I mass-media hanno l’abitudine di pubblicare qualche articolo in linea con talune scadenze canoniche. Natale, Pasqua, Carnevale e l’esodo per le vacanze estive sono ghiotte occasioni per qualche riflessione. Non può mancare all’appello la fine dell’anno scolastico. Così ecco che «Il Caffè della domenica», settimanale gratuito del Canton Ticino, nella sua edizione di domenica 16 giugno 2014 ha pubblicato un interessante contributo del Prof. Renato Martinoni, professore di Letteratura italiana all’Università di San Gallo, sul tema degli Esami. Riporto la prima parte dell’articolo, che può essere condiviso e, nel contempo, criticato. Scrive Martinoni:
In realtà, tutti lo sanno, non è soltanto a scuola che si fanno gli esami. Perché, nella vita, gli esami non finiscono mai. Anche se poi c’è chi preferisce rimandarli alle calende greche. Resta che è la scuola il vero tempio degli esami. Forse anche per questo c’è stato chi, alla fine degli anni Sessanta del secolo passato, in alcuni Paesi dell’Europa, ha cercato di abolirli: creando però una inestricabile confusione dove tutti, i bravi e i somari, uscivano dall’accademia con il voto “politico” della sufficienza. Tutti promossi, evviva!, e tutti dottori. Così però, invece di garantire l’uguaglianza sociale, veniva legittimata l’asineria collettiva. E i furbi promossi, ma ti pareva?, si ingegnavano quasi sempre a rubare il posto di lavoro ai bravi. Anche Pier Paolo Pasolini suggeriva, verso la metà degli anni Settanta, di abolire la scuola media e la televisione: perché, diceva, la scuola illude di sapere, e rende presuntuosi, mentre la televisione (quanta lungimiranza c’era nelle sue visioni!) ammalia con realtà artificiose, anzi false, e quindi rincoglionisce. Resta che, fin che la scuola esisterà, gli esami scolastici non potranno essere aboliti. Perché non sono carta straccia, come qualcuno si ostina a pensare, ma un compromesso faticoso, e a volte anche doloroso, eppure indispensabile. Necessaria, nelle scuole, è la selezione, senza la quale anche gli scansafatiche vengono promossi: con tutte le belle conseguenze che ognuno può immaginare.
Primo insegnare: è il patto della scuola dell’obbligo (o dovrebbe esserlo)
Ma vengo al dunque. Martinoni scrive che «fin che la scuola esisterà, gli esami scolastici non potranno essere aboliti», perché sono «un compromesso faticoso, e a volte anche doloroso, eppure indispensabile. E conclude che «Necessaria, nelle scuole, è la selezione, senza la quale anche gli scansafatiche vengono promossi».
Alt! Il discorso di Martinoni va bene per tutte le scuole dopo l’obbligo scolastico. Durante la fascia d’età durante la quale lo Stato ha deciso di scolarizzare coattivamente tutti i bambini e ragazzi tra i quattro e i quindici anni, non è eticamente accettabile questo tipo di selezione, basata essenzialmente su conoscenze di tipo intellettuale o cognitivo. Lo scopo della scuola dell’obbligo non è quello di scegliere le future élite del paese, bensì quello di dare una formazione di base solida affinché ognuno possa diventare un cittadino attivo e informato, un cittadino che sa pensare, perché conosce a fondo la lingua parlata dove vive, perché padroneggia le basi della matematica, perché ha imparato la storia e la geografia del suo paese, e magari ha sufficienti rudimenti per comunicare in altre lingue. Aggiungerei: durante quegli undici anni di scuola obbligatoria ha pure imparato ad apprezzare la poesia o la letteratura, la pittura o l’architettura, la musica, la fisica o le scienze naturali.
A cosa servono le certificazioni annuali, i test reiterati e ravvicinati, le note a ogni piè sospinto, i dannosi giudizi di valore? Nella scuola dell’obbligo deve eccellere la tensione etica volta a insegnare. La soddisfazione del Maestro è quella di riuscire a far «bere un cavallo che non ha sete», per citare Célestin Freinet. Per separare gli astrofisici dagli idraulici e i filosofi dagli imbianchini ci sarà tempo più tardi, aggiungendo che una scuola dell’obbligo seria e deontologicamente elevata è pure in grado di orientare bene una ragazza o un ragazzo di quindici o sedici anni: che se è in grado di conoscere le sue debolezze e i suoi punti di forza non andrà al liceo solo perché non ha ancora capito cosa vuol fare da grande – o perché se la va la spacca.
Qualche giorno fa ho partecipato alla cerimonia di commiato dagli allievi di 5ª elementare delle scuole comunali di Locarno. Ospite d’onore era Franco Lazzarotto, per tanti anni direttore (anomalo) di scuola media. Che non ha risparmiato alcuni consigli alla sua platea di decenni neo-licenziati dalla scuola elementare. «In settembre – ha detto – inizierete a frequentare la scuola media. Vi do tre consigli. Primo: quando entrate a scuola, ricordatevi di accendere il cervello. Secondo: andare a scuola è un po’ come andare a lavorare. Piegare la schiena è importante e inevitabile, con costanza a caparbietà. Terzo: è importante metterci anche il cuore, che dà una prospettiva positiva e piacevole verso la scuola e ciò che s’impara».
