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A che serve una nuova materia come l’educazione civica?

A fine aprile, dopo un profluvio di tira e molla, sembrava ormai guerra aperta tra i promotori dell’iniziativa «Educhiamo i giovani alla cittadinanza» e la commissione scolastica del Gran consiglio. Quando pareva che si fosse giunti al solito compromesso, il primo firmatario dell’iniziativa aveva risposto picche, bocciando la proposta della Scolastica, colpevole di raccontare un sacco di fandonie e di non rispettare i patti così faticosamente raggiunti. «Sulla civica si andrà al voto», aveva sintetizzato questo giornale. Nei giorni successivi, invece, si è avuto il sentore che ci potrebbe essere spazio per un accordo: staremo a vedere.

Il problema resta però reale e palpabile: c’è nel paese una deficienza di senso civico, non solo tra i giovani. La proposta è l’introduzione di una nuova materia, l’«Educazione civica, alla cittadinanza e alla democrazia diretta», insegnata per almeno due ore al mese e con l’immancabile nota sul libretto. Più volte mi sono dedicato al tema, già prima di questa raccolta di firme. La civica è una competenza complessa, che non si assimila attraverso un corso, con tanto di esami al seguito, nella convinzione che solo questo dispositivo sia in grado di far sudare le proverbiali sette camice agli studenti, ritenuti, con un pregiudizio di comodo, degli scansafatiche che si dànno da fare solo in cambio di un tornaconto immediato, come seguaci maldestri di un qualsiasi finanziere globalizzato. Già questa tesi la dice lunga sull’idea di cittadino garbato, consapevole e attivo. Ma c’è un’altra contraddizione evidente, che caratterizza chi è contrario alla proposta della nuova disciplina scolastica: perché nessuno, fino a oggi, ha detto chiaro e tondo che un corso siffatto non serve a un fico secco?

Pensiamoci bene: siamo sicuri che le finalità della scuola non mirino proprio al traguardo di educare cittadini che conoscono i loro diritti e i loro doveri, cioè che siano civicamente educati? Non c’è lo spazio per riportare il testo completo dell’articolo di legge, ma già il primo paragrafo, nella sua complessità, è di una chiarezza disarmante: «La scuola promuove, in collaborazione con la famiglia e con le altre istituzioni educative, lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà». In questa quarantina di parole c’è tutto: si vogliono educare cittadini che non evadono il fisco, che si interessano della cosa pubblica, che hanno i mezzi culturali per crearsi un’opinione autonoma, che praticano instancabilmente l’arte del dubbio, alla ricerca di risposte esaurienti e mai definitive. E ancora: che si appassionano alle arti, alla filosofia e alla storia, che padroneggiano la propria lingua, che sanno evitare le ‘verità dogmatiche’, che conoscono la differenza tra tollerare – verbo infido – e accogliere.

Una volta la scuola dello Stato era consapevole che il compito doveva essere svolto con la famiglia e con altre istituzioni educative. Oggi non si sa, sembra essersene dimenticata. Diego Erba, per tanti anni direttore della Divisione della scuola del DECS, ricordava in un suo articolo che «la democrazia s’impara soprattutto praticandola in famiglia, negli istituti scolastici e quindi nella società». Inventare una nuova disciplina scolastica e obbligatoria, che si affiancherebbe alle finalità della Scuola, è una goffaggine del tutto inutile: anche se, ormai, siamo abituati a tutto.

Vietare non serve a nulla, ma è un bell’alibi quando l’adulto non sa più che pesci pigliare

Il portale TicinoLibero ha dato notizia che tre parlamentari – il popolare democratico Giorgio Fonio, il socialista Henrik Bang e la liberale Maristella Polli – hanno presentato un’interrogazione per chiedere di proibire i cellulari a scuola, mirando ad arginare il fenomeno bullismo.

Scrivono che «Sui telefonini l’assedio si moltiplica per dieci, per cento, per mille. Chi è finito nel mirino ha l’impressione che non ci sia nulla da fare, che sia impossibile difendersi. Nasce un senso di solitudine e di impotenza. La vergogna spesso conduce al silenzio: non si osa parlarne ai genitori, ai docenti. Il ragazzino, l’adolescente, si deprime. Se la cosa si prolunga nel tempo, possono comparire idee suicidarie e in qualche caso la vicenda finisce in tragedia».

La proposta non è una novità assoluta. Già sul finire del 2006 un altro parlamentare liberale, all’epoca pure insegnante di scuola media, aveva chiesto al Consiglio di Stato se non fosse «finalmente intenzionato a proibire totalmente l’uso del telefonino in tutte le scuole obbligatorie del Cantone». Avevo commentato la notizia sul Corriere de Ticino del 12 gennaio 2007: Telefonini a scuola: educare o reprimere?

