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Sarebbe poco civile augurarsi che la scuola non riapra per il virus, ristabiliamo un diritto

Domani si tornerà a scuola in modalità standard. Cassandre e chiudizionisti prego astenersi, perché la scuola ha bisogno di serenità e ottimismo. La scuola non è la vita vera, ma un luogo protetto, una specie di parco naturale da custodire gelosamente. Enos Bernasconi, responsabile malattie infettive dell’EOC, ha scritto: «È probabile che dei casi positivi in ambito scolastico si verificheranno anche da noi, è praticamente inevitabile. Ma le scuole andavano riaperte in presenza, perché l’istruzione è una necessità. La via delle lezioni a distanza è stata proficua, ma ha dei limiti. L’aspetto della socializzazione è fondamentale. Sarebbe stato sbagliato lanciare il messaggio che, per eccesso di prudenza, non si sarebbero riaperte le scuole. Fare i catastrofisti non serve, bisogna accettare il rischio. Un rischio gestibile».

Da metà luglio, in queste pagine, ho proposto alcune riflessioni attorno a temi importanti emersi nelle tante settimane dall’improvvisa chiusura delle scuole a oggi, con l’obiettivo di rimarcare che certe parole non possono restar lì come banali slogan. Ho parlato della riscoperta di quanto sia importante andare a scuola, anche fisicamente e non solo intellettualmente. Ho accennato alla scelta dello stato di obbligare la frequenza scolastica di tutte le persone dai quattro ai quindici anni che abitano nel nostro paese.

Ho cercato di spiegare perché siamo tutti così diversi, mentre a volte la scuola vorrebbe che fossimo tutti uguali – e in troppi sono convinti che se qualcuno è più uguale di altri è perché è più intelligente, si impegna di più, lavora sodo. A quel punto ho pure espresso l’idea che la classe non può essere una copia della famiglia, magari un po’ più numerosa della conformazione alla quale siamo oggi abituati; e del perché la formazione e l’educazione di tutti è importante e non può essere lasciata al caso, che ti fa nascere con la camicia o nudo come un verme. Una scuola indifferente alle differenze è come un sistema sanitario che si occupa solo dei sani.

Tra i quattro e i quindici anni un allievo che non ripete neanche una classe trascorre a scuola ben più di diecimila ore, senza contare i compiti a casa. Ha scritto un sociologo che se la medicina, per obbligo statale, potesse occuparsi della popolazione anche solo per una porzione infinitesimale di questo tempo, non le si perdonerebbe nemmeno un raffreddore. Ogni allievo, entro i quindici anni, ha il diritto di acquisire il bagaglio di conoscenze linguistiche, umanistiche e scientifiche che gli permetta di scegliere consapevolmente cosa vuol fare da grande. Garantire questo diritto è il dovere della scuola dello stato.

In ogni modo ora si torna a scuola, con gli auguri che da domani in poi si faccia tesoro di ciò che si è scoperto nei mesi scorsi. Tra i tanti pensieri positivi c’è la speranza che a nessuno venga in mente di inventarsi qualche ballottaggio per scegliere, ancor prima delle vacanze autunnali, chi parteciperà al girone finale e chi, in giugno, sarà retrocesso. La contingenza sanitaria che l’anno passato ha fatto diminuire la statistica delle bocciature non può essere l’alibi per pareggiare i conti quest’anno: perché sarebbe come chiudere bottega prima ancora che ricompaia la minaccia.

A differenza di altri contesti, la scuola riapre i battenti per una questione di principi superiori e fondatori del nostro paese e non per una legittima urgenza economica. Gufare sarebbe incivile.


Note

L’affermazione del Prof. Enos Bernasconi è tratta dall’intervista di Giona Carcano pubblicata nel Corriere del Ticino del 24 agosto («Bisogna fare attenzione alla tendenza dei numeri», p. 2).

Il richiamo a un sistema sanitario che si occupa solo dei sani riporta a Don Lorenzo Milani (Lettera a una professoressa, 1976, Libreria Editrice Fiorentina, p. 20): «Ma se si perde loro [gli ultimi, quelli che restano indietro], la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile».

Il sociologo citato è Philippe Perrenoud (La pédagogie a l’école des différences, 1995, Paris: ESF éditeur): «La responsabilité du système scolaire est mille fois plus engagée, puisque nul enfant n’y échappe et que chacun est livré 25 à 35 heures par semaine, pendant une dizaine d’années au moins, à l’action pédagogique de l’école. Si la médecine préventive pouvait prendre en charge les personnes de façon aussi autoritaire et continue, on ne lui pardonnerait aucune maladie!»


