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L’attualità di don Milani, malgrado le censure di mezzo secolo fa

A cinquant’anni dalla scomparsa di don Lorenzo Milani (1923-1967), «Dialoghi», il bimestrale di riflessione cristiana diretto da Enrico Morresi, ha allegato al n° 248 dell’ottobre 2017 un interessante quaderno curato da Aldo Lafranchi: don Lorenzo Milani cantore e martire della Verità. L’autore prende le mosse dal libro Tutte le opere di Lorenzo Milani, edito in maggio dall’editore Mondadori.

Non si tratta, come ci si poteva pur attendere, di un comune saggio a cavallo tra la deferenza e la celebrazione, bensì di un tentativo di restituire la complessa figura di questo prete anomalo, con diversi contributi di rilievo rispetto alla conoscenza più diffusa. In tal senso Lafranchi si attiene strettamente agli scritti di don Lorenzo, realizzando una personale scelta di brani, raggruppati in alcuni momenti significativi: gli anni verdi, il ministero pastorale, la Scuola Popolare, la scrittura al servizio della lotta alle ingiustizie sociali… Scrive nell’introduzione: «Il presente lavoro è offerto a chi, sui dati biografici di don Lorenzo, è fermo a Lettera a una professoressa, alle due lettere, ai cappellani militari e ai giudici, a “l’obbedienza non è più una virtù” e al castigo dell’isolamento a Barbiana. L’intento è di mettere a profitto i due volumi di Tutte le opere per spalancare le finestre sulla vita di un uomo promesso a un fascino particolare».

Faccio parte della (probabilmente) lunga schiera di ignoranti che conoscono don Milani attraverso la Lettera e poco più, ciò che, tuttavia, non mi fa sprofondare dalla vergogna. A differenza di altri, la Lettera ce l’ho ancora sotto mano – conservo gelosamente una copia acquistata nel 1976 – e, già allora, l’avevo letta tutta. Mi occupo e mi sono occupato di don Milani per il suo contributo involontario alla storia delle idee pedagogiche, un impegno che possiede ancor oggi una grande tensione etica: perché la scuola dell’obbligo non può avere lo scopo di selezionare le future élite, e nemmeno di legittimarle, neanche fosse l’infallibile depositaria del destino di ognuno.

Eppure, più o meno da sempre, si sono letti attacchi durissimi contro le sue idee e i suoi sostenitori – che, detto per inciso, è difficile capire se siano tanti o pochi.

All’esame scritto di pedagogia, in quella ormai lontana primavera del 1974 che mi avrebbe consegnato la patente di maestro di scuola elementare, mi toccò un tema tratto dalla «Lettera a una professoressa»: Bocciare è come sparare in un cespuglio. Forse era un ragazzo, forse una lepre. Si vedrà a comodo. Non saprei neanche dire se questo autore fosse stato trattato specificamente negli anni della formazione. Già l’anno d’acquisto del volume confermerebbe questa ipotesi; ricordo, in IV magistrale, il Rapporto sulle strategie dell’educazione (più noto come Rapportro Faure), e poi Jean-Jacques Rousseau e l’Emilio, John Dewey, Édouard Claparède (L’educazione funzionale), Jerome Bruner (Verso una teoria dell’istruzione, mi pare).

Di bocciature e di “pari” opportunità

Il tema della bocciatura è ben presente in don Milani e in tanti autori prima di lui. Non è dunque chissà quale novità nel contesto della storia delle idee pedagogiche – con la precisazione che la Lettera, attribuita ai ragazzi della scuola di Barbiana, non è intenzionalmente un saggio di pedagogia, bensì si configura come un duro attacco alla scuola italiana di quegli anni e al potere politico che l’aveva istituita e che la governava.

In altri scritti che compaiono nel mio blog ho più volte parlato del tema della bocciatura, che ha a che fare con l’indifferenza alle differenze e col primato dell’insegnamento, che dovrebbe avere il sopravvento su ogni forma di esclusione e di certificazione durante la scuola dell’obbligo. Sappiamo fin troppo bene come a creare l’insuccesso scolastico ci sia una lunga serie di variabili che si preferisce omettere, ipocritamente, quando si parla dell’organizzazione della scuola – e di quella pubblica e obbligatoria in particolare. Con il comodo alibi delle pari opportunità si sorvola sulla possibilità che l’insegnante non sia all’altezza dei suoi compiti, che i programmi scolastici non siano un dogma, che gli strumenti per la valutazione (i test e le loro scale di misurazione) siano assolutamente soggettivi e parziali.