La mia opinione, oggi che sono passati dieci anni, non è per nulla cambiata, anche se di miglioramenti concreti non se ne sono visti, malgrado la drammaticità di tanti esiti.

A scuola, come in famiglia, certi divieti sono il chiaro segnale di adulti che non sanno più che pesci pigliare: ma i docenti sono professionisti formati e pagati per fare scelte educative  attendibili, a differenza dei genitori. Oso credere che la sparata dei tre parlamentari sia una sorta di sasso nello stagno, per svegliare chi non dovrebbe proprio dormire.

Insomma: e se la scuola ricominciasse a educare e a far cultura, smettendo di essere al traino dell’economia globalizzata? Se la piantasse di essere schiava di una selezione controproducente, iniqua e costosa, e tentasse invece di puntare alle vere finalità della scuola pubblica e obbligatoria?

“Imparare” la cittadinanza non è come mandare a memoria una filastrocca

Comincio con un prologo, a mo’ di cronaca:

  • giusto quattro anni fa un comitato presieduto dall’imprenditore Alberto Siccardi aveva lanciato un’iniziativa popolare legislativa generica denominata «Educhiamo i giovani alla cittadinanza (diritti e doveri)», che in poco tempo aveva raccolto più di 10 mila firme.
  • L’obiettivo principale dell’iniziativa è l’introduzione nelle scuole medie, medie superiori e professionali di una nuova materia di insegnamento denominata «Educazione Civica, alla Cittadinanza e alla Democrazia Diretta» [la maiuscole appartengono dalla dicitura originale] che abbia un proprio testo e un proprio voto separati; tale materia dovrà essere obbligatoria e dovrà essere insegnata per almeno due ore al mese; onde evitare un aumento delle ore totali di insegnamento, e relativi costi, si propone di ricavare il tempo necessario dalle ore di storia.
  • Dopo di che era iniziato il tiramolla tra i promotori, il dipartimento dell’Educazione e il Parlamento.
  • Nei primi mesi di questo 2017 sembrava che si fosse riusciti a trovare il rinomato onorevole compromesso tra i proponenti e la Commissione scolastica del Gran Consiglio. Invece il 18 aprile scorso il primo firmatario dell’iniziativa ha inviato una lunga lettera alla Commissione parlamentare, dove in sostanza si distanzia dall’accordo, che pareva raggiunto, e si mette di traverso: non ci sto.

Non voglio tirarla per le lunghe: chi non ha seguito la disputa che ne è immediatamente scaturita, può farsene un’idea con:

Da quando è iniziata la recita introdotta dall’iniziativa di Siccardi e compagni, non ho letto o sentito un parere, anche solo generico, che invitasse a riflettere sulla concreta utilità della proposta. La gran parte – forse è un eufemismo, ma voglio essere prudente – di chi si è adoperato per cercare un punto d’incontro tra il Parlamento e i promotori dell’iniziativa ha per lo più evocato questioni di costi, di carico eccessivo delle griglie orarie, di equilibrio tra discipline, di peso scolastico per gli studenti, di leggi e norme che limiterebbero l’attuazione delle proposte dei diecimila che hanno seguito Siccardi e il suo comitato policromo.

Ma non ho sentito nessuno dire che le soluzioni prospettate dall’iniziativa per affrontare di petto un problema che è reale – quello di una certa deficienza civica, che peraltro non appartiene solo alle giovani generazioni – sono velleitarie e ignoranti – ignoranti nel senso che ignorano come funziona l’apprendimento di una competenza complessa e mai definitiva come l’educazione alla cittadinanza.

Un breve testo pubblicato su La Regione del 22 aprile (nella rubrica del sabato ALTI-BASSI, che per questa settimana “abbassa” Siccardi) dà per scontato il succo della proposta: Prendete l’insegnamento della Civica a scuola. Chi oserebbe dire che non serve?

Chi oserebbe dire che non serve? Io, ad esempio: da diversi anni sostengo che, di per sé, un corso articolato di educazione civica non serve a un fico secco. In questo sito mi sono occupato più volte, direttamente o meno, di educazione alla cittadinanza e alla democrazia (questo link rimanda a tutti quei miei scritti con il tag «Educazione civica»; e in calce si trova un elenco, in ordine di pubblicazione, di alcuni articoli dedicati espressamente alla questione). In un articolo apparso diversi anni fa su La Regione (purtroppo ho perso la bibliografia precisa), Diego Erba, a quel tempo direttore della Divisione della scuola del DECS, ricordava che “la democrazia s’impara soprattutto praticandola in famiglia, negli istituti scolastici e quindi nella società”. E, se lo si legge bene, l’articolo 2 della Legge della scuola, dedicato alle Finalità, è di per sé un’articolata definizione di educazione alla cittadinanza e alla democrazia, tanto che il volerle accostare una nuova disciplina, con tanto di nota sul libretto, sembra un ossimoro istituzionale e pedagogico.

