Tutti gli articoli di Adolfo Tomasini

Le aule restino un luogo privilegiato dove sbagliare ma senza farsi male

Quando si parla di differenziazione dell’insegnamento pare sempre che si voglia uniformare tutto, che l’obiettivo sia quello di portare tutti al medesimo livello, quello più basso. È una delle parole della scuola che ognuno definisce come gli fa comodo. L’unica cosa certa è che siamo tutti diversi l’uno dall’altro – e non mi riferisco alle diversità più evidenti, come la statura, il genere, la corporatura, il colore della pelle e degli occhi. Dato che parliamo di scuola, in particolare di scuola obbligatoria, il riferimento è a ben altre caratteristiche individuali, alcune fornite direttamente dalla natura tramite una madre e un padre; altre che si sono sviluppate e continuano a svilupparsi attraverso le relazioni sociali, le conoscenze che si acquisiscono formalmente o informalmente, le esperienze che si fanno giorno dopo giorno, quasi sempre senza neanche accorgersene e ignorandone l’eventuale importanza.

Sta di fatto che quando arriviamo a scuola – e ci arriviamo perché lo stato ci obbliga – siamo tutti in grado di imparare quel che la scuola ha deciso di insegnarci; nel contempo ognuno ha tempi e stili di apprendimento diversi. Un curioso racconto di Isaac Asimov, pubblicato nel 1951 col titolo «Chissà come si divertivano», immagina come la società del 2157 abbia risolto il problema delle nostre tante diversità per mezzo di un «insegnante meccanico» per ogni allievo, regolato in modo adatto alla mente di ciascun bambino.

La nostra scuola, al contrario, è organizzata in ben altro modo, dacché si è deciso di raggruppare gli alunni. Essa sa bene che il gruppo ha in sé alcune fondamentali peculiarità che favoriscono la crescita intellettuale e sociale. Ce ne siamo accorti da metà marzo in qua, di quanto siano importanti le relazioni sociali. Si cresce e si impara con il lavoro individuale, con il lavoro di gruppo e con l’interazione tra le persone della propria classe. Nel contempo la scuola, in questo contesto particolare, educa all’autonomia, all’ascolto, allo scambio di opinioni diverse, alla collaborazione, alla disponibilità. È la prima base sicura dell’educazione alla cittadinanza, a condizione che la scuola resti un luogo privilegiato dove sia possibile sbagliare senza farsi male.

Tuttavia, ogni tanto, si scorda che ogni nuovo apprendimento dev’essere alla portata del proprio sviluppo cognitivo. La pedagogia e, più in generale, le scienze dell’educazione hanno messo a punto nel corso della loro storia molteplici procedure affinché sia possibile differenziare senza individualizzare. Differenziare, tra tante cose, significa che l’insegnamento di un nuovo concetto sia leggermente superiore a ciò che un alunno non è in grado di fare da solo, ma che potrebbe riuscire a fare con l’aiuto dell’insegnante.

Insomma, differenziare non significa diventare tutti uguali. Quel verbo della pedagogia non nasconde chissà quale imbroglio. La scuola dell’obbligo non può essere ridotta a una lunga competizione. Per la formazione dei migliori – i migliori scienziati, medici, insegnanti, artigiani, imprenditori, informatici, infermieri, architetti – ci sarà tanto tempo a disposizione dopo la fine della scuola obbligatoria. L’importante è che ognuno possa arrivarci avendo imparato il massimo di ciò che i programmi scolastici prevedano fin lì, senza sentirsi un reietto o un potenziale premio Nobel. Perché bisogna pur chiedersi se non converrebbe all’intero paese che ogni suo cittadino possa essere considerato il più bravo nel lavoro che svolge da adulto.

L’insegnamento in équipe aiuterà i docenti

Nei primi anni di vita di ogni bambino vi sono dei traguardi che inorgogliscono i genitori e rinforzano la loro capacità educativa, quasi sempre in modo informale e spontaneo. Un bel giorno, spesso in modo inatteso, il figlioletto ride e sgambetta felice. Allo stesso modo imparerà a riconoscerà i volti e le voci, a gattonare e muovere i primi passi maldestri, a dire qualche (quasi) parola; in seguito comincerà a usare il cucchiaio autonomamente, diventerà curioso e, pian piano, porrà domande su domande. Sono i traguardi che ritmano una crescita che durerà una vita intera. Gli studiosi, quando affermano che queste tappe si verificheranno a tale o tal altra età, si rifanno a osservazioni statistiche: proprio per questo offrono degli scarti che possono essere più o meno importanti. Camminare, parlare, capire, ascoltare, pensare sono capacità complesse, generate da un misto di caratteristiche fisiche e mentali, ricevute per trasmissione genetica, e di esperienze vissute dalla nascita in poi, spesso del tutto fortuite, altre volte frutto di meditati e consapevoli stimoli.

