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La selezione scolastica e gli esami che non finiscono mai

I mass-media hanno l’abitudine di pubblicare qualche articolo in linea con talune scadenze canoniche. Natale, Pasqua, Carnevale e l’esodo per le vacanze estive sono ghiotte occasioni per qualche riflessione. Non può mancare all’appello la fine dell’anno scolastico. Così ecco che «Il Caffè della domenica», settimanale gratuito del Canton Ticino, nella sua edizione di domenica 16 giugno 2014 ha pubblicato un interessante contributo del Prof. Renato Martinoni, professore di Letteratura italiana all’Università di San Gallo, sul tema degli Esami. Riporto la prima parte dell’articolo, che può essere condiviso e, nel contempo, criticato. Scrive Martinoni:

In realtà, tutti lo sanno, non è soltanto a scuola che si fanno gli esami. Perché, nella vita, gli esami non finiscono mai. Anche se poi c’è chi preferisce rimandarli alle calende greche. Resta che è la scuola il vero tempio degli esami. Forse anche per questo c’è stato chi, alla fine degli anni Sessanta del secolo passato, in alcuni Paesi dell’Europa, ha cercato di abolirli: creando però una inestricabile confusione dove tutti, i bravi e i somari, uscivano dall’accademia con il voto “politico” della sufficienza. Tutti promossi, evviva!, e tutti dottori. Così però, invece di garantire l’uguaglianza sociale, veniva legittimata l’asineria collettiva. E i furbi promossi, ma ti pareva?, si ingegnavano quasi sempre a rubare il posto di lavoro ai bravi. Anche Pier Paolo Pasolini suggeriva, verso la metà degli anni Settanta, di abolire la scuola media e la televisione: perché, diceva, la scuola illude di sapere, e rende presuntuosi, mentre la televisione (quanta lungimiranza c’era nelle sue visioni!) ammalia con realtà artificiose, anzi false, e quindi rincoglionisce. Resta che, fin che la scuola esisterà, gli esami scolastici non potranno essere aboliti. Perché non sono carta straccia, come qualcuno si ostina a pensare, ma un compromesso faticoso, e a volte anche doloroso, eppure indispensabile. Necessaria, nelle scuole, è la selezione, senza la quale anche gli scansafatiche vengono promossi: con tutte le belle conseguenze che ognuno può immaginare.

 

Primo insegnare: è il patto della scuola dell’obbligo (o dovrebbe esserlo)

Ma vengo al dunque. Martinoni scrive che «fin che la scuola esisterà, gli esami scolastici non potranno essere aboliti», perché sono «un compromesso faticoso, e a volte anche doloroso, eppure indispensabile. E conclude che «Necessaria, nelle scuole, è la selezione, senza la quale anche gli scansafatiche vengono promossi».

Alt! Il discorso di Martinoni va bene per tutte le scuole dopo l’obbligo scolastico. Durante la fascia d’età durante la quale lo Stato ha deciso di scolarizzare coattivamente tutti i bambini e ragazzi tra i quattro e i quindici anni, non è eticamente accettabile questo tipo di selezione, basata essenzialmente su conoscenze di tipo intellettuale o cognitivo. Lo scopo della scuola dell’obbligo non è quello di scegliere le future élite del paese, bensì quello di dare una formazione di base solida affinché ognuno possa diventare un cittadino attivo e informato, un cittadino che sa pensare, perché conosce a fondo la lingua parlata dove vive, perché padroneggia le basi della matematica, perché ha imparato la storia e la geografia del suo paese, e magari ha sufficienti rudimenti per comunicare in altre lingue. Aggiungerei: durante quegli undici anni di scuola obbligatoria ha pure imparato ad apprezzare la poesia o la letteratura, la pittura o l’architettura, la musica, la fisica o le scienze naturali.

A cosa servono le certificazioni annuali, i test reiterati e ravvicinati, le note a ogni piè sospinto, i dannosi giudizi di valore? Nella scuola dell’obbligo deve eccellere la tensione etica volta a insegnare. La soddisfazione del Maestro è quella di riuscire a far «bere un cavallo che non ha sete», per citare Célestin Freinet. Per separare gli astrofisici dagli idraulici e i filosofi dagli imbianchini ci sarà tempo più tardi, aggiungendo che una scuola dell’obbligo seria e deontologicamente elevata è pure in grado di orientare bene una ragazza o un ragazzo di quindici o sedici anni: che se è in grado di conoscere le sue debolezze e i suoi punti di forza non andrà al liceo solo perché non ha ancora capito cosa vuol fare da grande – o perché se la va la spacca.

Qualche giorno fa ho partecipato alla cerimonia di commiato dagli allievi di 5ª elementare delle scuole comunali di Locarno. Ospite d’onore era Franco Lazzarotto, per tanti anni direttore (anomalo) di scuola media. Che non ha risparmiato alcuni consigli alla sua platea di decenni neo-licenziati dalla scuola elementare. «In settembre – ha detto – inizierete a frequentare la scuola media. Vi do tre consigli. Primo: quando entrate a scuola, ricordatevi di accendere il cervello. Secondo: andare a scuola è un po’ come andare a lavorare. Piegare la schiena è importante e inevitabile, con costanza a caparbietà. Terzo: è importante metterci anche il cuore, che dà una prospettiva positiva e piacevole verso la scuola e ciò che s’impara».

Facile a dirsi, ma sappiamo quali sono gli effetti, a quell’età, delle tempeste ormonali (e degli stimoli più o meno “alti” che si ricevono o non si ricevono in famiglia; e, aggiungerei, anche a scuola). E allora non è con i test e con le note e con gli esami che si insegna. Ma i tre consigli di Lazzarotto valgono anche per gli insegnanti: accendere il cervello, piegare la schiena e metterci il cuore riportano dritti dritti a Johann Heinrich Pestalozzi, che non è propriamente l’ultimo arrivato.

Non ci si può beare – e magari riderne – delle tante insufficienze che si rifilano a fine semestre e fine anno. Assegnare un 3 in matematica o in italiano a un bambino di otto anni o a un ragazzo di tredici non serve a nessuno. Non serve all’insegnante, che se è psichicamente equilibrato e ha fatto il possibile per far crescere il suo allievo, dovrebbe farsene un cruccio; non serve all’allievo, che nella peggiore delle ipotesi sapeva già di non aver capito; e non servirà a quello Stato che ha bisogno di cittadini che sanno pensare.