Termina con questo articolo la serie di contributi denominata L’ANALISI – Verso la ripresa delle lezioni. Le puntate precedenti sono state pubblicate domenica 12 luglio (L’istruzione è un valore aggiunto per la crescita economica e sociale), 9 agosto (Dopo un’estate di dubbi e domande, per la scuola arriva l’ora delle scelte), 16 agosto (L’insegnamento in équipe aiuterà i docenti) e 23 agosto (Le aule restino un luogo privilegiato dove sbagliare ma senza farsi male).

Dopo un’estate di dubbi e domande, per la scuola arriva l’ora delle scelte

In tanti si sono chiesti, e continuano a chiedersi, come sarà possibile recuperare quei tre mesi di scuola che, tanto o poco, sono andati persi. Manuele Bertoli, direttore del DECS, ha correttamente chiarito che «La scuola è un percorso, a volte lungo. C’è quindi il tempo di recuperare quanto si è inevitabilmente perso da metà marzo a fine anno, pur con tutto quel che è stato messo in campo per evitare un blocco dell’insegnamento e dell’apprendimento»: una scuola dell’obbligo col contagocce, tra insegnamento a distanza e riapertura parziale, a classi dimezzate – anche laddove il numero degli alunni e le ampie superfici delle aule avrebbero permesso di mantenere una scuola normale –, con griglie orarie ridotte all’osso, materie depennate e procedure di valutazione annullate.

Per certi versi la situazione che si è creata potrebbe addirittura far sorridere, se solo si pensa alla difficile arte di ficcare nell’anno scolastico tutte le discipline ritenute essenziali, con programmi densi e tempi prestabiliti: perché l’anno scolastico dura esattamente trentasei settimane e mezza. Già in situazione normale, cioè quando gli anni scolastici iniziano e finiscono senza emergenze, si sentono maestri e professori che si lamentano perché, al rientro dopo le lunghe vacanze estive, molti studenti hanno dimenticato quasi tutto. Poi qualcuno, con un po’ di allenamento, riuscirà a riaccendere la memoria, mentre altri saranno condannati ad aggiungere confusioni e vuoti ai ritardi dell’anno prima.

Ma c’è poco da fare, almeno nell’immediato. Qualcuno aveva suggerito di mantenere aperte le scuole durante l’estate, ma giustamente non se n’è fatto nulla, anche perché gli edifici scolastici sono progettati per proteggere dal freddo, mica dal caldo. Anzi: le scuole, da noi, chiudono in estate perché fa caldo, benché la storia del calendario scolastico racconti di altre variabili, che affondano le loro radici indietro nei secoli e nell’economia agricola dell’Ottocento. Tant’è: nel nostro cantone si va a scuola da settembre a giugno, per una trentina di ore alla settimana. Perché? Boh, forse perché si è sempre fatto così. D’estate si va in vacanza, salvo chi va al doposcuola perché mamme e papà lavorano nel turismo.

Il blackout scolastico dei mesi scorsi propone diversi spunti di riflessione, già a partire da due funzioni che hanno molto condizionato l’organizzazione degli istituti, chiamati a istruire e accudire, con questo secondo ruolo paradossalmente irrinunciabile rispetto al primo. Già questo è un aspetto delicato, visto che occuparsi dei figli quando i genitori lavorano è un compito della scuola, al quale, di solito, si pensa poco: tanto ci sono gli asili nido, i doposcuola, le colonie, le solidarietà tra famiglie e conoscenti, nonché chi si arrangia come può. Ma sono finiti da oltre mezzo secolo i tempi in cui la scuola dettava i suoi ritmi a Roma e al mondo.

Tuttavia anche dentro il contesto più nobile della scuola vi sono dei nodi delicati: qual è il giusto tempo da dedicare alla formazione e all’educazione dei cittadini di domani? Come organizzarlo? Con questo monte-ore cosa è essenziale insegnare? Più lingua o più lingue? E quali: il cinese o l’inglese? Più scienze o più arti? Cosa, insomma, è utile e spendibile e cosa non lo è? E, ancora, quale deve essere il ruolo dei genitori sul piano della formazione? Devono, per dirne una, collaborare attivamente con i professionisti della scuola a insegnare l’italiano e la matematica?


