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Un ministro quantomeno espressivo

Più di vent’anni fa, quand’ero ancora direttore di scuola, ebbi uno scontro abbastanza veemente con un gruppo di insegnanti del «mio» istituto. Qualcuno, non ricordo chi [me lo ricordo bene, in realtà, ma non è importante], chiese se l’intercalare cazzo potesse o meno essere accettato nel parlare comune dei nostri allievi. Per quel che credo e credevo, non accettavo (né accetterei oggi) che un allievo dicesse in classe – che so? – ma insomma, cazzo!, stavamo giocando la partita durante la ricreazione e, cazzo!, Federico non passava mai la palla, cazzo!, tanto che abbiamo perso 3 a 1. Cazzo!

Mi sentirei di spiegare che, pur nella concitazione del momento, si potrebbero trovare forme espressive più adeguate alla situazione “istituzionle”, e pure alla lingua italiana.

In quegli anni avviammo un progetto d’istituto che aveva come obiettivo prioritario il rafforzamento dell’insegnamento dell’italiano. Così, nel novembre del 2010, invitammo il prof. Dario Corno, che era stato per diversi anni docente alla Magistrale e che, in quell’anno, insegnava all’Università del Piemonte Orientale. Tenne una conferenza intitolata «Il genio dell’italiano. Come e perché è necessario insegnare la nostra lingua, oggi più di ieri», durante la quale descrisse con dovizia di particolari, e basandosi su un esempio eccellente, la forza espressiva della lingua italiana.

Il suo carico morfologico è notevole – disse – ma soprattutto la nostra lingua ha notevoli possibilità di modulazione per significare lo stesso concetto. (…) Vediamo di cogliere questo aspetto valutando i diversi modi che l’italiano presenta per comunicare l’idea dell’arrabbiarsi. In italiano si può dire abbrutirsi, accendersi, accigliarsi, adombrarsi, adontarsi, aggrondarsi, alterarsi, andare in bestia, andare in collera, annuvolarsi, arrabbiarsi, aversela a male, corrucciarsi, disumanarsi, esacerbarsi, esasperarsi, formalizzarsi, fremere, imbestialirsi, imbronciarsi, imbufalirsi, immusonirsi, impazientirsi, impennarsi, impermalirsi, inalberarsi, incagnarsi, incappellarsi, incavolarsi, incollerirsi, indemoniarsi, indignarsi, indispettirsi, inferocirsi, infuriarsi, ingrugnarsi, inquietarsi, inviperirsi, irritarsi, montare in bestia, perdere il lume degli occhi, perdere il lume della ragione, piccarsi, pigliarsela, prendersela (a male), rabbuiarsi, risentirsi, sdegnarsi, spazientirsi, stizzirsi, ma anche incazzarsi o, più perifrasticamente, “avere il giramento di…” (stando allo standard medio attuale per cui i giovani lamentevomente non si arrabbiano più, si incazzano e basta…).

Per correttezza, e per non atteggiarsi al moralista che non è, aveva citato Vincenzo Mengaldo, filologo italiano, secondo il quale la scelta di un registro “puristico” che porta l’insegnante a correggere arrabbiarsi in adirarsi o indignarsi (fare in eseguire, o svolgere, di più in maggiormente, andare a letto in coricarsi, lui lei loro in egli essa essi, e così via), a spiegare che lo spostamento della lingua dalla letteratura alla scuola fosse più o meno ineluttabile, benché, almeno pedagogicamente, da dibattere.

Sostengo da tanti anni, pressoché incessantemente, che, oltre alla famiglia e alla scuola, altri protagonisti siano oggi responsabili dell’educazione delle future generazioni, con intensità sempre maggiore: penso all’influenza dei personaggi dello sport e dello spettacolo, ma anche dei politici e dei tanti che, per un verso o per l’altro, hanno un impatto persuasivo sull’opinione pubblica attraverso quel che dicono e quel che fanno, e in base allo spazio massiccio che vien loro dedicato dai media: l’ha detto la radio, l’ho visto in TV, c’era sul giornale…

Giovedì 14 aprile sono finito, un po’ casualmente, sul programma «Nemo – Nessuno escluso», di Rai 2, canale nazionale della televisione di Stato italiana. Stavo pigiando il tasto del telecomando, per continuare pigramente lo zapping, quando, con un po’ di sorpresa, è sbucata la prima pagina del Mattino della domenica, l’organo dei leghisti nostrani. E, com’è ovvio, ho seguito il reportage.