Attenzione. Non sto spalleggiando i fautori del voto “politico”. Ma un insegnante della scuola dell’obbligo ha il compito primario di insegnare, prima di sottrarre tempo inutile a dàr le note. Il maestro della scuola elementare e il professore della scuola media devono parlare coi loro allievi, devono – se occorre – metterli duramente con le spalle al muro.

«Caro ragazzo, è inutile cercare scuse e arrampicarti sui vetri. Questo libro che dovevi leggere entro oggi non l’hai nemmeno aperto. Così già da oggi starai con me ogni martedì sera. Io preparerò le lezioni dell’indomani o correggerò alcuni lavori di oggi, e tu leggerai il tuo libro».

«Come? Non puoi perché il martedì sera hai l’allenamento del calcio? No, caro mio. Parlerò coi tuoi genitori e col tuo allenatore, ma tu al calcio continuerai a giocare solo dopo che avrai svolto fino in fondo il tuo dovere: che è quello di venire a scuola e di imparare».

Ha scritto don Lorenzo Milani che «Bocciare è come sparare in un cespuglio. Forse era un ragazzo, forse una lepre. Si vedrà a comodo». E aggiungeva: «La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde».

 

Scuola e selezione

Scrive ancora Martinoni: «Necessaria, nelle scuole, è la selezione, senza la quale anche gli scansafatiche vengono promossi: con tutte le belle conseguenze che ognuno può immaginare». Non credo che si tratti solo di scansafatiche e di veri e propri fannulloni. La selezione è certo necessaria, al momento buono. La scuola dell’obbligo dovrebbe saper orientare. Se la scuola media fosse in grado di insegnare e di orientare per davvero, eviteremmo per cominciare tante carneficine durante il primo biennio della scuola media superiore. Ma anche su queste stragi qualcuno dovrebbe in ogni modo riflettere: un po’ per esperienza diretta, come genitore, e un altro po’ grazie a osservazioni indirette, non mi sembra che gli esami del liceo rispondano alla definizione che ne dà Martinoni: «come deve essere un esame degno di questo nome? (…). Un vero esame è uno spazio aperto di riflessione, non un palcoscenico per dei secchioni che ripetono alla lettera quello che hanno mandato a memoria. Senza magari neanche capire ciò che dicono. Un vero esame non è un atto intimidatorio: dove chi interroga (succede, ahimè!) è il tiranno e chi viene tartassato, il tapino, è la vittima sacrificale. Anzi, diciamola pure tutta, un vero esame è un luogo di incontro, dove ciascuno ha un compito definito: chi lo conduce, il professore, deve porre domande chiare e precise (…); chi lo sostiene deve sapere che non si può vomitare tutto, solo per fare bella figura (…). Perché a contare non deve mai essere la quantità: ma la qualità. Detto altrimenti, un esame degno di questo nome non è un fuoco d’artificio, né una camera delle torture, ma una prova di intelligenza: dove una preparazione solida si combina con la capacità di argomentare con saggezza e di sostenere le proprie opinioni».

Alzi la mano chi ritiene che nelle nostre scuole la selezione avvenga solitamente attraverso esami di simil fatta.

È vero, per contro, che la selezione ha grande valenza sociale e politica quando si imbocca la strada che porta al mondo del lavoro. Quando ho bisogno dell’elettricista, quando porto l’auto in garage, se sono ricoverato all’ospedale, quando mando mio figlio a scuola devo avere cieca fiducia nell’elettricista, nel meccanico, nel medico e negli infermieri, nell’insegnante. Pretendo che il mio elettricista, il mio meccanico, il medico e gli infermieri che si prenderanno cura di me, l’insegnante che insegnerà e valuterà mio figlio siano formati adeguatamente per svolgere le loro mansioni e che conoscano a menadito lo stato dell’arte.

Le scuole, in questi casi, non devono e non possono titubare o distribuire “voti politici”. Ho sempre creduto che le cose si sanno o non si sanno (ecco perché sono contro le scale di note, coi loro mezzi punti beceri). Il giurista, il maestro, l’imbianchino e il poliziotto devono saper fare il loro lavoro. È quel che ognuno si aspetta da loro.

Com’è un chirurgo da 4 o 4½? Ci si può fidare? Oppure la probabilità che “l’operazione è riuscita ma il paziente è morto” è alta?

Poi ci sarebbero alcune cose da dire sulla scuola medio-superiore, liceo in testa: una scuola dall’identità sempre più imprecisa, sulla quale converrebbe riflettere seriamente. Ma questo è un altro discorso (che in parte ho già toccato il 18 settembre 2013: Non accorciamo il liceo, ma cinquemila studenti son troppi).

La scuola, la tradizione cattolica e il culto del sole

Oggi, mercoledì 18 giugno 2014, da noi si chiude l’anno scolastico. A metà settimana, in modo da rispettare le famose 36.5 settimane di durata dell’anno scolastico: praticamente un dogma.

Buone vacanze agli insegnanti.

L’amico ed ex collega Marco Rossi, direttore delle scuole comunali di Stabio, un paio di mesi fa ha scritto una lettera un po’ stizzita al direttore della divisione della scuola del DECS. Vale la pena, con la sua autorizzazione, riportare quasi per intero il testo.

 

Lettera a un capodivisione

Già quindici anni fa, in qualità di presidente della Conferenza dei Direttori delle Scuole Comunali (CDD), ebbi a scrivere al suo predecessore in merito al calendario scolastico del Canton Ticino, legato ancora al cosiddetto calendario agricolo, o alla convinzione che in Ticino in estate fa troppo caldo e quindi le teste degli allievi, e quelle degli insegnanti, non possono lavorare. Il nostro cantone detiene di gran lunga il record di settimane di chiusura estiva. La media svizzera è di 6-7 settimane, in Ticino sono almeno dieci.

