concrete che i docenti avranno di assistere, condividere e se del caso mediare/orientare personalmente l’esperienza individuale di bambini e adolescenti nel loro rapporto esclusivo, particolare e intimo con la realtà accessibile non è dato di sapere. Oggi tali possibilità sono molto limitate! Le interazioni con l’universo accessibile via e con l’ambiente digitale sono in ogni caso esperienze mediate, ma non per forza formative. Lo saranno? Sarà possibile renderle tali, riconoscerle, generarle in forma massiccia e valida?»

Reputo che non esistano spazi per dare risposte utili ed efficaci, se lo Stato e la politica – sindacati e associazioni di categoria compresi – continueranno a conservare a oltranza l’organizzazione del lavoro che conosciamo bene, proprio perché tutti noi ci siamo passati (e, prima di noi, i nostri trisnonni). L’insegnante che sa tutto, capace di fare tutto quel che professionalmente occorrerebbe sapere e fare, non esiste. Sarebbe come immaginare che il neurochirurgo si avventuri da solo in sala operatoria. Credere che la didattica e i piani di studio siano in grado, da soli, di rispondere ai grandi quesiti posti da Mainardi è una sciocchezza.

Volendo, si può supporre che serva un’impostazione diversa della professione. Per cominciare non deve più succedere che un insegnante sia il padrone onnipotente e indiscutibile delle sue valutazioni e delle sue scelte pedagogiche e didattiche. Forse è giunto il momento di dire a chiare lettere che allievi e studenti della scuola dell’obbligo devono essere affidati a équipe di insegnanti muniti di ricche competenze pedagogiche e disciplinari, che si completano e si arricchiscono a vicenda. Poi si dovrebbe riconsiderare il titolo che abilita all’insegnamento, affinché non sia più unico e definitivo: oltre a una chiara data di scadenza, da aggiornare con regolarità, si potrebbero immaginare livelli differenziati di competenza, per innalzare la qualità dell’insegnamento e, nel contempo, per creare una sana ed efficace mobilità professionale.


Qui è possibile scaricare il citato articolo dell’allora direttore del DFA.

È ancora possibile riformare sul serio la scuola?

Si sente spesso dire che la scuola è un cantiere sempre aperto, che poi, ogni tanto, crea il capolavoro, la riforma epocale. Tutto è storico, tutto è rivoluzionario – o, almeno, profondamente riformistico. Per restare a questo Cantone e lasciando perdere le iperboli della globalizzazione, credo che l’ultima riforma epocale della scuola ticinese sia l’istituzione della scuola media nel 1974. Insomma, tanti anni fa.

Se lasciamo perdere i tanti compromessi che si sono succeduti fino a oggi – i sistemi si assestano, per difendere le posizioni acquisite e far sì che i cambiamenti non siano troppo innovativi – bisogna ammettere che la storica decisione innescò innumerevoli altre trasformazioni: oltre alla soppressione della scuola maggiore e del ginnasio, la fondamentale riforma determinò la diffusione dei licei, l’ideazione di una nuova legge della scuola, la riforma degli studi magistrali, i nuovi programmi della scuola elementare.

Non da ultimo, la scuola dell’obbligo diventò più lunga di un anno, cancellando quei segmenti scolastici inventati per colmare il buco tra la licenza di scuola maggiore e il traguardo delle quindici candeline sulla torta: in pratica le scuole di avviamento professionale e di economia domestica.

Con gli occhi di oggi si potrebbe arguire che, in definitiva, non è successo nulla di importante, anche perché il mondo circostante è cambiato di più e più in fretta, mentre la cinica selezione scolastica è ancora lì a determinare gran parte della politica scolastica, spesso come atteggiamento reazionario nei confronti di una scuola media che, sino a oggi, non è comunque riuscita a mantenere tutte le promesse di quegli anni lontani, così ardenti e traboccanti di sogni.

Per chiarezza, sono dell’opinione che il progetto «La scuola che verrà» ha poco di storicamente rilevante, tanto che è ancora da capire se, nei confronti delle più alte finalità della scuola pubblica e obbligatoria, cambierà concretamente qualcosa. Per ora la selezione scolastica percorre ancora strade darwiniste, il calendario scolastico si rifà a quello della nascita della scuola popolare (oltre due secoli fa), l’organizzazione di base è impantanata nella sacra triade dell’insegnante che lavora nella Sua aula e coi Suoi allievi. Siamo fermi all’Ottocento.

Mi ha colpito una recente decisione del governo ginevrino, che ha allungato l’obbligatorietà della frequenza scolastica fino a 18 anni, quindi tre in più rispetto alla tradizione che prevede il «liberi tutti» a 15 anni. I motivi della decisione – che, di per sé, non ha niente di epocale, considerata la percentuale altissima di ragazzi che continua la sua formazione dopo il termine anagrafico – sono molto pragmatici: «Circa 1000 giovani, di cui la metà minorenni – ha scritto la Tribune de Genève – interrompono annualmente la loro formazione alla scadenza dei 15 anni. Secondo il Dipartimento dell’istruzione pubblica il rischio che si ritrovino disoccupati è quattro volte più alto di ogni giovane diplomato». Pensiamoci. Il limite dei 15 anni prima di andare a lavorare è stato fissato quando il mondo era un altro. Quella sì, potrebbe trasformarsi in una riforma epocale, perché permetterebbe di riorganizzare da cima fondo una scuola nuova – sempre che al Paese importi qualcosa di formare cittadini critici, cólti, competenti e – perché no? – pure felici, pronti ad affrontare nuove sfide ogni giorno che passa e a contribuire al benessere di ognuno.