Un bel dì, però, arriva il tempo di sedersi dietro un banco di scuola per imparare a leggere e a scrivere. Questo momento coincide con i sei anni di età, che è il momento in cui il 70% dei bambini ha i prerequisiti che permettono tale apprendimento. C’è chi già scribacchia e leggiucchia, e chi che non è ancora del tutto pronto, benché manchi poco. Questo progetto di alfabetizzazione, in parte iniziato già due anni prima, non si limita naturalmente ai quattro cardini dell’imparare l’italiano – leggere, scrivere, ascoltare e parlare – ma coinvolge la matematica e l’educazione alla vita in una piccola comunità come la classe. Il processo di crescita si sposta dunque in un contesto che è diverso da quello della famiglia.

È qui che entrano in gioco la professionalità della scuola e dei suoi insegnanti, che si riconoscono nelle finalità e negli obiettivi della scuola dell’obbligo; che sanno programmare la loro attività sapendo che, malgrado le differenze individuali, tutti hanno il diritto di acquisire ciò che la scuola dello Stato si è impegnata a insegnare; che padroneggiano le discipline che insegnano e le didattiche che soggiacciono alle specificità di ognuna. In altre parole: gli insegnanti sono tenuti, istituzionalmente ed eticamente, a differenziare il loro insegnamento. Parrebbe invece che per poter imboccare la via della differenziazione sia necessario avere classi sempre più piccole.

Durante quell’ultimo mese di scuola in presenza degli allievi, ma metà per volta, ho sentito anch’io qualche insegnante gioire: finalmente ho così pochi allievi che posso addirittura differenziare. Non mi convince. Forse bisognerà ragionare su classi di una ventina di allievi – ma si sa che le origini sociali e culturali non si diffondono equamente in ogni quartiere. Più che aumentare la presenza di figure professionali e, nel contempo, puntare a ridurre gli allievi nelle classi, converrebbe investire soldi ed energie nella formazione degli insegnanti: perché la scuola non è nata per assomigliare alle famiglie. Nel frattempo il Decs dovrebbe riprendere un tema che era presente nel primo documento «La scuola che verrà», del 2014, dove si indicava la collaborazione tra docenti per una condivisione di obiettivi, decisioni e responsabilità: in altre parole l’insegnamento in équipe, che tra tanti vantaggi offre pure l’opportunità di far variare il numero di allievi in base al bisogno.

Dopo un’estate di dubbi e domande, per la scuola arriva l’ora delle scelte

In tanti si sono chiesti, e continuano a chiedersi, come sarà possibile recuperare quei tre mesi di scuola che, tanto o poco, sono andati persi. Manuele Bertoli, direttore del DECS, ha correttamente chiarito che «La scuola è un percorso, a volte lungo. C’è quindi il tempo di recuperare quanto si è inevitabilmente perso da metà marzo a fine anno, pur con tutto quel che è stato messo in campo per evitare un blocco dell’insegnamento e dell’apprendimento»: una scuola dell’obbligo col contagocce, tra insegnamento a distanza e riapertura parziale, a classi dimezzate – anche laddove il numero degli alunni e le ampie superfici delle aule avrebbero permesso di mantenere una scuola normale –, con griglie orarie ridotte all’osso, materie depennate e procedure di valutazione annullate.

Per certi versi la situazione che si è creata potrebbe addirittura far sorridere, se solo si pensa alla difficile arte di ficcare nell’anno scolastico tutte le discipline ritenute essenziali, con programmi densi e tempi prestabiliti: perché l’anno scolastico dura esattamente trentasei settimane e mezza. Già in situazione normale, cioè quando gli anni scolastici iniziano e finiscono senza emergenze, si sentono maestri e professori che si lamentano perché, al rientro dopo le lunghe vacanze estive, molti studenti hanno dimenticato quasi tutto. Poi qualcuno, con un po’ di allenamento, riuscirà a riaccendere la memoria, mentre altri saranno condannati ad aggiungere confusioni e vuoti ai ritardi dell’anno prima.

Ma c’è poco da fare, almeno nell’immediato. Qualcuno aveva suggerito di mantenere aperte le scuole durante l’estate, ma giustamente non se n’è fatto nulla, anche perché gli edifici scolastici sono progettati per proteggere dal freddo, mica dal caldo. Anzi: le scuole, da noi, chiudono in estate perché fa caldo, benché la storia del calendario scolastico racconti di altre variabili, che affondano le loro radici indietro nei secoli e nell’economia agricola dell’Ottocento. Tant’è: nel nostro cantone si va a scuola da settembre a giugno, per una trentina di ore alla settimana. Perché? Boh, forse perché si è sempre fatto così. D’estate si va in vacanza, salvo chi va al doposcuola perché mamme e papà lavorano nel turismo.