Lasciamo da parte le battute e veniamo al nocciolo della questione. La composizione famigliare, e la realtà lavorativa, sono notevolmente cambiate in Ticino dagli anni ottanta dello scorso secolo e ancora di più negli ultimi dieci anni. Il calendario scolastico no. È lo stesso da almeno settant’anni, con l’unica riforma dovuta all’anticipo dell’anno scolastico all’inizio di settembre, in cambio del sabato libero. Se non erro verso la fine degli anni settanta.

Oggi la maggioranza delle famiglie ha esigenze diverse da quelle cadenzate dal calendario scolastico, tanto che il mercato del tempo libero è diventato uno dei più redditizi. Il problema è l’occupazione dei figli nel lunghissimo periodo di vacanze estive. Fioccano le iniziative […]: colonie, colonie diurne, campi tematici (sportivi, culturali, artistici, ecc.), atelier di uno o più giorni e quant’altro. È sottointeso che il tutto, a parte rarissimi casi, è a pagamento, con prezzi non proprio popolari.

 Ci sono famiglie che se lo possono permettere e altre no. Ci sono quindi bambini e ragazzi “fortunati”, che d’estate possono imparare tante belle cose, ed altri che bighellonano fra la televisione, i videogiochi, il giardinetto e il piazzale scolastico.

La scuola in questo caso è l’unico luogo gratuito dove tutti possono trascorrere il proprio tempo svolgendo attività interessanti, imparando a diventare adulti.

Se si andasse a scuola fino alla fine di giugno, o si iniziasse a metà agosto, si potrebbero organizzare, da parte degli istituti, attività all’aperto, corsi sportivi, atelier manuali, ecc. Non solo lezioni in aula.

Un secondo aspetto dell’anacronistico calendario scolastico è l’esigenza di molte famiglie di poter avere periodi di vacanza al di fuori del calendario ufficiale, soprattutto in vicinanza di alcune feste, in particolare il Natale.

Sono diversi i genitori che non possono fare vacanza quando la scuola chiude, siano essi impiegati nel settore turistico, in quello commerciale della vendita, ma anche in quello dei servizi o terziario, oppure anche in quello dell’edilizia (ferma in inverno fino alla terza settimana di gennaio). Con una battuta un po’ cattivella si potrebbe dire che solo gli insegnanti fanno vacanza quando le scuole sono chiuse. […]

 

Il calendario scolastico: uno dei pochi punti fissi della scuola

Però, a dirla tutta, Rossi non ha capito un accidente. Ma è comprensibile. È un suo pallino (non solo suo, a dire il vero). In altri anni il capo dell’Ufficio del’insegnamento primario amava ripetere che gli ispettori esprimevano idee, mentre i direttori avevano solo pallini.

I tempi son cambiati: solo palle per tutti, ad eccezione di Marco Rossi, che ha conservato qualche legittimo pallino.

Il calendario scolastico è solo uno degli elementi assiomatici che fondano i tempi della scuola.

Esiste un tempo giusto per andare a scuola? C’è qualche dato più o meno scientifico che determini quante ore alla settimana è necessario stare a scuola? E, parallelamente, qualcuno è in grado di dire con sicurezza qual è la miglior durata dell’anno scolastico e come si devono alternare i momenti sulle sudate carte e quelli dedicati al riposo?

Il problema è che, al punto in cui siamo, tali indiscutibili variabili, pressoché indipendenti, determinano i tempi della scuola. È una questione in parte astronomica, quasi cosmologica, e in altra parte antropologico-religiosa. Vediamo perché.

 

La scuola ruota attorno al sole, anche se non sembra…

È sotto gli occhi di tutti che anche al centro della scuola ci sia il Sole. Siamo al culto egiziano di Ra, il dio del sole. Con l’entrata in vigore del concordato HarmoS quando la terra avrà compiuto quattro rivoluzioni intorno al sole il bimbo nato poco dopo il solstizio d’estate dovrà andare a scuola.

Ma l’economia e la finanza premono – e, tanto, molti piccoli di homo sapiens sapiens (il doppio sapiens è naturalmente un’auto adulazione) già oggi vengono mandati a scuola dopo tre giri, e alcuni sono consegnati ai nidi per l’infanzia ancor prima di terminare il primo giro: sennò non se magna (o non si paga l’ipoteca sulla villa).

Questo circuito planetario scandisce poi il resto. Per restare nell’ottica HarmoS, dopo i prossimi due giri si entrerà nella scuola elementare, dove si permarrà per cinque giri. Poi nuovo cambio, per altri quattro giri. Da lì in avanti ognuno potrà continuare a inventarsi qualcosa al termine di ogni giro. Se lo desidera.

Correttezza vuole che non si taccia sulle penitenze: come un grande gioco dell’oca, capita che qualche povero tapino sia costretto a fare dei giri di penalità, chiamati, molto prosaicamente, “bocciatura” o “ripetizione di classe”. Ma attenzione: se uno è considerato particolarmente intrattabile eviterà le penalità, così che allo scadere della quindicesima rivoluzione attorno al sole, contando dal giorno della nascita, non sarà più costretto ad andare a scuola. Anzi, facilmente l’indurranno ad andare fuori dai piedi.

 

La logica? Un’estranea!

C’è poi un secondo aspetto astronomico che determina i tempi. Come è noto, nel Canton Ticino l’anno scolastico apre i battenti a inizio settembre e chiude a metà giugno, dopo aver totalizzato 36 settimane e mezza (sic) di frequenza effettiva. Tra la partenza e lo striscione d’arrivo si prevedono – ci mancherebbe – alcune soste per prendere fiato. Una pausa ogni tot settimane, come imporrebbe la logica? Neanche per sogno.

La partenza e l’arrivo, come scrive Marco Rossi, derivano da un lungo tira e molla tra contadini e borghesi, quando gli stati moderni, ormai oltre due secoli fa, decisero che andare a scuola fosse un vantaggio per lo Stato. Ma le pause intermedie, come vedremo, non seguono la ragione o la logica, ma si basano su ben altri principi.