C’è, a un certo punto, un’intervista al ministro Norman Gobbi, citata, fino al momento in cui scrivo, da Liberatv e da Ticinolibero. L’intero servizio può essere seguito a questo indirizzo, a partire, più o meno, dal minuto 23.

L’intervista al Ministro è sufficientemente breve e raggelante da poterla trascrivere:

MINISTRO: Sa quanti lavoratori transfrontalieri abbiamo in Canton Ticino? 63 mila.

GIORNALISTA: 63’000.

MINISTRO: Sono un lavoratore su quattro in Canton Ticino. Dieci anni fa erano la metà. E questo è un problema per noi, perché l’Italia ha un problema socio-economico, è un problema che non riesce più a ripartire dal 2008.

GIORNALISTA: E se gli italiani vengono a lavorare qua è un problema per voi?

MINISTRO: Per noi è un problema sicuramente, perché abbiamo tanti giovani che non riescono a trovare un posto di lavoro

GIORNALISTA: Quant’è il tasso di disoccupazione?

MINISTRO: È sicuramente più basso di quello dell’Italia.

GIORNALISTA: Quant’è?

MINISTRO: Oggi siamo circa al 3% per il Ticino.

GIORNALISTA: Certo che visto dall’Italia ’sta cosa…

MINISTRO: Noi guardiamo per noi, voi guardate per voi.

GIORNALISTA: Senta, ma secondo lei c’è un sentimento anti-italiano da parte del vostro partito?

MINISTRO: Da parte dei ticinesi? Venga una volta a vedere quando gioca la Svizzera contro l’Italia, come sono gli animi nel Canton Ticino.

GIORNALISTA: Come sono?

MINISTRO: Molto accesi.

GIORNALISTA: Dell’Italia cosa pensa?

MINISTRO: L’Italia è uno splendido paese. Punto.

GIORNALISTA: Punto?

MINISTRO: Punto. Non ho detto nazione, ma paese.

GIORNALISTA: Cioè? Cioè che vuol dire?

MINISTRO: Non dico più un cazzo.

Non voglio fare il moralista, ma il men che si possa dire è che il nostro Ministro delle Istituzioni ha un approccio decisamente espressivo alla lingua italiana. Può capitare a chicchessia di perdere le staffe e di sbroccare, per usare un verbo riportato in auge proprio dal domenicale della Lega. Ma a un ministro della Repubblica è lecito chiedere almeno quel minimo di dignità.

C***o!, come ha sottotitolato la Rai.

Sarò un ticinese anomalo, ma mi vergogno.

Il lavoro di crescere nel colloquio con due scrittori

Questo articolo è stato pubblicato dal Corriere del Ticino del 7 aprile 2017. Esso si riferisce a un incontro promosso dal DFA/SUPSI (Invito a una bella serata…). Contrariamente alle mie abitudini, in calce al testo si trovano alcuni documenti interessanti, che testimoniano alcuni aspetti di questa giornata.


Ho avuto l’opportunità, qualche giorno fa, di accompagnare per l’intera giornata due scrittori che hanno parlato di sé, del proprio lavoro e di due loro romanzi con un gruppo di allievi di III e IV media di Locarno, per poi chiudere la giornata con un pubblico di adulti: una platea piuttosto rada, per la serie «pochi ma buoni». Paolo Di Stefano, scrittore e inviato del Corriere della Sera, e Daniele Dell’Agnola, insegnante e scrittore, si sono messi in gioco prendendo le mosse dai loro recenti romanzi «I pesci devono nuotare» e «Anche i bruchi volano». Sono rimasto piacevolmente sorpreso dalle ragazze e dai ragazzi, incontrati in due gruppi piuttosto numerosi: per quasi due ore hanno seguito attentamente il colloquio tra i due scrittori, intercalati dalla lettura di alcune pagine particolarmente significative con la voce affascinante di Sara Giulivi, ricercatrice e docente della SUPSI con la passione per il teatro.

