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Una risposta non ideologica

A proposito dell’educare la gioventù alla gestione responsabile delle finanze personali; e allora perché non introdurre la filosofia sin dalla scuola dell’infanzia?

Ma guarda che bel ritrattino mi ha fatto la deputata PLR Simona Genini in risposta a un mio articolo su Naufraghi/e. Apre con un avvertimento: il portale «naufraghi.ch», che ha ospitato il [mio] intervento, non è proprio – per usare un eufemismo – un’offerta editoriale di area liberale. Bene, ora è tutto chiaro. A parte qualche dettaglio.

Io il ’68 non l’ho vissuto, in quel marzo non ero nell’aula 20 della Magistrale. Ero troppo piccolo, frequentavo il ginnasio e avevo da poco compiuto 15 anni. Peccato. In quel 1968 locarnese non sapevo nulla di politica, e nemmeno mi interessava. Avevo compagni di classe che già si erano tuffati, entusiasti e seri, nel Vietnam e nel Mato Grosso. Io no. Non ricordo eventi che mi abbiano spinto a interessarmi di politica, fosse locale o addirittura internazionale.

John Stuart Mill (1806-1873), autore, tra tanti saggi, di Sulla libertà (11859) e La servitù delle donne (1869).

La mia, diciamo così, formazione politica arrivò più tardi, proprio alla Scuola magistrale, quando iniziai a incontrare, attraverso la storia delle idee pedagogiche, dapprima Aristotele, poi John Locke e Jean-Jacques Rousseau, John Stuart Mill, John Dewey, Jerome Bruner, Ralf Dahrendorf. Confesso, incontrai anche qualche comunista, come Célestin Freinet o Don Lorenzo Milani, per giungere a Piero Gobetti, quello di Energie Nove, Il Baretti e Rivoluzione liberale, morto esule a Parigi a soli 25 anni, dove si era rifugiato a causa della crescente repressione del regime fascista: «Parto per Parigi dove farò l’editore francese, ossia il mio mestiere che in Italia mi è interdetto. A Parigi non intendo fare del libellismo o della polemica spicciola; vorrei fare un’opera di cultura, nel senso del liberalismo europeo e della democrazia moderna».

Cosa posso farci? Quella è stata la mia educazione politica, in seguito arricchita seguendo qualche stimolo e il caso, nata ben prima che inaugurassi la mia brevissima “carriera” politica. Negli anni ’70 ho militato nei giovani PLR e nell’ambito dell’associazione dei maestri liberali radicali La Scuola: sono stato nel comitato e, soprattutto, ho lavorato sodo per pubblicare, fino a che fu possibile, il suo mensile. Certamente, almeno in quegli ultimi anni di uscite regolari, la rivista non emigrò verso quel liberalismo ticinese che oggi conosciamo fin troppo bene, quello sempre più vicino all’UDC – e lo conoscono anche gli elettori, basta vedere le flessioni elettorali da quegli anni a oggi. Quella è stata per me una vera scuola di politica. Va da sé che dagli anni ’70 a oggi il mondo è cambiato, ma gli insegnamenti di allora sono stati un faro importante, anche quando decisi di allontanarmi da quel partito, sempre più cadreghista e galoppino: ideologico, come direbbe la mia garbatamente piccata interlocutrice.

La signora Genini si lamenta perché, dice, ogni volta che si tocca il tema della gestione responsabile delle finanze personali emergono letture ideologiche che poco hanno a che vedere con la sostanza della proposta. Poi il rimprovero: Non è indottrinamento, non è propaganda. Mi dispiace che il signor Tomasina (sic) veda in questa proposta un tentativo di “forgiare menti conformi alla logica del profitto”.

Spiace anche a me, soprattutto perché non ho scritto né pensato una sciocchezza del genere. Che i liberali (radicali) di questo cantone usino da un po’ di tempo il sostantivo ideologia come una specie di insulto, da rivolgere principalmente a tutto ciò che è alla loro sinistra, è ormai diventata un’abitudine. Eppure anche la scuola – quella pubblica, obbligatoria e gratuita – si fonda su un’idea, non una qualunque. Quando i liberali radicali si impegnarono, coi socialisti, per l’istituzione della scuola media e per innumerevoli altre leggi che rappresentarono un nuovo paradigma istituzionale – una scuola partecipativa invece che verticistica, promozionale invece che selettiva – abbracciarono una scelta ideologica.