Ad esempio c’è una decina di giorni di vacanza attorno a Pasqua. Ma chi determina la data della Pasqua? Le necessità di riposo di docenti e allievi? Nooo! La Pasqua è il modello esemplare della festa mobile. Senza tirarla troppo per le lunghe, la “nostra” Pasqua cade nella domenica seguente il primo plenilunio che viene dopo l’equinozio di primavera. Chiaro? No? Non fa nulla, l’importante è aver fede.

Va da sé che la Pasqua ingozza nella sua scia innumerevoli altre pause, a partire dalle vacanze di Carnevale (che coincidono con le Ceneri), per giungere ai tanti ponti infrasettimanali, più o meno formali, che caratterizzano la volata finale, da Carnevale alla festa di fine anno.

 

Siamo tutti laici, salvo quando qualcosa finisce in saccoccia

Abbiamo visto sin qui che, al di là delle fanfaluche che scrive Rossi, spacciandole per dimostrazioni socio-scientifiche, il Cosmo determina gran parte dell’anno scolastico. È il Cielo che prescrive le vacanze di Carnevale e di Pasqua, col loro seguito di feste ammucchiate entro giugno (Ascensione, Pentecoste e, a volte, Corpus Domini: neanche più in Italia santificano così tanto le feste). E le altre vacanze? Dapprima vi sono le vacanze autunnali, più note come «vacanze dei morti», che cascano in corrispondenza con Ognissanti. Seguono le mitiche vacanze di Natale.

 

Dunque?

Restano le date d’inizio e fine dell’anno scolastico, nonché gli orari settimanali, che variano – e aumentano – in base all’età (numero di giri attorno al sole) e alla tradizione ormai secolare. Le vacanze estive durano quasi due mesi e mezzo. Negli altri cantoni svizzeri non è così, ma non è il caso di farne un dramma: a parte le questioni cosmologiche, ovviamente identiche, seppur con interpretazioni e percezioni dissimili, esistono tradizioni locali, ciò che ci permette di detenere il primato svizzero dell’anno scolastico più breve dell’intera Confederazione. Ma l’amico Rossi non deve indurre il DECS a insane pensate, come avevo già scritto in un paio di articoli di un po’ d’anni fa: Le vacanze estive (12 giugno 2002) e Giù le mani dalle nostre vacanze estive (10 settembre 2003).

Fino a che non cambieranno le regole del gioco meglio non toccare nulla. Per ora la scuola non ha nessuna intenzione di riappropriarsi del primato dell’Insegnare sul primato del Valutare. Continua invece, indebitamente e a casaccio, a basare gran parte della sua condotta (dal tempo trascorso a scuola a quello imposto a casa!) proprio sulla valutazione: con la solita indifferenza alle differenze.

Di questi tempi è fin troppo facile, con la scusa dell’economia e della political correctness, prendere tre affermazioni di Marco Rossi e farle diventare l’undicesimo comandamento.

Anche se non si è capito, ad esempio, come mai tocchi alla scuola occuparsi anche dei suoi tempi morti – le mense, i doposcuola, le colonie autunnali invernali carnevalesche pasquali ed estive. Se pensiamo che anche i partiti di sinistra, allineati con Economiesuisse e compagnia cantante, chiedono a gran voce la custodia dei cuccioli durante tutti i tempi in cui la scuola tira giù le saracinesche, per permettere ai loro genitori di produrre, siamo per davvero al mondo alla rovescia.

 

Chiudiamola qua, per ora…

Scherzi a parte, l’amico Rossi ha tante, tantissime ragioni. Ma di questi tempi è preferibile far parte delle minoranze emarginate, piuttosto che delle maggioranze confuse e piegate alle pretese dell’economia, nonché alle tracotanti e generalizzate sgroppate dei politici in vista del rinnovo dei poteri cantonali.

Per la rivoluzione copernicana, meglio attendre tempi migliori.

«Polis e manicaretti»: un articolo del filosofo Fabio Merlini

Fa impressione, certo. Però anche sulla stampa quotidiana di questa Repubblica esagerata, delle dimensioni di un paio di quartieri di Milano, succede che appaia un articolo dal respiro e di un livello intellettuale degno di ben più blasonati quotidiani europei. È il caso di uno scritto del filosofo Fabio Merlini apparso su La Regione Ticino di lunedì 2 giugno 2014, col doppio titolo di «La politica dei manicaretti» in prima pagina e «Polis e manicaretti» a pagina 2.

Senza farmi le tradizionali soverchie illusioni, sono quindi felice di riproporre qui il lucido testo di Merlini, con la speranza che riesca a superare la volatilità della stampa quotidiana d’immediato consumo. Capita purtroppo a tutti – quindi presumo anche a Merlini – di sentirsi dire «Ho letto il tuo articolo» (varianti: «T’ho visto in televisione», «T’ho sentito alla radio») senza che l’occasionale interlocutore abbia la benché minima idea di cosa hai raccontato.

Eppure «Polis e manicaretti» è uno scritto importante, perché parla del fragile confine tra democrazia e demagogia, di «Una politica-manicaretti» che è sempre più «una politica che non mira al bene della polis».

E che c’entra la scuola? C’entra, c’entra…

C’entra per tantissime ragioni, ma naturalmente non è il caso che ne faccia l’elenco (il mio elenco) e che per ogni elemento ne tracci motivazioni e intrecci. Ma ho sempre più la spiacevole e amara sensazione che lo Stato abbia perso la bussola, proprio in un settore di così fondamentale importanza: quando, nel 1804, quel medesimo Stato decise che «Tutti i Padri di famiglia, tutori, e curatori sono obbligati mandare i loro figlj, e minorenni alla Scuola» aveva un obiettivo alto. Il Gran Consiglio dell’epoca spiegava che «la felicità di una Repubblica ben constituita deriva principalmente dalle savie istituzioni, e da una buona educazione; mentre da uomini bene educati si può sperare ogni bene, e dalla ignoranza nascono tutt’i vizj, e disordini».