I temi dei due romanzi hanno innescato un fiume impetuoso e variegato di peripezie attuali e toccanti: emozioni accese dalle storie – quella di Selim, il ragazzo egiziano che giunge in Sicilia sui famigerati barconi, che poi scappa a Milano e mette in gioco tutta la sua fierezza per imparare bene l’italiano, che lui intuisce essere una chiave di integrazione fondamentale: perché i pesci devono nuotare e ne hanno pure il sacrosanto diritto. E quella di Felix, adolescente che vive in un posto che c’è e non c’è, iperattivo e dislessico, che lotta per sottrarsi alla scuola, dove gli impongono il Ritalin «con la speranza di farti diventare un uomo forte», mentre «la verità è che vogliono tenerci sotto controllo, a noi iperattivi»: Felix, che ama le farfalle e odia i bruchi. I due scrittori hanno preso molto sul serio il loro pubblico di quattordicenni, proponendo temi difficili e rispondendo a domande altrettanto complicate, perché la realtà è quella lì. Si è capito che la platea si era preparata bene e che reagiva con intensità al mare di sollecitazioni che la travolgeva attraverso la letteratura: un’arte, come ha sottolineato Di Stefano, che esige fatica e impegno a chi scrive e a chi legge, e non dà risposte prêt-à-porter ai grandi interrogativi: ma sparge dubbi, stimola la riflessione, invita a scelte consapevoli, forse mai definitive.

Mi sono chiesto, mentre andavo all’ex convento di Piazza San Francesco per l’incontro col pubblico degli adulti, quale magia aveva potuto generare la tensione di quella decina di classi di scuola media, che aveva incontrato i due intellettuali senza passare attraverso esami e selezioni di idoneità. Credo di avere individuato due fattori decisivi: si è discusso di cose difficili, ma con la serietà e il rispetto dovuto ai giovani interlocutori; e non ci si è lasciati sedurre dal facile giochino dei verdetti da parte di chi tiene il coltello per il manico e sente il bisogno incessante di sancire cosa è giusto e cosa è sbagliato. Con quei bei pensieri sono arrivato alla Magistrale, in un’aula magna quasi deserta. Non c’erano i futuri insegnanti a far la calca per entrare e conquistare i posti migliori. Ma questa, naturalmente, è un’altra storia, sulla quale converrebbe riflettere. Però è utile osservare che anche quest’ultimo incontro, condotto con spigliata competenza da Christelle Campana, volto noto del nostro TG, è stato degno del pubblico appassionato col quale, nelle ore precedenti, si erano costruiti pensieri importanti.


Qui si può scaricare la copia del mio articolo così com’è apparso sul Corriere del Ticino del 7 aprile 2017, a pagina 30.

Nel sito del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI è possibile trovare un bell’articolo pubblicato da Daniele Dell’Agnola su La Regione del 1° aprile (La pazienza per resistere), nonché una galleria di immagini.

Il programma Turné della RSI ha mandato in onda un servizio, che si può guardare qui (Pesci, bruchi e Wunderkammer, a partire da 12’ 20”).

Nel sito del Corriere della Sera, per terminare, si può leggere un bell’articolo di Paolo Di Stefano – I libri si amano con meno chiacchiere e più lettura – un testo che ha contribuito alla messa a punto dell’incontro locarnese del 30 marzo.

La scuola che verrà in un servizio del domenicale «Il caffè», con intervista al sottoscritto…

Nel suo numero del 2 aprile il domenicale Il caffè ha pubblicato un’inchiesta abbastanza esaustiva sugli umori del Paese nei confronti del progetto La scuola che verrà, di cui ho più volte parlato in questo sito sin dalla sua prima presentazione, nel dicembre del 2014.

L’ampio servizio si apre con una sintesi critica dell’inchiesta, firmata dal giornalista Clemente Mazzetta: «Ecco quale scuola vogliamo nel futuro». Poco sotto, arriva il commento del direttore del DECS Manuele Bertoli: «Investire nella scuola è investire nella società».

L’intero servizio, naturalmente, lo si può consultare nel sito del domenicale: http://www.caffe.ch/.

Come mi era già successo altre volte, anche in questo frangente sono stato interpellato dal giornalista, che ha pubblicato l’intervista col titolo generale Rigozzi e Tomasini sulla “scuola che verrà”. Ex direttori scolastici a confronto. Naturalmente è stato impossibile, per il giornalista, riportare per intero la nostra chiacchierata (mezz’oretta nel pomeriggio del 22 marzo). Così voglio concedermi il gioco di completare o commentare quell’intervista, distinguendo le domande del giornalista, le mie risposte e i miei commenti successivi.