Per diventare un cittadino consapevole e attivo di questo paese, in questo continente e in questo contesto culturale ci vuol altro che quattro nozioni in croce, per lo più centrate su precetti moralisti di certa democrazia di maniera: perché un conto è pagare le imposte e un altro evadere il fisco; un conto è tollerare – verbo infido – e un altro accogliere; e ancora: interessarsi della cosa pubblica, cercare sempre un’opinione indipendente, praticare instancabilmente il pensiero socratico, appassionarsi alle arti, alla filosofia e alla storia, padroneggiare la propria lingua e il proprio pensiero, evitare come la peste le verità dogmatiche.

Essere un cittadino democratico significa conquistare idealmente quel che c’è nel motto di Piero Gobetti: «Che ho a che fare io con gli schiavi?» Per arrivarci non ci sono scorciatoie, non servono i sotterfugi. Occorre invece l’impegno costante di tutto il sistema formativo, con la scuola nel ruolo di protagonista affidabile, affascinante, sensibile, rigorosa e tenace.

A ’sto punto, però, mi schiero anch’io con la volontà di Siccardi, così sintetizzata dal Corriere del Ticino del 22 aprile: «Sulla civica si andrà al voto». Forza. Così, durante la campagna in vista della votazione, vedremo se si riuscirà a (ri)scoprire una terza via, alla larga da quel determinismo didattico, secondo cui si può insegnare il senso dello Stato come se si trattasse di mandare a memoria le caselline, e, nel contempo, lasciando perdere le ragioni-alibi tipiche di chi ha solo un vago sentore di ciò di cui sta dibattendo, e s’attacca ai costi, ai codicilli e a qualche altra amenità.


Ecco i principali articoli sul tema

Un ministro quantomeno espressivo

Più di vent’anni fa, quand’ero ancora direttore di scuola, ebbi uno scontro abbastanza veemente con un gruppo di insegnanti del «mio» istituto. Qualcuno, non ricordo chi [me lo ricordo bene, in realtà, ma non è importante], chiese se l’intercalare cazzo potesse o meno essere accettato nel parlare comune dei nostri allievi. Per quel che credo e credevo, non accettavo (né accetterei oggi) che un allievo dicesse in classe – che so? – ma insomma, cazzo!, stavamo giocando la partita durante la ricreazione e, cazzo!, Federico non passava mai la palla, cazzo!, tanto che abbiamo perso 3 a 1. Cazzo!

Mi sentirei di spiegare che, pur nella concitazione del momento, si potrebbero trovare forme espressive più adeguate alla situazione “istituzionle”, e pure alla lingua italiana.

In quegli anni avviammo un progetto d’istituto che aveva come obiettivo prioritario il rafforzamento dell’insegnamento dell’italiano. Così, nel novembre del 2010, invitammo il prof. Dario Corno, che era stato per diversi anni docente alla Magistrale e che, in quell’anno, insegnava all’Università del Piemonte Orientale. Tenne una conferenza intitolata «Il genio dell’italiano. Come e perché è necessario insegnare la nostra lingua, oggi più di ieri», durante la quale descrisse con dovizia di particolari, e basandosi su un esempio eccellente, la forza espressiva della lingua italiana.

Il suo carico morfologico è notevole – disse – ma soprattutto la nostra lingua ha notevoli possibilità di modulazione per significare lo stesso concetto. (…) Vediamo di cogliere questo aspetto valutando i diversi modi che l’italiano presenta per comunicare l’idea dell’arrabbiarsi. In italiano si può dire abbrutirsi, accendersi, accigliarsi, adombrarsi, adontarsi, aggrondarsi, alterarsi, andare in bestia, andare in collera, annuvolarsi, arrabbiarsi, aversela a male, corrucciarsi, disumanarsi, esacerbarsi, esasperarsi, formalizzarsi, fremere, imbestialirsi, imbronciarsi, imbufalirsi, immusonirsi, impazientirsi, impennarsi, impermalirsi, inalberarsi, incagnarsi, incappellarsi, incavolarsi, incollerirsi, indemoniarsi, indignarsi, indispettirsi, inferocirsi, infuriarsi, ingrugnarsi, inquietarsi, inviperirsi, irritarsi, montare in bestia, perdere il lume degli occhi, perdere il lume della ragione, piccarsi, pigliarsela, prendersela (a male), rabbuiarsi, risentirsi, sdegnarsi, spazientirsi, stizzirsi, ma anche incazzarsi o, più perifrasticamente, “avere il giramento di…” (stando allo standard medio attuale per cui i giovani lamentevomente non si arrabbiano più, si incazzano e basta…).