Il blackout scolastico dei mesi scorsi propone diversi spunti di riflessione, già a partire da due funzioni che hanno molto condizionato l’organizzazione degli istituti, chiamati a istruire e accudire, con questo secondo ruolo paradossalmente irrinunciabile rispetto al primo. Già questo è un aspetto delicato, visto che occuparsi dei figli quando i genitori lavorano è un compito della scuola, al quale, di solito, si pensa poco: tanto ci sono gli asili nido, i doposcuola, le colonie, le solidarietà tra famiglie e conoscenti, nonché chi si arrangia come può. Ma sono finiti da oltre mezzo secolo i tempi in cui la scuola dettava i suoi ritmi a Roma e al mondo.

Tuttavia anche dentro il contesto più nobile della scuola vi sono dei nodi delicati: qual è il giusto tempo da dedicare alla formazione e all’educazione dei cittadini di domani? Come organizzarlo? Con questo monte-ore cosa è essenziale insegnare? Più lingua o più lingue? E quali: il cinese o l’inglese? Più scienze o più arti? Cosa, insomma, è utile e spendibile e cosa non lo è? E, ancora, quale deve essere il ruolo dei genitori sul piano della formazione? Devono, per dirne una, collaborare attivamente con i professionisti della scuola a insegnare l’italiano e la matematica?


Ho trattato più volte il tema del calendario scolastico, per lo più nella mia rubrica sul Corriere del Ticino:

Il general Guisan e la generale ignoranza della storia

In pochi giorni mi è capitato di leggere nella stampa locale due diversi articoli che facevano riferimento ad Henri Guisan, generale dell’esercito svizzero eletto dall’assemblea federale il 30 agosto 1939. Armando Dadò ha intitolato «Conoscere la storia» l’editoriale di luglio del suo mensile La Rivista: «Guisan è sempre stato “il Generale” per antonomasia. Si può quindi capire come rimasi di stucco quando consegnai un libro sul Generale a una brava ragazza che dopo il liceo si era laureata con successo, e mi chiese chi fosse questo Guisan. Ne rimasi sbalordito e pure la ragazza si sorprese di non sapere. È mai possibile, pensai, che una persona intelligente e fresca di studi, ignori il nome di Henri Guisan? Questo significa non sapere che ruolo ha avuto la Svizzera durante il secondo conflitto mondiale».

Il 13 luglio, su queste pagine, Matteo Airaghi ha ricordato «L’angoscia rimossa del mese più buio», quello racchiuso tra il 25 giugno e il 25 luglio 1940. A pochi giorni dalla capitolazione della Francia, il presidente della confederazione Pilet-Golaz pronunciò un ambiguo discorso alla nazione, «sulle cui infelici ambiguità – ha scritto Airaghi – gli storici ancora non concordano, ma che di fatto venne percepito dalla popolazione come una sorta di preparazione alla resa nei confronti dell’incipiente nuovo ordine mondiale e alla pressoché ineludibile fine della democrazia». La risposta arrivò giusto un mese dopo. Nel momento in cui la Svizzera era accerchiata dalle potenze dell’Asse, Guisan convocò i comandanti militari al Grütli, luogo-simbolo del paese: «Siamo giunti a una svolta decisiva nella storia del nostro paese. Non si tratta soltanto di un regime politico ma dell’esistenza stessa della Svizzera. Il solo mezzo di essere rispettati è quello di affermare la nostra volontà di difenderci fino alla fine e di vendere cara la nostra pelle». Dadò e Airaghi avevano entrambi citato un articolo di Claudio Magris, «Indifesi perché smemorati: chi ignora il passato non sa affrontare l’oggi» (Corriere della Sera del 23 febbraio), titolo rivelatore di una riflessione profonda e severa.

Il 25 luglio 1940 il generale Henry Guisan convocò al Grütli, luogo-simbolo del paese, gli ufficiali con potere di comando dell’esercito svizzero.