Ho trattato più volte il tema del calendario scolastico, per lo più nella mia rubrica sul Corriere del Ticino:

C’era cento volte Gianni Rodari

«Interessante e piacevole l’incontro con Gianni Rodari, il favoleggiatore italiano, che giovedì sera ha saputo egregiamente parlare di favole e ‘fabulare’ per il numeroso pubblico presente a Locarno. I futuri maestri, coloro che, come i genitori, saranno più a contatto con i bambini, secondo il sensibile inventore di favole d’oggi, apprenderanno di più, erano accorsi in massa». È l’inizio di un articolo apparso sul CdT, a commento e cronaca di una delle due conferenze che il giornalista, pedagogista e scrittore per l’infanzia tenne in Ticino nel marzo del 1977. Il 2020 sarà un anno speciale per Rodari: nato il 23 ottobre di cent’anni fa a Omegna, era stato insignito nel 1970 del premio Andersen, che è considerato il Nobel della letteratura per l’infanzia. Ci lasciò improvvisamente nel 1980.

Basterebbe il premio Andersen per sintetizzare il valore e la complessità di questo grande intellettuale. Proprio durante l’incontro locarnese – c’ero anch’io, giovane maestro poco più che ventenne, benché i ricordi siano del tutto sfocati – raccontò: «Personalmente ho cominciato a scrivere filastrocche per bambini qualcosa come trent’anni fa. Era un quotidiano politico, io ero un giornalista, ma certo non pensavo allora, come non ho mai pensato in seguito, che il mio dovere fosse di scrivere articoli di fondo a rime baciate. Giocavo, ho giocato. Rileggendo oggi le più vecchie filastrocche ci trovo echi di surrealisti francesi, dei futuristi italiani, di Palazzeschi, di Zavattini. Forse quello che ho fatto è stato di trasformare in giocattoli per i bambini il mio amore  per certi poeti e per le loro scoperte. Forse questo vuol dire che il mio interesse per la vita è stato più forte del mio interesse per la poesia. Ma non voglio addentrarmi in questa introspezione. Lo farò quando sarò vecchio, se non avrò più voglia di fare giocattoli».

Già questo testimonia come Rodari non sia stato solo un abile «favoleggiatore» o un comodo «rimatore» per bambini: comodo, sì, perché in quegli anni concitati la scuola abbracciò il suo progressismo e la sua rivoluzione della letteratura per l’infanzia. Il «rodarismo» nacque da lì, perché stravolgeva i moralismi di tanti classici – moralismi creati dalla scuola e non dai suoi autori – e si presentava con storie che parevano facili da capire. Proprio negli anni delle prime crisi energetiche e della fine del baby boom, i romanzi, i racconti e le filastrocche di Rodari hanno rappresentato per molti maestri una specie di formula magica per accedere alla «nuova educazione» e alla scuola attiva. Ma la scuola di tutti i giorni banalizzò la sua letteratura, restò in superficie. Ha scritto Pino Boero, profondo conoscitore dell’opera e del pensiero di Rodari: «Andrà detto con chiarezza che sia in molte scelte antologiche che in diverse edizioni scolastiche delle sue opere, è stata comunque presente un’ambiguità di fondo, che ha preferito usare i libri rodariani come pretesti piuttosto che valutarli nella loro reale portata pedagogica e letteraria».

Il triplice anniversario potrebbe essere l’occasione irripetibile per riscoprire l’arte di Gianni Rodari e, nel contempo, per immergerla nel contesto dell’Educazione nuova: un amalgama di idee nate oltre cent’anni fa, ma mai adottate dalla scuola, che oggi avrebbe bisogno di ritrovare, dentro le aule, la giusta serenità. Rodari, prima di proporlo a bambini e ragazzi, bisognerà spiegarlo agli insegnanti, a partire dalla «Grammatica della fantasia», un classico letterario e pedagogico.


Riferimenti

Normalmente riporto nel blog i titoli apparsi sul Corriere del Ticino, nella rubrica «Fuori dall’aula». Faccio un’eccezione per questa occasione, mantenendo il titolo che avevo scelto io (è invece uscito con un più semplice «Cento volte Gianni Rodari», probabilmente per una ragione grafica).

  • L’articolo del Corriere del Ticino citato in apertura è apparso a pagina 11 dell’edizione di sabato 5 marzo 1977, a firma A. O., col titolo I diritti della fantasia rivendicati da Rodari.
  • La citazione da una delle conferenze ticinesi di Gianni Rodari l’ho ricevuta dal prof. Pino Boero, che l’ha a sua volta citata durante un recente Convegno all’Università di Catania (Altre cento di queste favole, 14.01.2020). L’estratto gli era stato fornito da Giorgio Diamanti, che, secondo lo stesso Boero, «è il maggior raccoglitore di testi rodariani».

  • La frase di Pino Boero è tratta da: PINO BOERO, Una storia, tante storie – Guida all’opera di Gianni Rodari, 2010: Einaudi ragazzi, p. 235. In realtà le poche righe che ho ripreso prendono le mosse da una riflessione più articolata.

