Quando si parla di differenziazione dell’insegnamento pare sempre che si voglia uniformare tutto, che l’obiettivo sia quello di portare tutti al medesimo livello, quello più basso. È una delle parole della scuola che ognuno definisce come gli fa comodo. L’unica cosa certa è che siamo tutti diversi l’uno dall’altro – e non mi riferisco alle diversità più evidenti, come la statura, il genere, la corporatura, il colore della pelle e degli occhi. Dato che parliamo di scuola, in particolare di scuola obbligatoria, il riferimento è a ben altre caratteristiche individuali, alcune fornite direttamente dalla natura tramite una madre e un padre; altre che si sono sviluppate e continuano a svilupparsi attraverso le relazioni sociali, le conoscenze che si acquisiscono formalmente o informalmente, le esperienze che si fanno giorno dopo giorno, quasi sempre senza neanche accorgersene e ignorandone l’eventuale importanza.
Sta di fatto che quando arriviamo a scuola – e ci arriviamo perché lo stato ci obbliga – siamo tutti in grado di imparare quel che la scuola ha deciso di insegnarci; nel contempo ognuno ha tempi e stili di apprendimento diversi. Un curioso racconto di Isaac Asimov, pubblicato nel 1951 col titolo «Chissà come si divertivano», immagina come la società del 2157 abbia risolto il problema delle nostre tante diversità per mezzo di un «insegnante meccanico» per ogni allievo, regolato in modo adatto alla mente di ciascun bambino.
La nostra scuola, al contrario, è organizzata in ben altro modo, dacché si è deciso di raggruppare gli alunni. Essa sa bene che il gruppo ha in sé alcune fondamentali peculiarità che favoriscono la crescita intellettuale e sociale. Ce ne siamo accorti da metà marzo in qua, di quanto siano importanti le relazioni sociali. Si cresce e si impara con il lavoro individuale, con il lavoro di gruppo e con l’interazione tra le persone della propria classe. Nel contempo la scuola, in questo contesto particolare, educa all’autonomia, all’ascolto, allo scambio di opinioni diverse, alla collaborazione, alla disponibilità. È la prima base sicura dell’educazione alla cittadinanza, a condizione che la scuola resti un luogo privilegiato dove sia possibile sbagliare senza farsi male.
Tuttavia, ogni tanto, si scorda che ogni nuovo apprendimento dev’essere alla portata del proprio sviluppo cognitivo. La pedagogia e, più in generale, le scienze dell’educazione hanno messo a punto nel corso della loro storia molteplici procedure affinché sia possibile differenziare senza individualizzare. Differenziare, tra tante cose, significa che l’insegnamento di un nuovo concetto sia leggermente superiore a ciò che un alunno non è in grado di fare da solo, ma che potrebbe riuscire a fare con l’aiuto dell’insegnante.
Insomma, differenziare non significa diventare tutti uguali. Quel verbo della pedagogia non nasconde chissà quale imbroglio. La scuola dell’obbligo non può essere ridotta a una lunga competizione. Per la formazione dei migliori – i migliori scienziati, medici, insegnanti, artigiani, imprenditori, informatici, infermieri, architetti – ci sarà tanto tempo a disposizione dopo la fine della scuola obbligatoria. L’importante è che ognuno possa arrivarci avendo imparato il massimo di ciò che i programmi scolastici prevedano fin lì, senza sentirsi un reietto o un potenziale premio Nobel. Perché bisogna pur chiedersi se non converrebbe all’intero paese che ogni suo cittadino possa essere considerato il più bravo nel lavoro che svolge da adulto.