È una battaglia da combattere ma evitando scontri partitici

«La scuola dell’obbligo ha bisogno di serenità. E deve essere sganciata dal continuo richiamo al mondo del lavoro. Anche perché non sappiamo quali potranno essere le competenze che fra 15 anni saranno richieste dalla società», sostiene Adolfo Tomasini, ex direttore della scuola elementare di Locarno.

Il Corriere del Ticino del 10 febbraio scorso aveva pubblicato una lunga intervista al prof. Emanuele Caranzano, direttore del Dipartimento tecnologie innovative alla SUPSI, dove tra l’altro si leggeva che «il 65% di coloro che oggi hanno 12 anni faranno dei lavori che oggi non esistono. In altre parole, tra 10 anni più della metà dei lavori saranno attività che ancora non ci sono». Si provi allora a immaginare queste percentuali ipotetiche se le volessimo applicare a quei bimbi che hanno iniziato la scuola dell’obbligo nel settembre scorso, a quattro anni, e che i vent’anni li compiranno nel 2028 o giù di lì.

Che impressione ha avuto leggendo la riforma della scuola?

Che pone degli obiettivi condivisibili. L’abolizione dei livelli e della media per l’accesso al liceo, il tutto all’interno di una scuola di qualità è una battaglia che si deve fare. Ma con intelligenza, evitando lo scontro ideologico e partitico.

Come ho scritto più e più volte, all’origine del progetto La scuola che verrà c’è una scelta schiettamente e fatalmente ideologica, che condivido. Ancora di recente ho scritto che «nessuno ha il coraggio di porre l’unica domanda fondamentale, che impone una risposta serena e trasparente: che scuola vogliamo? Una scuola per la democrazia e il Paese oppure al servizio dell’economia? In altre parole, desideriamo educare cittadini o selezionare e formare lavoratori?» (Una scelta per la scuola del Paese che verrà, Corriere del Ticino del 22.12.2016). Va da sé che io pendo con forza per una scuola dell’obbligo che educa cittadini democratici.

La riforma promuove una scuola equa e inclusiva. È sostenibile?

Sì, ma bisogna capirci bene sul termine inclusività.

Rimando al mio scritto «L’inclusione tra sogni e realtà», del 5 ottobre 2014.

L’obiettivo egualitaristico della riforma è forse troppo… egualitario?

Macché. Se per pari opportunità si intende che tutti possono andare a scuola, questa pari opportunità non significa niente. Anche l’ultima analisi statistica de “La scuola a tutto campo” (Supsi, 2015) ha ricordato come la condizione socioeconomica di appartenenza dei ragazzi resti una variabile importante nel fallimento scolastico. E se esiste ancora questa situazione, ha ragione Bertoli: qualcosa bisogna fare.

Nel merito è favorevole all’abolizione dei livelli?

Senza dubbio. Creano una divisione fittizia.

Tra l’altro parliamo di ragazzine e ragazzini di 12/13 anni.

Favorevole anche all’abolizione della media del 4.65?

Sì. È una media inventata. La prova che non serve a nulla è data dal fatto che oggi il 30% dei ragazzi che entrano nel liceo viene bocciato. Occorre invece mettere il ragazzo nella condizione di fare delle scelte consapevoli.

Nell’introduzione al servizio, Clemente Mazzetta ha ripreso una mia domanda, naturalmente retorica, che rimanda proprio a questa necessità di togliere di mezzo i livelli. Scrive: «Del resto come rispondere all’interrogativo dell’ex direttore della scuola media [comunale, in verità]  di Locarno Adolfo Tomasini (vedi intervista a lato) quando chiede di spiegargli “come fa uno a diventare ingegnere Supsi (cosa possibile partendo dall’apprendistato), dopo aver mancato la possibilità di iscriversi al liceo per non aver raggiunto il fatidico 4.65?” Per dire che ’sto 4.65, che è tutto fuorché una media matematica, dice solo che in quel momento lì quel/la giovane aveva un rendimento scolastico di poco superiore al quattro e mezzo.