È inutile fingere che la scuola, e con lei tutto il sistema della formazione e dell’informazione, non abbia colpe nella diffusa ignoranza della storia. Ma, nel contempo, bisogna pur dirlo senza troppi giri di parole: non è vero che in altri anni si conosceva la storia – ed erano anni, non solo per i comuni cittadini, meno affollati di informazioni e di bugie. La storia – e altre discipline essenziali come le scienze e le arti – la conoscevano alcune élite, era la storia delle date, degli avvenimenti, dei nomi e dei miti. Man mano che ci si inoltrava nella scolarità aumentavano le nozioni, ma in tanti si fermavano alla scuola maggiore. Non si può dimenticare che fino al 1974 in Ticino c’era un unico liceo, non certo un liceo di massa.

La scuola di oggi, e anche questo bisogna dirlo, si occupa della storia con un atteggiamento ambiguo. Pochi anni fa la divisione della scuola del DECS ha pubblicato due splendidi manuali per la scuola media, «La Svizzera nella storia», dal paleolitico alla globalizzazione attraverso testi espositivi, documenti, linee del tempo, carte, grafici, esercizi, approfondimenti e voci di glossario. Ma la dotazione oraria è avara, e non è certo un caso se, nei mesi della scuola a distanza e della presenza a singhiozzo, la storia apparteneva alle materie a discrezione di ogni istituto: dopo, nell’ordine, matematica, tedesco, italiano e inglese.


Note e riferimenti

Questo articolo è apparso nel Corriere del Ticino col titolo «L’ignoranza della storia».

ARMANDO DADÒ, «Conoscere la storia», in la Rivista – Mensile illustrato del Locarnese e Valli, N° 7, Luglio 2020, pp. 7 e 9

MATTEO AIRAGHI, «L’angoscia rimossa del mese più buio», in Corriere del Ticino, N° 158, 13.07.2020, pp. 1 e 11

Su MARCEL PILET-GOLAZ (1889-1958) si veda il Dizionario Storico della Svizzera (https://hls-dhs-dss.ch/it/articles/004641/2011-02-03/). In particolare, riguardo a quanto citato nel mio articolo, vi si legge:

Presidente della Confederazione per la seconda volta nel 1940 (…), il 2 marzo dello stesso anno succedette a Giuseppe Motta alla testa del Dipartimento politico. In questa duplice veste dovette far fronte alla grave crisi di fiducia che la Svizzera attraversò dopo la sconfitta della Francia in giugno. Il suo discorso del 25.6.1940, approvato dal Consiglio federale, aspirava a rassicurare il Paese, ma la sua retorica infelice e le affermazioni, quanto meno ambigue, in favore di una rigenerazione autoritaria della democrazia non fecero che alimentare l’incertezza. In seguito Pilet-Golaz non fece nulla per dissipare i malintesi. Al contrario, il 10 e 14 settembre successivi, ricevendo i rappresentanti del Movimento nazionale svizzero, favorevole all’allineamento della Svizzera al Terzo Reich, offrì ulteriori argomenti ai sospetti che continuarono a gravare su di lui anche in seguito.

Incaricato di applicare la politica di neutralità del Consiglio federale, Pilet-Golaz omise di informare i colleghi sulle strette relazioni che intratteneva con il ministro di Germania a Berna. Né la grave crisi diplomatica del luglio del 1940, preceduta dai combattimenti aerei tra la Luftwaffe e alcuni caccia svizzeri, né le proteste e le reiterate pressioni del Reich contro la stampa svizzera o la posizione assunta da Berna nei negoziati economici con la Germania permettono però di dubitare veramente della sua volontà di difendere l’indipendenza e la sovranità della Confederazione, dal novembre del 1942 circondata dalle potenze dell’Asse. Pilet-Golaz sembra invece aver creduto, almeno fino all’autunno del 1942, nella vittoria del Reich e la sua mancanza di prudenza verbale, per quanto calcolata, poté più volte far dubitare Berlino quanto alla fermezza delle sue convinzioni democratiche o alla sua determinazione a mantenere una posizione di stretta neutralità.

Sul discorso di HENRI GUISAN (1874-1960) del 25 luglio 1940, si veda nuovamente il Dizionario Storico della Svizzera: Rapporto del Grütli.

CLAUDIO MAGRIS, «Indifesi perché smemorati: chi ignora il passato non sa affrontare l’oggi», in Corriere della sera, 23.07.2020

I due volumi «La Svizzera nella storia», editi dalla divisione della scuola del DECS, non sono in commercio. Ne avevo scritto sul Corriere del Ticino alla pubblicazione di ogni volume: La storia nella scuola e la Svizzera nella storia (15.03.2013) e «La Svizzera nella storia», un manuale scolastico di gran pregio (20.12.2014)