Felice Casorati (1883-1963), Ritratto di Piero Gobetti (1961).
Nel 1976, nel cinquantesimo anniversario della morte, La Scuola, mensile della Società dei Maestri Liberali-Radicali Ticinesi, pubblicò un testo di Diego Scacchi, Ripensando a Piero Gobetti (Tipografia Legnazzi & Scaroni, Locarno, giugno 1976).

Commentando un’interessante riflessione di Philippe Perrenoud, sociologo ginevrino (Quand l’école prétend préparer à la vie, 2011), che si chiedeva, provocatoriamente, se fosse utile alla vita futura imparare il teorema di Pitagora, avevo scritto che eliminarlo dai programmi della scuola dell’obbligo avrebbe comportato la cancellazione di molti altri contenuti, forse intere discipline: dalla letteratura alla poesia, dall’algebra alla musica, dalla biologia alla storia. È tutto un fiorire di conoscenze di cui, volendo, si può fare a meno. In realtà, il problema non risiede nel teorema di Pitagora, né negli eucarioti o nella Svizzera dei 13 cantoni, e men che meno in Petrarca, Manzoni, Bach o Michelangelo. Sul piano dell’arricchimento culturale, dello sviluppo della speculazione intellettuale e dello spirito critico servono ben altre conoscenze, che superano le competenze “pratiche” per preparare alla vita. Ma è palese che se tali conoscenze diventano le armi improprie della selezione scolastica, allora la scuola dell’obbligo viene meno al suo mandato.

Lo stesso Perrenoud sollevava poi un altro dilemma legato ad alcune discipline ugualmente “utili” e importanti per la formazione dei futuri cittadini, discipline che, tuttavia, non fanno parte, se non sporadicamente e di straforo, dei programmi della scuola dell’obbligo: psicologia e psicanalisi, sociologia, scienze politiche ed economiche, diritto, criminologia, architettura e urbanistica, tanto per citarne qualcuna. Ed è qui che arriviamo a proposte come quella della deputata PLR: educare la gioventù alla gestione responsabile delle finanze personali. Proposta legittima, salvo che ve ne sarebbero decine e decine d’altre. Ma la griglia oraria non può essere gonfiata oltre il troppo che già c’è. Quindi, che si fa?

Una proposta l’avrei: introdurre la filosofia sin dalla scuola dell’infanzia.

Ci osservano severi…
Scritto per Naufraghi/e

La scuola deve insegnare anche la gestione responsabile delle finanze personali?

Una proposta che fa riflettere su quanto sempre più si chiede agli insegnanti. Se sia davvero necessario è un altro discorso.

Molte persone hanno un’idea piuttosto distorta di come funzionino l’insegnamento e, più in generale, l’educazione. Resiste nel tempo l’immagine classica dell’insegnante che, dopo una lezione, assegna esercizi e poi organizza un esame: o lo scolaro ha capito tutto, o non ha capito nulla – mentre la maggior parte si colloca tra questi due estremi. I bravi maestri sanno bene che la realtà è ben più complessa: l’apprendimento richiede tempi adeguati e non tutti imparano alla stessa velocità. Come scriveva Don Milani, Una scuola che si cura solo dei bravi allievi è come un ospedale che cura i pazienti sani.

Spesso anche il nostro Gran consiglio, eletto dal popolo ed espressione della stessa comunità che lo elegge, sembra adottare una visione grossolana dell’insegnamento. Qualche anno fa il deputato socialista Francesco Cavalli, intervenendo in una discussione sull’introduzione di un nuovo compito per la scuola, osservava che, se si volessero seguire tutte le suggestioni espresse in quell’aula, la scuola dovrebbe occuparsi di tutto: dalla sicurezza (in casa, sulla strada, sul lavoro) all’insegnamento dell’economia già nelle medie, dai corsi di buone maniere all’informazione sul servizio civile, dalla promozione dell’incontro fra culture religiose all’introduzione di lezioni di primo soccorso, fino all’insegnamento dei dialetti ticinese e svizzero tedesco, all’apertura verso il mondo delle aziende, all’educazione al bello (mostre d’arte, concerti…), a insegnare a non indebitarsi, a occuparsi di agricoltura e a fare l’orto, a trasmettere il gioco degli scacchi, a incentivare l’uso della bicicletta, a educare all’uso parsimonioso del telefonino, a istituire giornate per recuperare i rifiuti abbandonati, a spiegare il funzionamento del sistema giudiziario e a prevedere lezioni di etica.