Per correttezza, e per non atteggiarsi al moralista che non è, aveva citato Vincenzo Mengaldo, filologo italiano, secondo il quale la scelta di un registro “puristico” che porta l’insegnante a correggere arrabbiarsi in adirarsi o indignarsi (fare in eseguire, o svolgere, di più in maggiormente, andare a letto in coricarsi, lui lei loro in egli essa essi, e così via), a spiegare che lo spostamento della lingua dalla letteratura alla scuola fosse più o meno ineluttabile, benché, almeno pedagogicamente, da dibattere.

Sostengo da tanti anni, pressoché incessantemente, che, oltre alla famiglia e alla scuola, altri protagonisti siano oggi responsabili dell’educazione delle future generazioni, con intensità sempre maggiore: penso all’influenza dei personaggi dello sport e dello spettacolo, ma anche dei politici e dei tanti che, per un verso o per l’altro, hanno un impatto persuasivo sull’opinione pubblica attraverso quel che dicono e quel che fanno, e in base allo spazio massiccio che vien loro dedicato dai media: l’ha detto la radio, l’ho visto in TV, c’era sul giornale…

Giovedì 14 aprile sono finito, un po’ casualmente, sul programma «Nemo – Nessuno escluso», di Rai 2, canale nazionale della televisione di Stato italiana. Stavo pigiando il tasto del telecomando, per continuare pigramente lo zapping, quando, con un po’ di sorpresa, è sbucata la prima pagina del Mattino della domenica, l’organo dei leghisti nostrani. E, com’è ovvio, ho seguito il reportage.

C’è, a un certo punto, un’intervista al ministro Norman Gobbi, citata, fino al momento in cui scrivo, da Liberatv e da Ticinolibero. L’intero servizio può essere seguito a questo indirizzo, a partire, più o meno, dal minuto 23.

L’intervista al Ministro è sufficientemente breve e raggelante da poterla trascrivere:

MINISTRO: Sa quanti lavoratori transfrontalieri abbiamo in Canton Ticino? 63 mila.

GIORNALISTA: 63’000.

MINISTRO: Sono un lavoratore su quattro in Canton Ticino. Dieci anni fa erano la metà. E questo è un problema per noi, perché l’Italia ha un problema socio-economico, è un problema che non riesce più a ripartire dal 2008.

GIORNALISTA: E se gli italiani vengono a lavorare qua è un problema per voi?

MINISTRO: Per noi è un problema sicuramente, perché abbiamo tanti giovani che non riescono a trovare un posto di lavoro

GIORNALISTA: Quant’è il tasso di disoccupazione?

MINISTRO: È sicuramente più basso di quello dell’Italia.

GIORNALISTA: Quant’è?

MINISTRO: Oggi siamo circa al 3% per il Ticino.

GIORNALISTA: Certo che visto dall’Italia ’sta cosa…

MINISTRO: Noi guardiamo per noi, voi guardate per voi.

GIORNALISTA: Senta, ma secondo lei c’è un sentimento anti-italiano da parte del vostro partito?

MINISTRO: Da parte dei ticinesi? Venga una volta a vedere quando gioca la Svizzera contro l’Italia, come sono gli animi nel Canton Ticino.

GIORNALISTA: Come sono?

MINISTRO: Molto accesi.

GIORNALISTA: Dell’Italia cosa pensa?

MINISTRO: L’Italia è uno splendido paese. Punto.

GIORNALISTA: Punto?

MINISTRO: Punto. Non ho detto nazione, ma paese.

GIORNALISTA: Cioè? Cioè che vuol dire?

MINISTRO: Non dico più un cazzo.

Non voglio fare il moralista, ma il men che si possa dire è che il nostro Ministro delle Istituzioni ha un approccio decisamente espressivo alla lingua italiana. Può capitare a chicchessia di perdere le staffe e di sbroccare, per usare un verbo riportato in auge proprio dal domenicale della Lega. Ma a un ministro della Repubblica è lecito chiedere almeno quel minimo di dignità.

C***o!, come ha sottotitolato la Rai.

Sarò un ticinese anomalo, ma mi vergogno.