Il posto occupato da Rodari all’interno della scuola italiana non sempre è così produttivo. Giuseppe Pontremoli, ad esempio, riscontra come la presenza di Rodari nei libri di testo spesso finisca per diluirne la proposta pedagogica e letteraria:

Sì, perché inevitabilmente i testi antologizzati (…) sono quelli (…) più indifferentemente accettabili, sono quelli più generici, o quelli più meramente «linguistici». E questi, presi a sé, fuori dal mondo di progettualità in cui sono nati (…) non hanno molto senso, come acqua del mare in un bicchiere [G. PONTREMOLI, Il prezzemolo Rodari, in «Linea d’ombra» n. 28, giugno 1988]

Andrà detto con chiarezza che sia in molte scelte antologiche che in diverse edizioni scolastiche delle sue opere, è stata comunque presente un’ambiguità di fondo, che ha preferito usare i libri rodariani come pretesti piuttosto che valutarli nella loro reale portata pedagogica e letteraria: le edizioni di Atalanta [G. RODARI, Atalanta, note ed esercitazioni a cura di R. Paternicò, S. Prini e G. Rota, Editrice Piccoli, Milano 1985] e Tante storie per giocare [G. RODARI, Tante storie per giocare, note ed esercitazioni di L. Benatti, Editrice Piccoli, Milano 1987] sono proprio l’esempio di come Rodari non voleva fosse un testo di lettura per bambini:

La trasformazione del libro in uno strumento di fatica prosegue e s’intensifica attraverso le varie fasi del riassumere, del mandare a memoria, del descrivere le illustrazioni, eccetera. Tutti questi esercizi moltiplicano le difficoltà della lettura, anziché agevolarle, fanno del libro un pretesto togliendogli ogni capacità di divertire [G. RODARI, 9 modi per insegnare ai ragazzi ad odiare la lettura, in «Il Giornale dei Genitori», n. 10, 1964].

  • GIANNI RODARI, Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, 1ª edizione 1973, Giulio Einaudi Edizioni.

Una scuola serena

Chi conosce qualche maestro o direttore di una scuola elementare ha certamente sentito alcuni mugugni che circolano da qualche tempo: troppa burocrazia, programmi iperbolici, scarso dialogo con la Sezione delle scuole comunali. Difficile dire con certezza cosa c’è di vero. Sta di fatto che, a fine settembre, un manipolo di deputati liberali ha inoltrato un atto parlamentare, che tocca tre aspetti dello stesso problema e pone una ventina di domande al Dipartimento dell’Educazione. «Molti attori della scuola dell’obbligo – scrivono – sono confrontati con un aumento non indifferente di oneri burocratici. Se da un lato essi possono considerarsi una necessità per lo svolgimento ottimale e professionale del proprio lavoro e per uniformare le pratiche sul territorio, dall’altro, un loro eccesso sottrae tempo prezioso ad altri compiti ritenuti fondamentali che le rispettive professioni comportano, come ad esempio la riflessione e la preparazione didattica e pedagogica; inoltre, influisce negativamente sull’aspetto motivazionale accrescendo una sensazione di fatica e sovraccarico».

C’è un malessere che raccontano in tanti. L’interrogazione, peraltro, parla di scuola dell’obbligo, ma in realtà si china solamente sul primo segmento, quello storicamente comunale. È immaginabile che il riformismo concitato del Dipartimento di Bertoli generi malumori, la cui percezione è fatalmente soggettiva. Molti cambiamenti di questi ultimi anni, nondimeno, discendono dall’iniziativa popolare «Aiutiamo le scuole comunali», depositata nel 2009. Essa aveva goduto di un successo strepitoso, conteneva un ampio ventaglio di proposte ed era stata firmata (anche) da una cospicua percentuale di addetti ai lavori. A oggi molte di quelle richieste sono diventate realtà; ma, va da sé, non è quasi mai possibile avere la botte piena e la moglie ubriaca. È però vero che, nel frattempo, c’è stata la lunga e sviante vicenda della «Scuola che verrà», nonché il varo del nuovo «Piano di studio».

Detto questo, non si può sottacere che i liberali si erano accodati alla processione che intonava a pieni polmoni il de profundis a una scuola diversa: perché poi ci vorrebbe una profonda coerenza per progettare la scuola di domani, senza perdere per strada il primato dell’educazione dei futuri cittadini. Invece anche i fondatori, tanti anni fa, della scuola pubblica, laica e obbligatoria, appartengono ormai a quella maggioranza politica che non sa fare a meno delle note scolastiche sin dall’età più tenera dei suoi scolari, ben sapendo che si tratta di valutazioni arbitrarie, che dipendono solo in parte irrilevante dal livello di sviluppo cognitivo e affettivo di ogni bambina o bambino; mentre sono in balia della qualità dell’insegnamento, della capacità di costruire validi e significativi strumenti di valutazione, dell’interpretazione soggettiva degli obiettivi da raggiungere, del livello culturale del maestro e del suo carisma.