Da allora – parlo di quindici o vent’anni fa – la tendenza non è cambiata. Nel 2013 il Parlamento ha imposto l’insegnamento del Salmo svizzero a tutti i futuri cittadini durante la scuola dell’obbligo e, nello stesso anno, è scattata l’iniziativa «Educhiamo i giovani alla cittadinanza», che in una settimana raccolse ottomila firme, per arrivare poi a oltre diecimila. Nel 2017 la proposta è stata accolta in votazione popolare con oltre il 60% di voti favorevoli. Eppure, pur essendo circondati da guerre e autoritarismi, non sembra che la sensibilità civica sia aumentata.

Ma eccoci di nuovo a chiedere alla scuola di farsi carico di un’ulteriore esigenza. La deputata Simona Genini, a nome del gruppo Liberale radicale, ha presentato un’iniziativa parlamentare intitolata Educare la gioventù alla gestione responsabile delle finanze personali (novembre 2024). Sintetizzando al massimo, l’iniziativa mira a stimolare un dibattito sull’educazione finanziaria, con particolare attenzione a giovani e donne, proponendo di inserire il tema all’interno del programma di Civica ed educazione alla cittadinanza, senza gravare ulteriormente sulla griglia oraria della scuola media, né generare costi aggiuntivi per lo Stato.

Educare la gioventù alla gestione responsabile delle finanze personali (Immagine generata con ChatGPT)

Genini puntualizza che, per non intaccare l’autonomia degli ordini scolastici ticinesi e la libertà creativa dei docenti, si è optato per una formulazione volutamente generica, limitandosi a stabilire un principio: l’educazione alla gestione finanziaria personale deve godere della stessa dignità oggi accordata allo studio della Civica e dell’educazione alla cittadinanza.

Nei giorni scorsi la stessa deputata, prima firmataria della proposta, ha pubblicato un articolo su laRegione intitolato Educazione finanziaria (Simona Genini su LaRegione 21-02-2025), ampliando il discorso nel campo dell’ignoranza. Racconta che la sua esperienza pluri-professionale – come funzionaria, insegnante, avvocato ed esperta fiscale – le ha permesso di constatare come molte persone, anche se istruite e ben integrate nella società, abbiano conoscenze limitate sui principi fondamentali della gestione finanziaria, sia in ambito personale (pagamenti, imposte, investimenti, previdenza) sia per quanto riguarda i meccanismi basilari della finanza pubblica. Oltre a ciò, accusa il Parlamento. Tutt’a un colpo – secondo la deputata – abbiamo smesso di considerare le risorse economiche disponibili come un vincolo reale per lo Stato, accettando l’idea che la spesa pubblica non abbia limiti. Di fronte a nuove proposte politiche, ci comportiamo come ragazzi che ricevono il primo stipendio e firmano un contratto di leasing insostenibile, senza nemmeno leggere il costo finale.

La conclusione del pezzo giustifica la necessità di far conoscere, fin dalla tenera età, i principi di una gestione responsabile delle finanze personali. Testualmente, la deputata avverte: Se la politica non torna a fare di conto e alle nuove generazioni non si insegna un responsabile approccio alle finanze personali, il rischio sono decisioni politiche miopi e insostenibili. Se non sappiamo distinguere tra bisogni e diritti, possibilità e illusioni, necessario e augurabile, ci ritroveremo a firmare cambiali che qualcun altro dovrà pagare al posto nostro.

A questo punto si deve convenire che la scuola e i giovani non c’entrano nulla. Resta da vedere se la nuova Educazione alla cittadinanza, introdotta a furor di popolo nientemeno che nella Legge della scuola, riuscirà a formare una nuova generazione di Granconsiglieri più preparati e, quindi, più affidabili.

Scritto per Naufraghi/e

Nel regno del pedagogichese si diffondono i bigini

Ancora a proposito del linguaggio utilizzato per informare docenti e famiglie sugli indirizzi e gli orientamenti della scuola ticinese

Da una decina d’anni a questa parte è sbarcata anche nel Canton Ticino la Scuola delle competenze e, con essa, si è elettrizzato il pedagogichese, una lingua per descrivere la scuola, che in questo stesso sito Fabio Camponovo (Quando il pedagogichese offusca la scuola), citando Machiavelli, giudica «ripiena di clausole ample, o di parole ampullose e magnifiche».

Difficile dargli torto.