Tante volte ho citato il monito di uno dei pedagogisti contemporanei che amo di più, Philippe Meirieu, che nel suo libro L’école ou la guerre civile – pubblicato nel 1997! – scrive:

[…] l’école doit renoncer à la gestion juxtaposée et conflictuelle de millions d’intérêts privés ; elle doit redevenir une affaire publique. En d’autres termes, l’école n’est pas un service, c’est une institution. […] Or, l’éducation, pendant la période de la scolarité obligatoire – c’est-à-dire au moment crucial où l’État prend la décision de scolariser l’ensemble des enfants et garantit leur égale instruction –, se doit d’obéir à des valeurs spécifiques. Elle n’a pas vocation à être le champ clos de la concurrence sociale. Demander à l’école de satisfaire l’ambition individuelle de chacun, c’est se condamner à l’école-supermarché.

Tuttavia siamo proprio dalle parti della scuola-supermercato, con la corsa sfrenata a investire la scuola di interessi privati giustapposti e conflittuali. Nessuno è stato in grado di capitalizzare l’enorme atto di stima che la popolazione aveva accordato alla Scuola dello Stato in occasione della “storica” votazione del 18 febbraio 2001. Nel frattempo le discussioni attorno alla scuola continuano a toccare ambiti certo importanti – il percorso casa-scuola, il numero di allievi per classe, le nuove tecnologie, il bullismo, le mense, il doposcuola e via elencando – senza mai avere il coraggio di andare dritti al cuore del problema: che è quello di battersi per una vera equità, affinché la scuola dello Stato non si occupi più della selezione delle élite entro la quarta media, ma si dia da fare sul serio per promuovere «lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà». Invece che cosa continua a succedere? Che l’insuccesso scolastico ha sempre radici altrove, fuori dalla scuola. La colpa è della famiglia, dell’allievo, delle classi troppo numerose…

A ciò si aggiunga Una legge della scuola incartapecorita, frutto di una politica del manicaretto che legittima la deresponsabilizzazione collettiva. Ma, in fondo, è inutile fingersi ingenui: il voto di insegnanti, genitori e altre figure che ruotano attorno alla scuola fa gola a tutti i partiti, mentre i più sgarrupati non hanno voce in capitolo: non hanno il diritto di voto.


Fabio Merlini – La politica dei manicaretti (La Regione del 2 giugno 2014)

Partirò da lontano, ma solo perché sovente ciò che è lontano è anche molto vicino. Nel Gorgia platonico, Socrate dice a Callicle: «Credo di essere uno dei pochi ateniesi – per non dire il solo – a capire che cosa sia davvero la politica, e credo di essere il solo a fare davvero politica di questi tempi. Nel senso che tutto quello che dico lo dico non per compiacere la gente, o per rendermi gradito, ma per perseguire il bene». Il problema nasce quando (“di questi tempi”) l’idea del bene non trova più alcuna rispondenza nel proprio uditorio, poiché più che il bene ciò che conta per il destinatario è la possibilità di riconoscersi in un discorso capace di intercettare le proprie attese, siano esse relative a inquietudini, a frustrazioni o a desideri. Di intercettarle – si intende – così da offrire, con un linguaggio semplificato e seduttivo, risposte a portata di mano, tanto deve risultare chiara e certa la fonte dei problemi da rimuovere senza tanti distinguo. Allora, osserva Socrate, non vi è più spazio per la vera politica, poiché ostinarsi a credere ancora all’esistenza di un bene pubblico non necessariamente riducibile alla singolarità interessata dei diversi punti di vista – come pretende invece Callicle – significa esporsi ad un giudizio impietoso che condanna ad essere inascoltati. Il giudizio di quale tribunale? Il tribunale a cui si riferisce Socrate ha certo il carattere della farsa. Indica però bene la condizione di impasse nella quale incorre una democrazia a rischio di demagogia. La situazione descritta è questa: immaginate un tribunale in cui il procuratore pubblico sia un cuoco, l’accusato un medico e la giuria si componga di sbarbatelli immaturi. «Ragazzi – direbbe il cuoco rivolgendosi alla giuria –, quest’uomo passa il tempo a farvi del male […] non fa come me, che vi ho sempre preparato ogni tipo di manicaretti: lui vi fa bere medicine amarissime». E semmai l’accusato rispondesse «tutte queste cose le ho fatte per la vostra salute», i giurati, possiamo esserne certi, «protesterebbero e farebbero un gran baccano» – così conclude Socrate rivolgendosi a Callicle. Una politica-manicaretti è una politica che non mira al bene della polis. Anzi, è una politica per la quale la polis come referente privilegiato dell’azione politica non esiste nemmeno più. Ciò che esiste è ancora solo la preoccupazione di soddisfare le rivendicazioni di una soggettività ripiegata su di sé, tesa unicamente ad affermare il proprio godimento e il proprio dominio. Qui lo spazio per la temperanza viene meno, così come viene meno lo spazio per norme e divieti, i quali secondo la prospettiva di Callicle altro non sono che astuti espedienti attraverso cui la massa dei più deboli pone dei vincoli all’iniziativa e alla volontà espansiva dei più forti.