Quando leggo che bisognerebbe innalzare la soglia del 4.65 per l’accesso alla scuola media superiore mi vengono i brividi, perché è un salto indietro pauroso: quella sarebbe una scuola per la pura e semplice crescita economica, a vantaggio di pochi, mica per il consolidamento della democrazia. Peggio dell’attuale, dunque.

La riforma non prevede troppi compiti per i docenti?

Forse sì. Ma non è questo il problema più importante. Del resto non ci sono soluzioni magiche.

Il compito primario dei docenti è quello di insegnare. Per insegnare bisogna conoscere bene ciò che si insegna (competenze disciplinari) e come si insegna (competenze professionali). Insegnare significa, grosso modo, “lasciare un segno”. L’insegnante professionalmente irreprensibile è quello che ‘non molla l’osso’, è quello che fa tutto il possibile per portare ogni allievo al limite massimo delle sue possibilità, senza perdere troppo tempo con esami e test reiterati (che, come già diceva Don Lorenzo Milani, è tempo rubato all’insegnamento).

La si smetta, insomma, con la storiella che l’egualitarismo porta automaticamente al livellamento delle menti, naturalmente verso il basso. La metafora trita e ritrita della siepe va bene solo per chi non sa o non vuole insegnare, cioè lasciare dei segni tangibili.

La ritiene una riforma economicamente sopportabile?

Non saprei. Ma mi urta questa concezione che vede ogni cambiamento come fonte di spesa, forse bisognerebbe verificare se si impiegano bene ora le risorse disponibili. Piuttosto il problema è di sostenibilità politica della riforma. Il Plrt si è pronunciato chiedendo un innalzamento dei livelli, più selezione. La Lega, con Lorenzo Quadri ha sostenuto che quello che si insegna a scuola deve essere deciso dal mercato, non da pedagogisti.

Il riferimento preciso torna alla campagna elettorale per il rinnovo dei poteri cantonali del 2011. Lorenzo Quadri, sul Mattino del 20 marzo, scrisse: «La scuola non potrà esimersi da un riorientamento nell’ottica di quelle che sono le richieste del mercato del lavoro. È evidente che le professioni “d’ufficio” sono sature. Mancano risorse nell’arti­gia­nato, nell’edilizia, nel sociosanitario. Altra misura necessaria: si metta il numero chiuso alle formazioni “letterarie” ed “artistiche” prive di sbocchi professionali».

Ma così la scuola dell’obbligo dovrebbe formare lavoratori non cittadini?

Sono convinto che in molti Paesi europei c’è una scuola per la crescita economica e non per il rafforzamento della democrazia. Ma non è con il corso di civica che risolviamo il senso civico dei cittadini.

Ha scritto la filosofa americana Martha C. Nussbaum: «Le nazioni sono sempre più attratte dall’idea del profitto; esse e i loro sistemi scolastici stanno accantonando, in maniera del tutto scriteriata, quei saperi che sono indispensabili a mantenere viva la democrazia. Se questa tendenza si protrarrà, i paesi di tutto il mondo ben presto produrranno generazioni di docili macchine anziché cittadini a pieno titolo, in grado di pensare da sé, criticare la tradizione e comprendere il significato delle sofferenze e delle esigenze delle altre persone. Il futuro delle democrazie di tutto il mondo è appeso a un filo.

Quali sono questi cambiamenti radicali? Gli studi umanistici e artistici vengono ridimensionati, nell’istruzione primaria e secondaria come in quella universitaria, praticamente in ogni paese del mondo. Visti dai politici come fronzoli superflui, in un’epoca in cui le nazioni devono tagliare tutto ciò che pare non serva a restare competitivi sul mercato globale, essi stanno rapidamente sparendo dai programmi di studio, così come dalle teste e dai cuori di genitori e allievi. In realtà, anche quelli che potremmo definire come gli aspetti umanistici della scienza e della scienza sociale – l’aspetto creativo, inventivo, e quello di pensiero critico, rigoroso – stanno perdendo terreno, dal momento che i governi preferiscono inseguire il profitto a breve termine garantito dai saperi tecnico-scientifici più idonei a tale scopo». [Martha C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, 2011, Bologna: Il Mulino].

È un palliativo?