Già nel 2015 Lauro Tognola, direttore del liceo di Locarno da poco in pensione, aveva sparato a zero sul linguaggio del neonato Piano di studio. Io stesso, allora, avevo avuto occasione di annotare che  Tognola spara ad alzo zero sul Piano di studio della scuola dell’obbligo, di recente pubblicazione. Lo giudica linguisticamente nauseante, pesante, ripetitivo e zeppo di ovvietà. E cita qualche passaggio un poco astruso: la rendicontazione sociale dei risultati della produttività dell’azione scolastica o la pietra angolare intorno a cui si sviluppa la proposta curricolare, tanto per dirne un paio.

Può darsi – aveva replicato il consigliere di stato Manuele Bertoli – che il linguaggio possa qua e là apparire ostico, ma il piano di studio non è un bestseller, bensì uno strumento di lavoro per i docenti. Già.

Si è chiesto il sociologo Philippe Perrenoud: Perché la scuola è “invasa dalle competenze” quasi in tutti i paesi, sviluppati e meno sviluppati? Senza dubbio perché alcune organizzazioni internazionali, a cominciare dall’OCSE, ne hanno fatto una bandiera, e perché c’è una forma di contagio. Un paese che non si preoccupasse di accentuare lo sviluppo delle competenze potrebbe sembrare fuori moda.

I nuovi programmi, ha rilevato Gianni Ghisla (Scuola: l’equivoco delle competenze), prevedevano in origine oltre 4’500 (quattromilacinquecento!) obiettivi cosiddetti di valutazione (…). Una scuola piegata alla strumentalizzazione della conoscenza, poiché competenza è sinonimo di capacità, di fruibilità e applicabilità in situazione, di spendibilità sul mercato del lavoro. E questa è l’ombra dell’efficientismo pianificato, dell’azzeramento di tutto quanto nella scuola è semplicemente culturale, affettivo, casuale, magari anche contemplativo.

Si potrebbe aggiungere che gran parte di ciò che si fa a scuola – insegnare dei linguaggi, delle conoscenze e, secondo la moda del momento, addirittura delle competenze – si svolge in realtà in un contesto artificioso com’è quello dell’aula scolastica, che rimane da decenni sempre uguale a sé stessa. Siamo lontani anni luce da una scuola dell’esperienza e di una differenziazione concreta delle diversità che ogni allievo porta con sé all’entrata nella scuola: differenze culturali e psicologiche, perché non si nasce né si cresce tutti allo stesso ritmo e nello stesso posto.

A ciò si aggiunga che nella scuola dell’infanzia e in quella elementare gli insegnanti sono per lo più generalisti, mentre, nella scuola media, vige la rigorosa separazione tra le materie. Nei primi sette anni della scuola dell’obbligo, dunque, ci sono le maestre e i maestri che, già da prima della “rivoluzione delle competenze”, affrontano progetti didattici interdisciplinari. Nella scuola media, invece, perdura la tradizione delle professoresse e dei professori che si rinchiudono nella loro materia: una scelta che, al momento dell’istituzione della Scuola media, si era uniformata al vecchio ginnasio. Così sembra contraddittorio che il medesimo governo che ripropone a oltranza la frammentazione disciplinare della sua scuola media venga oggi a proporre modelli che comportano la collaborazione tra le discipline e i loro insegnanti, non certo famosi per la capacità di lavorare in équipe.

Osserva Fabio Camponovo, nel testo già citato, che il Piano di studi della scuola dell’obbligo ticinese rimane di difficile decifrazione per qualsiasi genitore voglia capire che cosa studia, e che cosa impara, il proprio figlio a scuola. Aggiungerei che la comprensione del documento è ostica anche per i docenti.

Ciliegina sulla torta. Da qualche settimana circola un opuscolo informativo denominato Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese: come quell’altro, insomma. È un libretto di una sessantina di pagine, coloratissimo e arioso, scritto in buon italiano, senza funambolismi gergali. Sintetizza il Piano originale, ma non si capisce bene né a chi è destinato, né perché si sta muovendo come i bigini durante gli “espe” degli anni analogici del ginnasio d’antan: sottocoperta, nessuna conferenza stampa, neanche un approfondimento del Quotidiano della nostra RSI.

Qualche maligno mormora che sia stato concepito come testo informativo per le famiglie (mica tutte, neh?!, perché sessanta pagine sono comunque tante, e quel po’ di pedagogichese è pur rimasto). Spiega l’opuscolo, per smussare il tema delle competenze, che in pratica le conoscenze vengono impiegate in una situazione concreta, reale o realistica, utilizzando risorse individuali e considerando valori personali o condivisi.

Ma non è quel che la scuola dovrebbe fare da sempre?