Quel che non si dice e non si cita

Come una specie di nemesi, gli slanci pedagogici di don Milani sono stati costretti a pagare tributi importanti sin dalla loro pubblicazione. Sono convinto che ciò sia accaduto, e continua ad accadere, perché della scuola di Barbiana si cita solo ciò che fa comodo, tralasciando invece importanti passaggi che avrebbero infastidito, già nel ’68 e dintorni, chi impugnava don Lorenzo come un vessillo rivoluzionario e anche chi, oggi (ma sempre meno), ne fa una bandiera senza conoscere il testo di riferimento: che non è universale, ma è radicato nell’Italia di quegli anni, dopo il fascismo, con la questione meridionale del tutto irrisolta, il peso della chiesa cattolica e le tensioni tra democristiani e comunisti. In realtà la professoressa del titolo non era un’insegnante qualsiasi, bensì il prototipo dell’insegnante di quella scuola pubblica e di quegli anni – e forse tutt’altro che estinta.

Ecco, per esemplificare, qualche passaggio della Lettera che in quegli anni là non era citato, perché sicuramente non avrebbe fatto comodo, col rischio di far seppellire da una risata la Lettera tutt’intera: com’era d’uso.

Maestri disoccupati. Si sente lamentare che c’è troppi maestri. Non è vero. È che quel posto ha fatto gola a tanti cui di fare il maestro non importa nulla. Se aumentate l’orario spariranno tutti. [pag. 113]

Processo penale. Attualmente lavorate 210 giorni di cui 30 sciupati negli esami e un’altra trentina nei compiti in classe. Restano 150 giorni di scuola. Metà dell’ora la sciupate a interrogare e fa 75 giorni di scuola contro 135 di processo. Anche senza toccare il vostro contratto di lavoro potreste moltiplicare per tre le ore di scuola. Durante i compiti in classe lei passava tra i banchi mi vedeva in difficoltà o sbagliare e non diceva nulla. Io in quelle condizioni sono anche a casa. (…) Ora invece siamo «a scuola». (…) C’è silenzio, una bella luce, un banco tutto per me. E lì, ritta a due passi da me, c’è lei. Sa le cose. È pagata per aiutarmi. E invece perde il tempo a sorvegliarmi come un ladro. [pag. 127-8]

Pieno tempo e famiglia. La scuola a pieno tempo presume una famiglia che non intralcia. Per esempio quella di due insegnanti, marito e moglie, che avessero dentro la scuola una casa aperta a tutti e senza orario. (…) L’altra soluzione è il celibato. [pag. 86]

Pieno tempo e diritti sindacali. C’è capitato in mano un giornaletto sindacale per insegnanti: «No all’aggravio dell’orario di cattedra! Ci sono state battaglie sindacali memorabili per fissare l’obbligo orario e sarebbe assurdo tornare indietro». Ci ha messo in imbarazzo. A rigore non possiamo dir nulla. Tutti i lavoratori lottano per ridurre l’orario e hanno ragione. Ma il vostro è un orario indecente. [pag. 88]

Più ciechi ancora. Il professore più a sinistra l’ho sentito parlare per l’Associazione Insegnanti e Famiglie. A proposito di doposcuola gli scappò detto: “Ma voi non sapete che io faccio 18 ore di scuola la settimana!”. La sala era piena di operai che si levano alle quattro per il treno delle 5.39. Di contadini che, d’estate, 18 ore le fanno tutti i giorni. Nessuno rispose, né sorrise. Cinquanta sguardi impenetrabili lo fissavano in silenzio.

Dicesi maestro. Una sola compagna mi parve un po’ elevata. Studiava per amore dello studio. Leggeva dei bei libri. Si chiudeva in camera a ascoltare Bach. È il frutto massimo cui può aspirare una scuola come la vostra. A me invece m’hanno insegnato che questa è la più brutta tentazione. Il sapere serve solo per darlo. «Dicesi maestro chi non ha nessun interesse culturale quando è solo». [pag. 110]

Le riforme che proponiamo. Perché il sogno dell’eguaglianza non resti un sogno vi proponiamo tre riforme. I – Non bocciare. II – A quelli che sembrano cretini dategli la scuola a pieno tempo. III – Agli svogliati basta dargli uno scopo. [pag. 80]

Vorrei che fosse chiaro: non credo che alla scuola servano insegnanti celibi e nubili. Non ho mai creduto nella vocazione o nella missione. Ma è fondamentale, credo, decidere di voler fare l’insegnante come contributo al benessere democratico e culturale e alla crescita del Paese e ricevere una formazione che parta dal ruolo istituzionale del maestro di scuola, che approfondisca e delinei i suoi compiti deontologici. A partire da lì sarà poi possibile riempire la cassetta degli attrezzi con tutti gli strumenti didattici più adeguati per raggiungere le vere finalità della scuola.

Per restare al tema della bocciatura, non ho mai creduto alla nota politica. Non è che se certifico una conoscenza inesistente faccio un favore all’allievo e al paese. «Dell’«insegnante di greco molto odiato ma i cui allievi imparano il greco bene», don Lorenzo si limita a prendere atto che la funzione del professore è di insegnare il greco, non d’essere amato…» [Articolo di A. Lafranchi, pag. 9].

Sante parole, forse è il caso di dirlo.