Peggio. Si illudono le persone. Così come si illudono i ragazzi nel dire loro che se imparano dieci lingue a scuola poi si troveranno bene.

Ho scritto più volte dell’impegno esagerato e un poco fuorviante legato alla politica di insegnamento delle lingue. Mi piace citare due scritti: I nostri figli sapranno tutti l’inglese: per dirsi cosa? (25.10.2006) e Mi ha piaciuto molto!… (06.10.2004).

Morale?

Qualcosa bisogna fare. Occorre ripensare la scuola. Ma il clima politico di questo momento non è certo il migliore; c’è il rischio di fare due passi indietro.

Invito a una bella serata: un incontro con due scrittori che discutono del lavoro di crescere

Ne parlo anche perché ci ho ficcato il naso.

Lo so, è una brutta abitudine quella di mettere il becco nelle faccende altrui. E sì, concordo: mi si può inquisire per correità.

A mia discolpa posso dire che è bello lavorare con gli amici del DILS, il Centro competenze didattica dell’italiano lingua di scolarizzazione, di cui è responsabile Simone Fornara.

Parto dal centro: l’appuntamento è per giovedì 30 marzo alle 17.30, nell’aula magna dell’ex scuola magistrale cantonale, in Piazza San Francesco a Locarno, dov’è in programma un incontro che sarà nel contempo simpatico e di grande interesse.

Titolo: Il lavoro di crescere nel colloquiotra due scrittori.

Protagonisti: due scrittori, due romanzi, una conduttrice e una lettrice. E poi il pubblico, che mi auguro numeroso e appassionato.


Paolo Di Stefano (Avola, 1956) è inviato speciale del Corriere della Sera. È autore di numerosi romanzi tra cui «Baci da non ripetere» (1994), «Azzurro troppo azzurro» (1996, Premio Grinzane Cavour), «Tutti contenti» (2003, Superpremio Vittorini e Superpremio Flaiano), «Aiutami tu» (2005, SuperMondello), «La catastròfa» (2011, Premio Volponi), «Giallo d’Avola» (2013, Premio Viareggio-Rèpaci), «Ogni altra vita» (2015, Premio Bagutta), «I pesci devono nuotare» (2016).

Daniele Dell’Agnola, classe 1976, è docente alla SUPSI, insegnante di italiano alle medie, autore di romanzi, tra i quali «Melinda se ne infischia» (2008), «Baciare non è come aprire una scatoletta di tonno» (2014, con pièce teatrale tradotta in francese e tedesco), «Anche i bruchi volano» (2016). Ha ideato per il Corriere del Ticino la rubrica di narrativa Il bidello Ulisse, che è diventato un format su Teleticino, dove presenta libri per bambini e ragazzi.

Di Stefano narra una storia vera, quella di Selim, un ragazzo egiziano che, con l’incoscienza e la forza dei suoi diciassette anni, attraversa il deserto e la Libia, fino a raggiungere il mare e imbarcarsi per l’Italia. Dopo fatiche, stenti e preghiere sussurrate, il viaggio lo conduce in Sicilia, insieme a centinaia di migranti in cerca di sogni. Il suo è il più grande e ambizioso: vuole un riscatto dall’infanzia che si è lasciato alle spalle, parlare l’italiano meglio degli italiani, costruirsi un futuro. Selim, a Milano, non è solo. Dentro e accanto alla sua vita ne scorrono altre, meno luminose ma altrettanto esemplari: la dolce Marlene, il ruvido Raymon, l’amico Tawfik e alcuni misteriosi angeli protettori, in un mondo che cambia velocemente, dove si innalzano barriere per difendersi da ciò che non conosciamo.

Anche la storia di Dell’Agnola parla di adolescenti, ragazzi e ragazze in bilico tra una fanciullezza più o meno felice e un’età adulta misteriosa e che può intimorire. Felix, dodicenne in affanno, iperattivo e ribelle, vive in un quartiere ai margini della città. Ama la cultura, odia la scuola e Marcello Porcello, figlio del pediatra che gli somministra metilfenidato come fosse cioccolata. Si rifiuta di frequentare la scuola, così è seguito da un’orda di psicologi, pedagogisti, medici e specialisti, che lui definisce i «draghi drugugubri». Un giorno incontra Alice, misteriosa ragazzina piuttosto vivace. Con lei e altri amici vivranno una metamorfosi grazie ad avventure e tragedie, alle prime esperienze sessuali e al desiderio di scontrarsi, misurarsi… e volare.

