“Imparare” la cittadinanza non è come mandare a memoria una filastrocca

Comincio con un prologo, a mo’ di cronaca:

  • giusto quattro anni fa un comitato presieduto dall’imprenditore Alberto Siccardi aveva lanciato un’iniziativa popolare legislativa generica denominata «Educhiamo i giovani alla cittadinanza (diritti e doveri)», che in poco tempo aveva raccolto più di 10 mila firme.
  • L’obiettivo principale dell’iniziativa è l’introduzione nelle scuole medie, medie superiori e professionali di una nuova materia di insegnamento denominata «Educazione Civica, alla Cittadinanza e alla Democrazia Diretta» [la maiuscole appartengono dalla dicitura originale] che abbia un proprio testo e un proprio voto separati; tale materia dovrà essere obbligatoria e dovrà essere insegnata per almeno due ore al mese; onde evitare un aumento delle ore totali di insegnamento, e relativi costi, si propone di ricavare il tempo necessario dalle ore di storia.
  • Dopo di che era iniziato il tiramolla tra i promotori, il dipartimento dell’Educazione e il Parlamento.
  • Nei primi mesi di questo 2017 sembrava che si fosse riusciti a trovare il rinomato onorevole compromesso tra i proponenti e la Commissione scolastica del Gran Consiglio. Invece il 18 aprile scorso il primo firmatario dell’iniziativa ha inviato una lunga lettera alla Commissione parlamentare, dove in sostanza si distanzia dall’accordo, che pareva raggiunto, e si mette di traverso: non ci sto.

Non voglio tirarla per le lunghe: chi non ha seguito la disputa che ne è immediatamente scaturita, può farsene un’idea con:

Da quando è iniziata la recita introdotta dall’iniziativa di Siccardi e compagni, non ho letto o sentito un parere, anche solo generico, che invitasse a riflettere sulla concreta utilità della proposta. La gran parte – forse è un eufemismo, ma voglio essere prudente – di chi si è adoperato per cercare un punto d’incontro tra il Parlamento e i promotori dell’iniziativa ha per lo più evocato questioni di costi, di carico eccessivo delle griglie orarie, di equilibrio tra discipline, di peso scolastico per gli studenti, di leggi e norme che limiterebbero l’attuazione delle proposte dei diecimila che hanno seguito Siccardi e il suo comitato policromo.

Ma non ho sentito nessuno dire che le soluzioni prospettate dall’iniziativa per affrontare di petto un problema che è reale – quello di una certa deficienza civica, che peraltro non appartiene solo alle giovani generazioni – sono velleitarie e ignoranti – ignoranti nel senso che ignorano come funziona l’apprendimento di una competenza complessa e mai definitiva come l’educazione alla cittadinanza.

Un breve testo pubblicato su La Regione del 22 aprile (nella rubrica del sabato ALTI-BASSI, che per questa settimana “abbassa” Siccardi) dà per scontato il succo della proposta: Prendete l’insegnamento della Civica a scuola. Chi oserebbe dire che non serve?

Chi oserebbe dire che non serve? Io, ad esempio: da diversi anni sostengo che, di per sé, un corso articolato di educazione civica non serve a un fico secco. In questo sito mi sono occupato più volte, direttamente o meno, di educazione alla cittadinanza e alla democrazia (questo link rimanda a tutti quei miei scritti con il tag «Educazione civica»; e in calce si trova un elenco, in ordine di pubblicazione, di alcuni articoli dedicati espressamente alla questione). In un articolo apparso diversi anni fa su La Regione (purtroppo ho perso la bibliografia precisa), Diego Erba, a quel tempo direttore della Divisione della scuola del DECS, ricordava che “la democrazia s’impara soprattutto praticandola in famiglia, negli istituti scolastici e quindi nella società”. E, se lo si legge bene, l’articolo 2 della Legge della scuola, dedicato alle Finalità, è di per sé un’articolata definizione di educazione alla cittadinanza e alla democrazia, tanto che il volerle accostare una nuova disciplina, con tanto di nota sul libretto, sembra un ossimoro istituzionale e pedagogico.