Scritto per Naufraghi/e

La citazione di Philippe Perrenoud è tratta da: PERRENOUD PHILIPPE, Quand l’école prétend préparer à la vie – Développer des compétences ou enseigner d’autres savoirs?, 2011: Paris, ESF Éditeur

 

Dopo un’estate di dubbi e domande, per la scuola arriva l’ora delle scelte

In tanti si sono chiesti, e continuano a chiedersi, come sarà possibile recuperare quei tre mesi di scuola che, tanto o poco, sono andati persi. Manuele Bertoli, direttore del DECS, ha correttamente chiarito che «La scuola è un percorso, a volte lungo. C’è quindi il tempo di recuperare quanto si è inevitabilmente perso da metà marzo a fine anno, pur con tutto quel che è stato messo in campo per evitare un blocco dell’insegnamento e dell’apprendimento»: una scuola dell’obbligo col contagocce, tra insegnamento a distanza e riapertura parziale, a classi dimezzate – anche laddove il numero degli alunni e le ampie superfici delle aule avrebbero permesso di mantenere una scuola normale –, con griglie orarie ridotte all’osso, materie depennate e procedure di valutazione annullate.

Per certi versi la situazione che si è creata potrebbe addirittura far sorridere, se solo si pensa alla difficile arte di ficcare nell’anno scolastico tutte le discipline ritenute essenziali, con programmi densi e tempi prestabiliti: perché l’anno scolastico dura esattamente trentasei settimane e mezza. Già in situazione normale, cioè quando gli anni scolastici iniziano e finiscono senza emergenze, si sentono maestri e professori che si lamentano perché, al rientro dopo le lunghe vacanze estive, molti studenti hanno dimenticato quasi tutto. Poi qualcuno, con un po’ di allenamento, riuscirà a riaccendere la memoria, mentre altri saranno condannati ad aggiungere confusioni e vuoti ai ritardi dell’anno prima.

Ma c’è poco da fare, almeno nell’immediato. Qualcuno aveva suggerito di mantenere aperte le scuole durante l’estate, ma giustamente non se n’è fatto nulla, anche perché gli edifici scolastici sono progettati per proteggere dal freddo, mica dal caldo. Anzi: le scuole, da noi, chiudono in estate perché fa caldo, benché la storia del calendario scolastico racconti di altre variabili, che affondano le loro radici indietro nei secoli e nell’economia agricola dell’Ottocento. Tant’è: nel nostro cantone si va a scuola da settembre a giugno, per una trentina di ore alla settimana. Perché? Boh, forse perché si è sempre fatto così. D’estate si va in vacanza, salvo chi va al doposcuola perché mamme e papà lavorano nel turismo.

Il blackout scolastico dei mesi scorsi propone diversi spunti di riflessione, già a partire da due funzioni che hanno molto condizionato l’organizzazione degli istituti, chiamati a istruire e accudire, con questo secondo ruolo paradossalmente irrinunciabile rispetto al primo. Già questo è un aspetto delicato, visto che occuparsi dei figli quando i genitori lavorano è un compito della scuola, al quale, di solito, si pensa poco: tanto ci sono gli asili nido, i doposcuola, le colonie, le solidarietà tra famiglie e conoscenti, nonché chi si arrangia come può. Ma sono finiti da oltre mezzo secolo i tempi in cui la scuola dettava i suoi ritmi a Roma e al mondo.

Tuttavia anche dentro il contesto più nobile della scuola vi sono dei nodi delicati: qual è il giusto tempo da dedicare alla formazione e all’educazione dei cittadini di domani? Come organizzarlo? Con questo monte-ore cosa è essenziale insegnare? Più lingua o più lingue? E quali: il cinese o l’inglese? Più scienze o più arti? Cosa, insomma, è utile e spendibile e cosa non lo è? E, ancora, quale deve essere il ruolo dei genitori sul piano della formazione? Devono, per dirne una, collaborare attivamente con i professionisti della scuola a insegnare l’italiano e la matematica?


Ho trattato più volte il tema del calendario scolastico, per lo più nella mia rubrica sul Corriere del Ticino:

La scuola può essere un luogo di emancipazione?

Anche il piccolo Canton Ticino sta facendo i conti con la pandemia. Sembrano passati mesi e mesi, eppure ancora a fine febbraio – la prima risoluzione del Governo ticinese è del 26 febbraio – sembrava che non ci riguardasse. La cronaca, aggiornata giorno dopo giorno, è nel linguaggio giustamente scarno delle pagine che la Repubblica e Cantone Ticino dedica al Nuovo coronavirus.