Christelle Campana, giornalista del TG della Radiotelevisione svizzera, sarà la conduttrice della serata.

 

 

 

Sara Giulivi, docente e ricercatrice al DFA della SUPSI, che ha alle spalle una formazione come attrice presso il Centro Teatro Internazionale di Firenze, leggerà alcune pagine significative dei due romanzi.

 

Spero davvero di salutare un pubblico numeroso, perché ne varrà la pena.

La cartella dell’allievo e la statua di Pigmalione

Ovidio, nelle Metamorfosi, racconta che lo scultore Pigmalione, «con arte invidiabile, scolpì nel bianco avorio una statua, infondendole tale bellezza, che nessuna donna vivente era in grado di vantare: e s’innamorò dell’opera sua», sognando che un giorno si animasse. Così, quando venne la festa di Venere, depose le offerte accanto all’altare e disse: «O dei, se è vero che tutto potete concedere, vorrei in moglie una donna uguale alla mia d’avorio». Venere esaudì la preghiera e Pigmalione, tornato a casa, vide la statua animarsi a poco a poco, respirare e spalancare i suoi occhi bellissimi.

Étienne Maurice Falconet (1716-1791), Pygmalion et Galaté (1763), marmo, Museo dell’Ermitage a San Pietroburgo

In educazione è noto l’«effetto Pigmalione», così definito cinquant’anni fa da due studiosi, Rosenthal e Jacobson, che idearono un esperimento singolare: selezionarono a caso un certo numero di ragazzi di scuola elementare e dissero agli insegnanti che si trattava di alunni molto intelligenti. Dopo un anno tornarono in quella scuola e verificarono che i loro «genietti», benché scelti casualmente, avevano confermato le previsioni, migliorando notevolmente il rendimento scolastico, tanto da giocarsela in volata per essere i primi della classe. Non è necessario essere molto sagaci per capire che il trucco funziona anche al contrario: di’ al maestro, con le giuste parole, che Pierino non è un fenomeno, e facilmente il pregiudizio farà il suo corso, inevitabile e spietato.

Per restare in tema di storie, in queste ultime settimane si è letto che un gran numero di insegnanti delle scuole elementari non ne vuol sapere della «Cartella dell’allievo», uno strumento introdotto cinque anni fa, che sarà pian piano esteso a tutta la scuola dell’obbligo e che vorrebbe evidenziare «gli elementi più significativi che descrivono il processo di insegnamento/apprendimento, supportando la progettazione degli interventi didattici e favorendo allo stesso tempo il flusso di informazioni tra i docenti in un’ottica di continuità progettuale». Alcuni collegi dei docenti si sono messi di traverso, e il malumore serpeggia da Airolo a Pedrinate. Gli insegnanti mettono anzitutto l’accento sul notevole peso burocratico che comporta la tenuta regolare della cartella, «burocrazia che – scrivono i maestri di Losone – più che portare vantaggi sottrae tempo ed energie preziose che ogni docente sicuramente preferirebbe poter investire in modo utile e proficuo nell’insegnamento, nella formazione e nell’aggiornamento professionale».

Non ho lo spazio per elencare tutto quel che dovrebbe finire in quel dossier, e la lista risulterebbe noiosa. Il fatto che più sconcerta, però, è che si chiede di raccogliere un’enorme quantità di dati sensibili, dimenticando che ciò che finirebbe nella cartella non sarebbe neutro. Non c’è nulla di scientifico e inequivocabile nel riporvi elementi che «testimoniano l’evoluzione degli allievi» o i racconti «dei momenti significativi in termine di conquiste di nuove competenze». Così il tempo smisurato per tenere aggiornati migliaia di fascicoli – tempo rubato all’insegnamento – non migliorerà di un ette la qualità della scuola, con la certezza che il passaggio di informazioni da un docente all’altro moltiplicherà successi e insuccessi colpevolmente inzaccherati dal pregiudizio. Allora è meglio leggere le bellissime storie di Ovidio, senza il bisogno di rinverdire i fasti ispirati dalla vicenda di Pigmalione e della sua incantevole scultura: perché quello è il Mito, mica la realtà.