Democrazia e demagogia

Del Gorgia platonico, più che la figura di Socrate, ci interessa allora quella di Callicle. Poiché il suo personaggio, se interpretato alla luce di quando accade oggi, esprime al contempo la deriva demagogica e quella neoliberista. Per un verso, l’arte del compiacere le aspettative del demos e, per l’altro verso, l’insofferenza verso norme e divieti, il disprezzo per tutto quanto ostacoli l’affermazione del diritto di natura, limitando arbitrariamente il domino dei più forti – ciò che nella prospettiva di Callicle equivale al totale misconoscimento del fatto che la sopraffazione, e non la temperanza, sia la condizione naturale degli uomini. Dunque, chi è l’uomo politico callicleo? È colui il quale afferma il suo potere affinando gli strumenti per compiacere il popolo; la sua politica è una variante cinica della comunicazione consensuale, di più: è uno sfruttamento tattico della democrazia. Il mezzo per realizzare questo sfruttamento si chiama retorica e il suo campione è il demagogo, una radicalizzazione estrema della figura del sofista. Attraverso il suo comportamento è possibile vedere come la demagogia appartenga alla democrazia stessa – in Platone ne è addirittura l’esito inevitabile, prima di trasformarsi in tirannide. Perché la relazione della democrazia con la verità e il bene è una relazione fragilissima. Una relazione subito pronta a decadere, a favore dell’esaltazione delle istanze più incontrollate e irrazionali della volontà, proprio quelle sulle quali fa, appunto, breccia la retorica politica. Essa è tanto più efficace, quanto più è abile ad anticipare, rappresentare ed enfatizzarne le attese, orientandosi esclusivamente su di esse, facendole così diventare il perno stesso dell’azione politica: non che cosa converrebbe impegnarsi a realizzare insieme, ma che cosa il destinatario desidera sentirsi dire. È la differenza che corre tra la ricerca della concordanza attorno a una certa idea di bene o di equo e l’astuzia di rappresentarsi l’immaginazione pubblica, per guadagnare potere attraverso un immediato riconoscimento consensuale. Come qualcuno ha osservato, tutto il contrario della “politica culinaria” nel senso callicleo è quando Winston Churchill, in relazione alla guerra con la Germania, si rivolse agli Inglesi parlando di “lagrime e sangue”: in questo frangente, la convinzione attorno ad un bene politico fondamentale, la sconfitta del nazismo, viene presentata senza occultare i costi che la sua realizzazione avrebbe certamente comportato. Questo è allora il caso di una simmetria etica tra chi parla e chi ascolta, dove chi parla si assume la responsabilità di una duplice verità: quella relativa alla propria convinzione intorno a un bene collettivo (la sconfitta di una micidiale dittatura) e, soprattutto, quella relativa ai mezzi per conseguirla (l’inevitabile perdita di vite umane). L’esempio ci dice che la simmetria può funzionare in due modi. L’uno, virtuoso, giocato sulla condivisione di ciò che in una certa congiuntura equivale al bene comune – una condivisione che richiede di rendere persuasivi argomenti e ragioni, indipendentemente, per così dire, dallo “stato dell’arte” dell’umore e delle aspettative imperanti. L’altro, vizioso, in cui la questione politica principale diventa la loro intercettazione strategica, per cui il destinatario del discorso politico diviene mera volontà assecondabile. Egli non esiste più come cellula della sfera pubblica, membro di una comunità: esiste ancora solo come aspettativa anticipabile e vale unicamente per ciò che desidera ascoltare. In questo senso, come aveva visto perfettamente Platone, la prossimità del demagogo al demos è ingannevole, perché, anziché essere il destinatario di un progetto politico, il popolo diventa mero strumento di una investitura elettorale. Con il risultato che, alla fine, è la democrazia stessa a ridursi a mera procedura elettorale.

I nipotini di Callicle

La crisi della progettualità politica, negli eredi di Callicle, ossia negli odierni populismi, si riflette allora proprio in questo insistito appello al popolo come fonte di legittimazione. Dove il punto centrale, lo ripeto, non è impegnarsi a raccogliere, dopo averlo coltivato, il consenso popolare attorno ad una progettualità, bensì selezionare opportunisticamente i referenti dell’azione politica, a dipendenza dell’umore popolare. È il disimpegno della politica attraverso la politica stessa. Di fatto, secondo questa logica, la politica salta a piè pari la questione della costruzione del consenso, inserendosi là dove il consenso dei più è già assicurato, è già dato come sentire comune. La questione che ora voglio affrontare è il senso della relazione che la demagogia populista intrattiene con questa idea di popolo. La prossimità dei populismi al popolo, per quanto mendace, è il riflesso della crisi delle forme tradizionali di mediazione sociale e politica. È una prossimità che vuole farla finita con le istituzioni, e in questo senso vive di immediatezza. Il linguaggio che la realizza tradisce in tutte le sue forme proprio questa immediatezza: esso deve andare a segno, senza condizioni. Per questo si spettacolarizza. In ragione di questa spettacolarizzazione, il luogo privilegiato dell’azione politica non può più essere rappresentato da istituzioni come il parlamento, perché il suo canale ideale è semmai la comunicazione mediatica. In questo senso, possiamo osservare che se il parlamento nasce come espressione di una nuova forza politica (la borghesia nascente) in opposizione allo Stato assoluto, facendo così valere un luogo per legiferare e trasformare le leggi; la demagogia populista inventa illusoriamente il popolo (la “gente”) come forza che delegittima il sistema parlamentare, in virtù di una immediatezza dove la sovranità popolare immagina di potersi nuovamente affermare quale diritto al riparo da qualsiasi opacità, da qualsiasi interesse occulto di parte, da qualsiasi arbitrio del potere delle élite. Più che apolitico, il populismo è una telepolitica – proprio come parliamo di teletecnica per indicare quegli artefatti che permettono di comunicare in tempo reale, eliminando l’intermediazione dello spazio, cioè azzerando le distanze. È una politica priva di mediazioni che si presenta come interpretazione senza scarti della volontà popolare, spazio di una rappresentazione intenzionato a presentarsi quale garante unico della rappresentanza popolare. Per concludere, desidero segnalare che questa immediatezza, per essere compresa appieno, va posta in relazione con un altra immediatezza: quella esercitata oggi da una economia fuori di qualsiasi controllo statuale. Potremmo dire così: il populismo, nelle sue forme contemporanee, è la risposta politica all’immediatezza con cui l’economia speculativa realizza i suoi scopi, è una risposta alla forza della sua affermazione, una affermazione diretta sulle cose e le persone, idealmente priva di mediazioni politiche. Il populismo risponde con la sua immediatezza all’immediatezza del comando economico, contrappone una immediatezza ad un’altra immediatezza: risponde a una minaccia – l’esposizione incondizionata ai suoi dettami – con le sue stesse armi. L’allergia della economia verso la mediazione politica, viene fatta propria dalla stessa politica, attraverso il discorso populista. In questo modo, però, senza volerlo il populismo si allea ai disegni egemonici di una economia resasi autonoma e indipendente da qualsiasi potere che non sia quello della sua azione sul mondo. E lo fa disiscrivendo la società da qualsiasi forma politica. Il risultato conseguito – non a caso da entrambi – è il restringimento della sfera pubblica. L’illusione che volontà, aspettative e desideri possano essere realizzati immediatamente – proprio come quando siamo invitati ad acquistare e a consumare (ne sanno qualcosa i nostri giovani) pur non avendone i mezzi. È l’illusione di far vivere un soggetto a pretese totalizzanti, privo degli argini dettati dalla vita civile. Laddove salta la mediazione tra psiche e polis, salta anche la sfera pubblica e con essa la mediazione necessaria alla socializzazione. Ma è questo che vogliamo? Trovarci sempre più soli e isolati, nonostante la pletora degli odierni mezzi comunicativi?