SARS-CoV-2 (Severe Acute Respiratory Syndrome Coronavirus 2), il virus che sta bloccando il mondo, ha portato anche alla chiusura di tutte le scuole fino al 19 aprile (decisione del Consiglio federale del 16 marzo), che è il termine fissato dalla Confederazione per tutti i provvedimenti sin qua presi. Naturalmente stanno saltando tutti i meccanismi un poco rituali che scandiscono i tempi della scuola, tenuto conto che, in vista delle decisioni di fine anno, mancherebbe già a quel momento quasi un mese di lezioni.

Il dubbio è che il 19 aprile sia una data ottimista e provvisoria. Quanto a tutto il resto, non è questo il momento per discuterne.


Nello stesso periodo di paura e di chiusura è giunta in libreria la traduzione italiana di un bel libro di Philippe Meirieu, Una scuola per l’emancipazione. Libera dalle nostalgie dei vecchi metodi e da suggestioni alla moda (2020: Roma, Armando Editore).

La scuola può essere un luogo di emancipazione? Sì, secondo Philippe Meirieu, ma solo se si propone di formare persone capaci di resistere all’onnipotenza pulsionale, di pensare da sole e di impegnarsi nella costruzione democratica del bene comune. Quali finalità formative nella scuola? Quali conoscenze utilizzare per raggiungere le finalità? Qual è il ruolo delle neuroscienze? Come formare all’attenzione? Come costruire e praticare una valutazione esigente? Come costruire il senso del gruppo per formare alla cittadinanza? Un libro per insegnanti, genitori, educatori, amministratori pubblici e per tutti i cittadini interessati a una scuola che mantenga la sua promessa di giustizia e di solidarietà.

La versione originale era uscita nel 2018 (PHILIPPE MEIRIEU, La riposte – Écoles alternatives, neurosciences et bonnes vieilles méthodes: pour en finir avec les miroirs aux alouettes, 2018: Paris, Autremont). Alla sua apparizione in Francia, aveva sollevato un dibattito molto ampio (qui si trovano tanti riferimenti a recensioni e riflessioni). Philippe Meirieu è da diversi anni al centro di accese dispute attorno al ruolo delle pedagogia e alle finalità della scuola pubblica e obbligatoria (illuminante è l’intervista La pedagogia è l’arte del fare, sottotitolata in italiano, trasmessa da Rai Scuola). Non è sicuramente un caso se anche nel Canton Ticino il suo nome fu sventolato dai più veementi avversari del progetto di Manuele Bertoli, La scuola che verrà, di cui ho scritto più volte.

La traduzione italiana del volume è di Enrico Bottero, insegnante e pedagogista italiano che, tra tante cose, dà vita a uno spazio web che mira a offrire un contributo per far crescere l’educazione e il sapere dell’insegnare attraverso il confronto degli insegnanti tra loro e con il mondo della ricerca pedagogica.

Il libro di Meirieu si inserisce nel sensibile dibattito sulle finalità della nostra scuola, in particolare quella dell’obbligo. Scrive Enrico Bottero nella presentazione del volume:

Questo non è solo un libro sulla scuola e sulla pedagogia ma anche di politica dell’educazione. Non è un caso perché la storia personale di Philippe Meirieu è quella di un uomo impegnato nella scuola, nella ricerca e nel mondo educativo ma anche sul piano politico e istituzionale. […] Non c’è dunque da stupirsi che Meirieu abbia scritto un libro per entrare «nell’arena», come titola la seconda parte del volume, un libro scritto con vis polemica anche per denunciare l’assurda nostalgia dei metodi didattici tradizionali a cui oggi guarda con attenzione, in Francia come in Italia, parte del mondo intellettuale. La colpa della cattiva preparazione degli studenti, si dice da più parti, sarebbe della pedagogia e dei pedagogisti, come se il lavoro sulle pratiche pedagogiche e l’attenzione alle discipline fossero in contrasto tra loro! Implicitamente qualcuno vagheggia il ritorno a una presunta età dell’oro in cui tutto andava meglio, a una scuola che «educava» in nome dei «valori» e del principio di autorità. […] Se non si va a mettere in discussione quel modello, ormai superato, non si può pensare a una scuola per il XXI secolo. (Qui il testo integrale della presentazione).

Va da sé che, in questo momento, le librerie sono chiuse e impossibilitate a ordinare nuovi titoli. In attesa di giorni più sereni, segnalo questa riflessione a caldo dello stesso Bottero sull’Educazione al tempo del coronavirus.