Il lavoro di crescere nel colloquio con due scrittori

Questo articolo è stato pubblicato dal Corriere del Ticino del 7 aprile 2017. Esso si riferisce a un incontro promosso dal DFA/SUPSI (Invito a una bella serata…). Contrariamente alle mie abitudini, in calce al testo si trovano alcuni documenti interessanti, che testimoniano alcuni aspetti di questa giornata.


Ho avuto l’opportunità, qualche giorno fa, di accompagnare per l’intera giornata due scrittori che hanno parlato di sé, del proprio lavoro e di due loro romanzi con un gruppo di allievi di III e IV media di Locarno, per poi chiudere la giornata con un pubblico di adulti: una platea piuttosto rada, per la serie «pochi ma buoni». Paolo Di Stefano, scrittore e inviato del Corriere della Sera, e Daniele Dell’Agnola, insegnante e scrittore, si sono messi in gioco prendendo le mosse dai loro recenti romanzi «I pesci devono nuotare» e «Anche i bruchi volano». Sono rimasto piacevolmente sorpreso dalle ragazze e dai ragazzi, incontrati in due gruppi piuttosto numerosi: per quasi due ore hanno seguito attentamente il colloquio tra i due scrittori, intercalati dalla lettura di alcune pagine particolarmente significative con la voce affascinante di Sara Giulivi, ricercatrice e docente della SUPSI con la passione per il teatro.

I temi dei due romanzi hanno innescato un fiume impetuoso e variegato di peripezie attuali e toccanti: emozioni accese dalle storie – quella di Selim, il ragazzo egiziano che giunge in Sicilia sui famigerati barconi, che poi scappa a Milano e mette in gioco tutta la sua fierezza per imparare bene l’italiano, che lui intuisce essere una chiave di integrazione fondamentale: perché i pesci devono nuotare e ne hanno pure il sacrosanto diritto. E quella di Felix, adolescente che vive in un posto che c’è e non c’è, iperattivo e dislessico, che lotta per sottrarsi alla scuola, dove gli impongono il Ritalin «con la speranza di farti diventare un uomo forte», mentre «la verità è che vogliono tenerci sotto controllo, a noi iperattivi»: Felix, che ama le farfalle e odia i bruchi. I due scrittori hanno preso molto sul serio il loro pubblico di quattordicenni, proponendo temi difficili e rispondendo a domande altrettanto complicate, perché la realtà è quella lì. Si è capito che la platea si era preparata bene e che reagiva con intensità al mare di sollecitazioni che la travolgeva attraverso la letteratura: un’arte, come ha sottolineato Di Stefano, che esige fatica e impegno a chi scrive e a chi legge, e non dà risposte prêt-à-porter ai grandi interrogativi: ma sparge dubbi, stimola la riflessione, invita a scelte consapevoli, forse mai definitive.

Mi sono chiesto, mentre andavo all’ex convento di Piazza San Francesco per l’incontro col pubblico degli adulti, quale magia aveva potuto generare la tensione di quella decina di classi di scuola media, che aveva incontrato i due intellettuali senza passare attraverso esami e selezioni di idoneità. Credo di avere individuato due fattori decisivi: si è discusso di cose difficili, ma con la serietà e il rispetto dovuto ai giovani interlocutori; e non ci si è lasciati sedurre dal facile giochino dei verdetti da parte di chi tiene il coltello per il manico e sente il bisogno incessante di sancire cosa è giusto e cosa è sbagliato. Con quei bei pensieri sono arrivato alla Magistrale, in un’aula magna quasi deserta. Non c’erano i futuri insegnanti a far la calca per entrare e conquistare i posti migliori. Ma questa, naturalmente, è un’altra storia, sulla quale converrebbe riflettere. Però è utile osservare che anche quest’ultimo incontro, condotto con spigliata competenza da Christelle Campana, volto noto del nostro TG, è stato degno del pubblico appassionato col quale, nelle ore precedenti, si erano costruiti pensieri importanti.


Qui si può scaricare la copia del mio articolo così com’è apparso sul Corriere del Ticino del 7 aprile 2017, a pagina 30.

Nel sito del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI è possibile trovare un bell’articolo pubblicato da Daniele Dell’Agnola su La Regione del 1° aprile (La pazienza per resistere), nonché una galleria di immagini.

Il programma Turné della RSI ha mandato in onda un servizio, che si può guardare qui (Pesci, bruchi e Wunderkammer, a partire da 12’ 20”).

Nel sito del Corriere della Sera, per terminare, si può leggere un bell’articolo di Paolo Di Stefano – I libri si amano con meno chiacchiere e più lettura – un testo che ha contribuito alla messa a punto dell’incontro locarnese del 30 marzo.