L’istruzione è un valore aggiunto per la crescita economica e sociale

È stata dura tenere aperte le scuole fino a metà marzo. E di nuovo dura riaprirle. Fosse stato per alcuni politici avremmo fatto la fine dell’Italia, che oggi tutti deridono. Aveva scritto il direttore del Corriere del Ticino: «Triste, irresponsabile, probabilmente illegale. È il comportamento dei Municipi di Lugano e Locarno. Aprire ora un derby istituzionale Comuni/Cantone sulla chiusura/apertura delle scuole è il peggio che un politico con responsabilità esecutive possa fare. E cosa fanno Lugano e Locarno? Né chiudono, né aprono. Organizzano il caos, la scuola dell’obbligo senz’obbligo. In preda alla paura, alimentano la paura. Sconcertante». Ci riproveranno in maggio, sempre loro. Il giorno del ritorno in aula la frequenza scolastica era attorno al 95%. Un mese dopo il medico cantonale aveva affermato che i bambini non erano il motore dell’influenza: «I dati riguardanti i più piccoli sono arrivati un po’ tardivamente, altrimenti si sarebbe benissimo potuto evitare di chiudere le scuole in Svizzera». Tanto di cappello.

Sta di fatto che la pandemia ha sconvolto un terzo dell’anno scolastico, due mesi chiusi in casa con la scuola a distanza, poi di nuovo in sede, benché con tempi ridotti: ma era importante rivedere docenti e compagni. Naturalmente si potrebbe parlare di molti aspetti venuti a galla in questi mesi. Ne vengono in mente tanti, dall’importanza della didattica ai contenuti dei programmi, dalla valutazione al calendario scolastico. Sarebbe però improvvido e sconsiderato tentare ora ipotesi e possibili conclusioni, tanto più che la SUPSI sta svolgendo un’indagine a 360 gradi «per raccogliere i vissuti, le esperienze, le difficoltà e i bisogni emersi durante la fase di scuola a distanza» e quella di scuola parzialmente in presenza.

Ci sono però alcune cose di cui si può già parlare. Tanto per cominciare, il Paese si è accorto dell’importanza della scuola e della sua presenza regolare, che può essere ingombrante, ma necessaria per il funzionamento sociale ed economico di tutti. È un valore aggiunto che si dovrà rivalutare, pensando ai tanti alunni che, durante l’anno, passano più ore nei circuiti extra-scolastici che a scuola. Per un paio di mesi anche i Franti hanno rimpianto questo luogo di crescita e di educazione alla libertà: perché la didattica e gli obiettivi disciplinari avranno pure la loro importanza, ma non sono il fondamento della scuola pubblica e obbligatoria.

Poi bisogna parlare dei genitori, soprattutto di quella moltitudine silenziosa chiamata a gestire un ambiente di convivenza fisica e psicologica che non conoscevano. In tantissimi casi la scuola ha fatto appello alla loro responsabilità educativa e formativa. Molti non sapevano come raccapezzarsi, né per vivere tutti insieme, gomito a gomito, giorno dopo giorno; né per capire cosa dovevano fare per aiutare i figli a svolgere i compiti somministrati a distanza. Tuttavia se per diventare insegnanti occorrono anni di studio, non si vede come chiunque potrebbe crearsi competenze pedagogiche e didattiche dall’oggi al domani. Se ne sono accorti un po’ tutti che a farne le spese sono stati i soliti ultimi anelli della catena sociale, economica e culturale. Ma è così da sempre, anche quando non ci sono virus nell’aria e le scuole vivono il loro secolare tran tran.


Questo articolo è apparso nell’edizione del 12 luglio 2020 del domenicale ilCaffè, nel contesto di un più ampio servizio sulla scuola, parzialmente chiusa dal 16 marzo alla chiusura dell’anno scolastico, e sugli scenari di riapertura, che sono in via di elaborazione. L’articolo principale – La scuola di domani – Ecco i tre scenari possibili dal 31 agosto – è l’intervista al ministro Manuele Bertoli,  direttore del Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport.


Citazioni

La citazione del direttore del Corriere del Ticino, Fabio Pontiggia, è del 13 marzo, dunque nei giorni in cui il governo cantonale decise la chiusura («Pessima lezione», p. 1). Dall’inizio della pandemia Pontiggia ha pubblicato ben 70 editoriali corti, sempre interessanti e inflessibili. «Con questo appunto – ha scritto nell’edizione del 2 giugno – si chiude la serie dei 70 editoriali corti. Ieri 0 decessi e 0 contagi: si torna alla normalità».

La citazione del medico cantonale Giorgio Merlani è tratta dall’intervista pubblicata nel Corriere del Ticino del 10.06.2020 (GIONA CARCANO, «A un mese dalle riaperture sono sorpreso ma contento», intervista al medico cantonale, p. 4).