Supermarket «Scuola»: griglie orarie e lobby scolastiche

Il 27 maggio è stato presentato a Locarno il rapporto della SUPSI relativo alla valutazione della sperimentazione dell’insegnamento di «Storia delle religioni», che è iniziata in sei sedi di scuola media del Cantone Ticino nel settembre del 2010. Per il ministro dell’educazione e della scuola Manuele Bertoli è stata l’occasione per tratteggiare a grandi linee la quadratura del cerchio necessaria per istituire nella scuola media il corso di «Storia delle religioni» e la nuova disciplina «Educazione alla cittadinanza», esigenze espresse dal Parlamento il primo e da un’iniziativa popolare la seconda.

Non m’interessa, per ora, entrare nel merito delle due nuove discipline pretese dal “popolo sovrano”, in attesa di leggere il rapporto della SUPSI. Segnalo di transenna che nella mia rubrica sul Corriere del Ticino ho già parlato in tre occasioni di insegnamento della religione: il 24 dicembre 2003 (Scuola, cultura religiosa e indifferenza), l’8 maggio 2007 (La nuova ora di religione sconfiggerà la barbarie?) e il 24 ottobre 2012 (Religione a scuola: una sperimentazione inutile?).

Durante l’incontro di Locarno Bertoli, secondo quanto ha riferito il Corriere del Ticino, ha detto a chiare lettere che in nessun caso si deve aumentare la griglia di 33 ore settimanali in vigore nella scuola media: «Questo è il carico massimo che i ragazzi possono sopportare, anzi, idealmente andrebbe ridotto». Concordo, soprattutto sull’accenno alla riduzione, anche se avrei preferito l’uso del modo indicativo al posto del condizionale. Ergo: va ridotto.

Teoricamente i nostri ragazzi sono a scuola per trentatre ore settimanali, dunque, più o meno, per circa 1’200 ore all’anno. Bisogna poi aggiungere i famigerati compiti a casa, vacanze comprese, che sono difficili da quantificare e, sempre teoricamente, sono inversamente proporzionali alle attitudini di ognuno e ai suoi ritmi di apprendimento. Si può ipotizzare che per alcuni le ore di lavoro potranno avvicinarsi a cinquanta, mentre per altri non giungeranno nemmeno alle canoniche trentatre: i “bigioni” son sempre esistiti.

Sull’altra faccia della medaglia, vale a dire dal punto di vista della scuola, possiamo dare altre letture, assai variegate. Ne segnalo una, ben descritta da Don Milani in anni ormai lontani:

«Attualmente lavorate 210 giorni di cui 30 sciupati negli esami e un’altra trentina nei compiti in classe. Restano 150 giorni di scuola. Metà dell’ora la sciupate a interrogare e fa 75 giorni di scuola contro 135 di processo. Anche senza toccare il vostro contratto di lavoro potreste moltiplicare per tre le ore di scuola.»

D’accordo, oggi la maniera di essere a scuola è forse un po’ diversa, ma non poi così tanto. A colpi di test e di blitz e di verifiche, quasi sempre spacciati per strumenti scientifici e pertinenti (ohibò!), si perde un sacco di tempo che potrebbe essere dedicato all’insegnamento, all’approfondimento e al recupero. Senza naturalmente contare i giorni durante i quali non si insegna né si valuta – e, altrettanto naturalmente, senza scordare la grande ricreazione di fine anno (v. il mio scritto del 4 giugno 2003).

C’è poi almeno un secondo aspetto, tutt’altro che di niuna importanza. La griglia oraria settimanale, sintetizzando un po’, è occupata più o meno dalle medesime discipline che l’avevano presidiata tanti decenni addietro: l’italiano, la matematica, la storia e la civica, la geografia, le scienze naturali, e poi le seconde e terze lingue (queste in crescita), le educazioni visiva, manuale e tecnica, musicale, fisica e via etichettando. Poi, giustamente o no, il peso specifico di ogni materia cambia: il peso specifico dell’italiano o della matematica è ancor oggi ai vertici della classifica, con un’accelerazione delle scienze naturali. In fondo troviamo la religione. Tra i due un’ammucchiata di difficile interpretazione educativa: l’educazione fisica ha più ore, poniamo, della storia, che ha lo stesso numero di ore delle educazioni manuale e tecnica, musicale e visiva (almeno nei primi due anni).

È difficile capire quale logica educativa e pedagogica sia sottesa a un simile allestimento della griglia oraria: che è troppo fitta e che serve a poco. A dirla tutta, non contribuisce neanche alla “famosa” selezione delle future élite e alla formazione dei cittadini di domani, perché è sotto gli occhi di tutti che per almeno due terzi degli allievi i risultati scolastici dipendono strettamente dal contesto socio-culturale (ed economico!) di appartenenza, da un po’ di fortuna nell’incappare negli insegnanti più bravi (o più larghi di manica, e naturalmente non sempre le due variabili vanno insieme) e dalle tempeste ormonali, ovviamente in agguato proprio in quegli anni della scolarità. Mi par di capire che la tradizione, le lobby disciplinari e certe mene corporative sanciscano il futuro dei nostri ragazzi, e conseguentemente dell’intero Paese, al di là di ogni ragionamento più razionale.