Per diventare un cittadino consapevole e attivo di questo paese, in questo continente e in questo contesto culturale ci vuol altro che quattro nozioni in croce, per lo più centrate su precetti moralisti di certa democrazia di maniera: perché un conto è pagare le imposte e un altro evadere il fisco; un conto è tollerare – verbo infido – e un altro accogliere; e ancora: interessarsi della cosa pubblica, cercare sempre un’opinione indipendente, praticare instancabilmente il pensiero socratico, appassionarsi alle arti, alla filosofia e alla storia, padroneggiare la propria lingua e il proprio pensiero, evitare come la peste le verità dogmatiche.

Essere un cittadino democratico significa conquistare idealmente quel che c’è nel motto di Piero Gobetti: «Che ho a che fare io con gli schiavi?» Per arrivarci non ci sono scorciatoie, non servono i sotterfugi. Occorre invece l’impegno costante di tutto il sistema formativo, con la scuola nel ruolo di protagonista affidabile, affascinante, sensibile, rigorosa e tenace.

A ’sto punto, però, mi schiero anch’io con la volontà di Siccardi, così sintetizzata dal Corriere del Ticino del 22 aprile: «Sulla civica si andrà al voto». Forza. Così, durante la campagna in vista della votazione, vedremo se si riuscirà a (ri)scoprire una terza via, alla larga da quel determinismo didattico, secondo cui si può insegnare il senso dello Stato come se si trattasse di mandare a memoria le caselline, e, nel contempo, lasciando perdere le ragioni-alibi tipiche di chi ha solo un vago sentore di ciò di cui sta dibattendo, e s’attacca ai costi, ai codicilli e a qualche altra amenità.


Ecco i principali articoli sul tema

2 commenti su ““Imparare” la cittadinanza non è come mandare a memoria una filastrocca”

  1. E come non essere d’accordo con te!!!!!!!
    Caro Adolfo, ti invito, ti sprono, ti incito a far sentire la tua voce fuori da qui. Questo argomento è parecchio significativo di come si potrebbe rendere chiara la finalità pedagogica e formativa della scuola: ti ricordi quante pensieri sul famoso art.2?
    Ciao

    1. Grazie per l’apprezzamento, caro Alfonso.
      Come non essere d’accordo con te? Se ho inaugurato Cose di scuola è proprio perché, in fondo in fondo, credo ancora che sia possibile far ripartire un dibattito vero. Ma il mio è un sito di nicchia. Sono naturalmente ben distante dall’audience di quegli URL che fondano movimenti politici o incassano un sacco di grana – due obiettivi che, altrettanto naturalmente, non mi interessano.
      Viviamo in un’epoca dove la democrazia non passa più attraverso il dibattito, magari acceso, alla ricerca di una buona soluzione. Oggi, a contare, è la tecnica di comunicazione, che ha forgiato una marea di imbonitori. Guarda caso, in Ticino abbiamo una delle prime facoltà di scienze della comunicazione.
      Pensa che io, oggi, sono allergico alla denominazione scienze dell’educazione, descritte e teorizzate da quel gran filosofo che è stato John Dewey, un autore centrale della nostra formazione di insegnanti, quarant’anni fa. Oggi quelle «scienze» fanno arrossire, tanto sono diventate l’alibi per ogni scemenza in materia di scuola, istruzione e educazione: tre termini che non sono certo sinonimi.
      E che dire della politica? Dove li trovi, oggi, i politici o i partiti o i movimenti che hanno ancora una minima scintilla di illuminismo e di umanesimo? Negli anni della globalizzazione – di tutto, basta che ogni frazione del tutto possa generare degli utili di mercato – non c’è più nessuno che si occupa della buona salute della democrazia: non si discute più, ci si insulta e ci si conta.
      La democrazia è un fatto aritmetico e asettico. Si fa la conta, e chi ha la maggioranza, ampia o risicata, ha ragione. Questa è la nuova immagine della democrazia.
      Insomma: io mi diverto anche, tra un’arrabbiatura e l’altra. Ma quando nessuno riesce neanche più a scandalizzarsi se un ministro va in TV a chiudere un’intervista scegliendo una formula del tipo Non dico più un cazzo, siamo proprio conciati male.
      Citando e parafrasando l’indimenticato Giorgio Gaber, la nostra generazione ha perso – o, almeno, è colpevole di qualche bestialità monumentale.
      Poi, se c’è qualcuno disposto a mettersi in gioco, io ci sto.

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