È possibile immaginare una scuola completamente diversa da quella che conosciamo e che i più vorrebbero conservare, in modo gattopardesco, immutata nei secoli? Certo che si può, senza neanche inventarsi chissà quale diavoleria. Si potrebbe partire, ad esempio, dalla massima eterogeneità delle classi, dall’insegnamento in équipe e da piani di studio che puntino all’essenzialità della matematica, delle scienze naturali e delle discipline umanistiche – arti e filosofia comprese. Una scuola serena, insomma. Tutto ciò non riguarda solo i liberali, ovvio.

Gli svogliati e il patto della scuola col paese

Gli ultimi scorci d’agosto hanno coinciso coi riti che lanciano un nuovo anno scolastico, con le vetrine dei negozi che ammiccavano a scolari e studenti e i giornali pieni di statistiche – tot docenti, tot allievi – e riflessioni sulla scuola che, di lì a qualche giorno, avrebbe alzato il sipario sulla nuova e spettacolare puntata sui temi dell’istruzione e dell’educazione dei futuri cittadini. Ancora una volta hanno tenuto banco la mobilità lenta e qualche iniziativa insolita. C’è un istituto, per dire, che vende banchi di scuola vintage a prezzi stracciati per comprare nidi per le rondini. Problemi grassi della scuola che c’è già.

Qua e là ha fatto capolino la condanna degli svogliati. Il popolo sovrano ha mostrato il pollice verso alla «Scuola che verrà», che è il parere dell’arena: le note scolastiche sono l’asse portante della scuola, per cui se, poniamo, un ragazzino di sei anni non impara un po’ in fretta a scrivere le prime semplici frasette – diciamo entro Natale – ci sono solo due possibilità: è un incapace o un fannullone. Nell’uno come nell’altro caso, meglio intervenire subito con dei brutti voti, così si risparmiano energie superflue e si evita che i genitori covino progetti irrealizzabili.

In questo rito, che ha in sé, per definizione, un che di ripetitivo, Ernesto Galli Della Loggia, (CdT del 24 agosto), ha sostenuto che «Poche istituzioni come la scuola hanno risentito dei grandi cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni nelle nostre società. A cominciare dal cambiamento principale: e cioè che nel complesso siamo diventati una società ricca, largamente soddisfatta, appagata anche in molti bisogni superflui». E poi: «Quando eravamo meno benestanti era naturale guardare alla scuola come a uno strumento decisivo perché i figli migliorassero la condizione familiare di partenza. Farli studiare era considerato come l’occasione unica e irripetibile per uscire dal disagio e dalla privazione, per salire nella scala sociale. Questo fenomeno in buona parte non esiste più». Concordo che il patto tra la scuola e la società è saltato. Per dirne una, l’inserimento nel mondo del lavoro era praticamente garantito sin dagli anni ’50, e più si andava lontano con la formazione, più «da grandi» si sarebbero svolte professioni ben retribuite e socialmente riconosciute. Già da un bel po’ di anni questa equazione è stata spazzata via, salvo per quei pochi che seguono le orme dei padri – a patto, per lo più, che ci sia da ereditare uno studio o una ditta, e non da costruire ex novo.

Gli ultimi rilevamenti statistici raccontano però che la sottoccupazione ha raggiunto livelli mai visti prima, che l’interinato è vieppiù una regola con cui fare i conti e che il nostro è il cantone coi salari più bassi della Svizzera – mentre, per dire, un pacco di pasta della Migros costa uguale a Locarno o Zurigo. Va da sé, questa tendenza colpisce ampiamente i giovani.

Parrebbe insomma che tutta la fregola efficientista della politica scolastica dell’ultimo trentennio, culminata finora nei nuovi piani di studio, pretenziosi e illusori, non abbia fin qui prodotto granché. Sull’altare di un contratto fallace tra la scuola, la finanza e l’imprenditoria si sono sacrificati valori che in troppi – dalla politica ai sindacati ai media – hanno ritenuto sorpassati e inutili. Ridateci la storia, la geografia e le arti, che almeno ci permetteranno di capire il presente e di progettare un futuro più giusto. Con tutto il rispetto per le rondini, prediligo ancora Leopardi.