Philippe Perrenoud, sociologo e professore onorario dell’università di Ginevra, ha pubblicato nel 2011 un libro dal titolo intrigante: «Quando la scuola pretende di preparare alla vita». È una lettura interessante, che pone sul tavolo della discussione diversi temi di sicuro interesse: sempre che, naturalmente, la discussione non dia troppo fastidio e il dibattito si apra. Fino a non tanti anni fa, si dava per scontato che la scuola dell’obbligo doveva insegnare a leggere, scrivere e far di conto, con l’obiettivo finale, allo scadere dei quindici anni, di preparare alla vita e di trasmettere gli elementi fondamentali della cittadinanza. Altri tempi, certo. Con gli anni sulla scuola son piovuti sempre più compiti, sia all’interno stesso delle sue discipline tradizionali – la matematica, la storia, la geografia, le scienze naturali, … – sia inserendo qua e là nuove «educazioni»: ai media, alla salute, sessuale, interculturale, alimentare, … Come sempre, però, tra il dire e il fare c’è proverbialmente di mezzo il mare. Basta avere qualche figlio alla scuola media o scorrerne il «Piano di formazione» per rendersi conto che tante nozioni che fluiscono durante i quattro anni, e che assai spesso concorrono alla riuscita scolastica, sono destinate a non sedimentarsi in nessun angolino del cervello e della mente. Ma Perrenoud va oltre, osservando come ben altre conoscenze sarebbero molto utili alla vita, mentre non sono contemplate dai programmi, se non, qualche volta, solo di striscio: si pensi alla psicologia e alla psicanalisi, alla sociologia, alle scienze politiche ed economiche, al diritto.

Tra addetti ai lavori si parla da decenni della necessità di rendere più essenziali i piani di formazione dei diversi settori, ognuno dei quali è messo sotto pressione da quello successivo, un po’ come il pesce grande che mangia il pesce piccolo: l’università preme sul liceo, che a sua volta sollecita la scuola media, che si lamenta dell’impreparazione di chi giunge dalle elementari. Ma al di là del mero parlarne, è difficile, se non impossibile, riuscire a modificare qualcosa in più di alcuni dettagli, solitamente marginali. Lascio immaginare cosa succederebbe qualora si volessero ridurre le ore di una qualsiasi disciplina: la lobby annessa inizierebbe certamente a strillare, e gli strilli sarebbero tanto più alti e robusti, quanto più la presunta utilità della disciplina sarebbe blasonata. Già sarebbe difficile ridurre l’educazione musicale; ci si immagini quale coraggio ci vorrebbe per ritoccare la matematica. Si possono immaginare catastrofi epocali.

Per tornare al ministro Bertoli e alle nuove imposizioni parlamentari o popolari che sono oggi sui tavoli del DECS, non resta che immaginare cosa potrebbe succedere se, nei prossimi mesi, giungessero nuove imposizioni popolari o parlamentari da ficcare in qualche modo in questa e/o quella griglia oraria della scuola dell’obbligo: non sono certo gli argomenti a mancare. Nel frattempo il vescovo, Mons. Lazzeri, e gli iniziativisti dell’educazione alla cittadinanza hanno già manifestato il loro netto disaccordo alle proposte dipartimentali.

C’è da sperare, dunque, che qualcuno, magari il dipartimento di Manuele Bertoli, s’ispiri alla rinomata poesia di Robert Desnos «Le pélican», che Bourdieu e Passeron avevano inserito come epigrafe al loro libro più importante – La reproduction. Éléments pour une théorie du système d’enseignement (Minuit, Paris, 1970) – e avvii finalmente la frittata.

Papa Francesco e la scuola

Sull’importanza degli insegnanti: «Perché amo la scuola? Proverò a dirvelo. Ho un’immagine. Ho sentito qui che non si cresce da soli e che è sempre uno sguardo che ti aiuta a crescere. E ho l’immagine del mio primo insegnante, quella donna, quella maestra, che mi ha preso a 6 anni, al primo livello della scuola. Non l’ho mai dimenticata. Lei mi ha fatto amare la scuola. E poi io sono andato a trovarla durante tutta la sua vita fino al momento in cui è mancata, a 98 anni. E quest’immagine mi fa bene! Amo la scuola, perché quella donna mi ha insegnato ad amarla. Questo è il primo motivo perché io amo la scuola. […] Andare a scuola significa aprire la mente e il cuore alla realtà, nella ricchezza dei suoi aspetti, delle sue dimensioni. E questo è bellissimo! Ma se uno ha imparato a imparare, – è questo il segreto, imparare ad imparare! – questo gli rimane per sempre, rimane una persona aperta alla realtà! Questo lo insegnava anche un grande educatore italiano, che era un prete: Don Lorenzo Milani».

La scuola è luogo di socializzazione senza steccati: «Un altro motivo è che la scuola è un luogo di incontro. [A scuola] incontriamo persone diverse da noi, diverse per età, per cultura, per origine, per capacità. Questo fa pensare a un proverbio africano tanto bello: “Per educare un figlio ci vuole un villaggio”. Per educare un ragazzo ci vuole tanta gente: famiglia, insegnanti, personale non docente, professori, tutti!».

Etica e estetica, fondamenti dell’educazione: «E poi amo la scuola perché ci educa al vero, al bene e al bello. Vanno insieme tutti e tre. La missione della scuola è di sviluppare il senso del vero, il senso del bene e il senso del bello».

Al di là delle discipline: «Se studio questa Piazza, Piazza San Pietro, apprendo cose di architettura, di storia, di religione, anche di astronomia – l’obelisco richiama il sole, ma pochi sanno che questa piazza è anche una grande meridiana. In questo modo coltiviamo in noi il vero, il bene e il bello; e impariamo che queste tre dimensioni non sono mai separate, ma sempre intrecciate. Se una cosa è vera, è buona ed è bella; se è bella, è buona ed è vera; e se è buona, è vera ed è bella. E insieme questi elementi ci fanno crescere e ci aiutano ad amare la vita, anche quando stiamo male, anche in mezzo ai problemi. La vera educazione ci fa amare la vita, ci apre alla pienezza della vita!»

Il pensiero di Pestalozzi: «Si educa per conoscere tante cose, cioè tanti contenuti importanti, per avere certe abitudini e anche per assumere i valori». Perché c’è «una bella strada nella scuola, una strada che fa crescere le tre lingue, che una persona matura deve sapere parlare: la lingua della mente, la lingua del cuore e la lingua delle mani. Ma, armoniosamente, cioè pensare quello che tu senti e quello che tu fai; sentire bene quello che tu pensi e quello che tu fai; e fare bene quello che tu pensi e quello che tu senti. Le tre lingue, armoniose e insieme!»