Facile a dirsi, ma sappiamo quali sono gli effetti, a quell’età, delle tempeste ormonali (e degli stimoli più o meno “alti” che si ricevono o non si ricevono in famiglia; e, aggiungerei, anche a scuola). E allora non è con i test e con le note e con gli esami che si insegna. Ma i tre consigli di Lazzarotto valgono anche per gli insegnanti: accendere il cervello, piegare la schiena e metterci il cuore riportano dritti dritti a Johann Heinrich Pestalozzi, che non è propriamente l’ultimo arrivato.
Non ci si può beare – e magari riderne – delle tante insufficienze che si rifilano a fine semestre e fine anno. Assegnare un 3 in matematica o in italiano a un bambino di otto anni o a un ragazzo di tredici non serve a nessuno. Non serve all’insegnante, che se è psichicamente equilibrato e ha fatto il possibile per far crescere il suo allievo, dovrebbe farsene un cruccio; non serve all’allievo, che nella peggiore delle ipotesi sapeva già di non aver capito; e non servirà a quello Stato che ha bisogno di cittadini che sanno pensare.
Attenzione. Non sto spalleggiando i fautori del voto “politico”. Ma un insegnante della scuola dell’obbligo ha il compito primario di insegnare, prima di sottrarre tempo inutile a dàr le note. Il maestro della scuola elementare e il professore della scuola media devono parlare coi loro allievi, devono – se occorre – metterli duramente con le spalle al muro.
«Caro ragazzo, è inutile cercare scuse e arrampicarti sui vetri. Questo libro che dovevi leggere entro oggi non l’hai nemmeno aperto. Così già da oggi starai con me ogni martedì sera. Io preparerò le lezioni dell’indomani o correggerò alcuni lavori di oggi, e tu leggerai il tuo libro».
«Come? Non puoi perché il martedì sera hai l’allenamento del calcio? No, caro mio. Parlerò coi tuoi genitori e col tuo allenatore, ma tu al calcio continuerai a giocare solo dopo che avrai svolto fino in fondo il tuo dovere: che è quello di venire a scuola e di imparare».
Ha scritto don Lorenzo Milani che «Bocciare è come sparare in un cespuglio. Forse era un ragazzo, forse una lepre. Si vedrà a comodo». E aggiungeva: «La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde».
Scuola e selezione
Scrive ancora Martinoni: «Necessaria, nelle scuole, è la selezione, senza la quale anche gli scansafatiche vengono promossi: con tutte le belle conseguenze che ognuno può immaginare». Non credo che si tratti solo di scansafatiche e di veri e propri fannulloni. La selezione è certo necessaria, al momento buono. La scuola dell’obbligo dovrebbe saper orientare. Se la scuola media fosse in grado di insegnare e di orientare per davvero, eviteremmo per cominciare tante carneficine durante il primo biennio della scuola media superiore. Ma anche su queste stragi qualcuno dovrebbe in ogni modo riflettere: un po’ per esperienza diretta, come genitore, e un altro po’ grazie a osservazioni indirette, non mi sembra che gli esami del liceo rispondano alla definizione che ne dà Martinoni: «come deve essere un esame degno di questo nome? (…). Un vero esame è uno spazio aperto di riflessione, non un palcoscenico per dei secchioni che ripetono alla lettera quello che hanno mandato a memoria. Senza magari neanche capire ciò che dicono. Un vero esame non è un atto intimidatorio: dove chi interroga (succede, ahimè!) è il tiranno e chi viene tartassato, il tapino, è la vittima sacrificale. Anzi, diciamola pure tutta, un vero esame è un luogo di incontro, dove ciascuno ha un compito definito: chi lo conduce, il professore, deve porre domande chiare e precise (…); chi lo sostiene deve sapere che non si può vomitare tutto, solo per fare bella figura (…). Perché a contare non deve mai essere la quantità: ma la qualità. Detto altrimenti, un esame degno di questo nome non è un fuoco d’artificio, né una camera delle torture, ma una prova di intelligenza: dove una preparazione solida si combina con la capacità di argomentare con saggezza e di sostenere le proprie opinioni».
Alzi la mano chi ritiene che nelle nostre scuole la selezione avvenga solitamente attraverso esami di simil fatta.
È vero, per contro, che la selezione ha grande valenza sociale e politica quando si imbocca la strada che porta al mondo del lavoro. Quando ho bisogno dell’elettricista, quando porto l’auto in garage, se sono ricoverato all’ospedale, quando mando mio figlio a scuola devo avere cieca fiducia nell’elettricista, nel meccanico, nel medico e negli infermieri, nell’insegnante. Pretendo che il mio elettricista, il mio meccanico, il medico e gli infermieri che si prenderanno cura di me, l’insegnante che insegnerà e valuterà mio figlio siano formati adeguatamente per svolgere le loro mansioni e che conoscano a menadito lo stato dell’arte.
Le scuole, in questi casi, non devono e non possono titubare o distribuire “voti politici”. Ho sempre creduto che le cose si sanno o non si sanno (ecco perché sono contro le scale di note, coi loro mezzi punti beceri). Il giurista, il maestro, l’imbianchino e il poliziotto devono saper fare il loro lavoro. È quel che ognuno si aspetta da loro.
Com’è un chirurgo da 4 o 4½? Ci si può fidare? Oppure la probabilità che “l’operazione è riuscita ma il paziente è morto” è alta?
Poi ci sarebbero alcune cose da dire sulla scuola medio-superiore, liceo in testa: una scuola dall’identità sempre più imprecisa, sulla quale converrebbe riflettere seriamente. Ma questo è un altro discorso (che in parte ho già toccato il 18 settembre 2013: Non accorciamo il liceo, ma cinquemila studenti son troppi).