A scuola non servono paladini della vocazione, ma professionisti preparati e motivati

Quanto alle tante stilettate inferte alla professoressa e, più in generale, all’establishment del tempo, non si tratta, né oggi né ieri, di farne una questione sindacale, riducendo il tutto a ore e giorni di presenza a scuola. Nondimeno, prima o poi, converrà riflettere anche sulla distribuzione del tempo di un anno tra quello educativo e formalmente istruttivo rispetto ai compiti di semplice sorveglianza e di formazione-educazione del tutto informale. Perché potrebbe anche essere che riempire i tempi delle pause scolastiche con ogni sorta di attività para e/o dopo scolastica si traduca in definitiva in un uso poco intelligente del tempo disponibile per crescere bene.

Don Milani condusse la sua battaglia per l’uguaglianza affinché i suoi ragazzi capissero il Vangelo. «Ho l’incarico di predicare il Vangelo. Predicarlo in greco non si può perché non intendono. Sicché bisogna predicarlo in italiano, ma i miei parrocchiani l’italiano non l’intendono. Trovo l’ostacolo della lingua e alla lingua mi dedico. Considerando lingua tutti i problemi della scuola» [Articolo di A. Lafranchi, pag. 9]. Era importante che capissero l’italiano, non solo come puro e semplice utensile comunicativo, ma come strumento complesso che comprende la cultura in tutte le sue accezioni. Anche la scuola dello Stato ha un suo vangelo, sperando che sia assolutamente laico.


Riferimenti

ALDO LAFRANCHI, Don Lorenzo Milani cantore e martire della Verità, Quaderno speciale allegato a «Dialoghi», N° 248, ottobre 2017, p. 32 | Il quaderno può essere richiesto alla redazione di «Dialoghi», all’indirizzo allinyg@hotmail.com (la spesa è di 14 franchi).

RUOZZI, A. CANFORA, V. OLDANO, Tutte le opere di Lorenzo Milani, 2017, Milano: Mondadori (collana I Meridiani), EAN 9788804657460, 2 volumi, pagine CXXXVII-2809, 140 €

SCUOLA DI BARBIANA, Lettera a una professoressa, 1967, Libreria editrice fiorentina

Una scuola ben fatta val più di una scuola ben piena

I giovani liberali ticinesi si sono fatti promotori di una mozione parlamentare, per far sì che l’inizio dell’insegnamento del tedesco sia anticipato. La proposta è naturalmente corredata da dotte citazioni, che, come un certificato medico, attestano la necessità impellente di iniziare al più presto la terapia, così da evitare complicanze. Il Consiglio di Stato ha risposto picche, e ha fatto bene. Marco Solari, interrogato dal «Mattino», ha detto che «le lingue hanno uno scopo pratico ed economico e uno culturale. Leggere Goethe, Heine, Mann in tedesco, come leggere Montaigne, Flaubert e Proust in francese, è arricchente e ti apre un mondo. Vale pure per l’inglese che, più del tedesco, è inoltre lingua franca, mondiale e indispensabile». Infine ha aggiunto che a tutti i giovani consiglierebbe di imparare il cinese standard, che è la lingua del loro futuro.

Non si può dissentire, neanche rispetto alle provocazioni di quel visionario di un Solari. A dirla tutta, c’è una lunga serie di discipline che non fanno parte dei normali piani di studio della scuola dell’obbligo, malgrado la loro rilevanza per l’educazione dei futuri cittadini. Per buttar lì qualche idea: la filosofia e la storia dell’arte, la sociologia e la psicologia, le scienze politiche e quelle economiche, il diritto, l’architettura e l’urbanistica, l’etica e l’estetica. Si aggiunga che da tempi immemorabili le diverse lobby disciplinari si lamentano di non avere ore a sufficienza nella griglia oraria settimanale. Ma ha mille ragioni il direttore del Dipartimento dell’educazione, Manuele Bertoli, quando si oppone con fermezza all’aumento delle ore scolastiche di insegnamento, alle quali bisogna aggiungere l’onere massiccio e variabile dei compiti a casa. I tempi formali della scuola sono quelli che conosciamo: trentasei settimane e mezza, ognuna con una trentina di «ore» di lezione, la cui durata aumenta un pochetto nel passaggio dall’elementare alla media. Se togliamo i tempi per le valutazioni, le settimane festaiole e qualche imprevisto, non resta granché, soprattutto se si intende ficcarci di tutto, dal sesso alla civica all’alimentazione. Eppure oggi è così che funziona, a costo di inscenare finzioni hollywoodiane: perché i piani di formazione sono una cosa, mentre quel che imparano realmente allievi e studenti un’altra.

Parafrasando Montaigne, che cinque secoli fa sosteneva che a una testa ben piena fosse preferibile una testa ben fatta, parrebbe che per la scuola di oggi, o per quella che verrà, l’impossibile quadratura del cerchio imponga scelte dolorose e irrinunciabili. Continuo a credere che la scuola, quella pubblica e obbligatoria, è cambiata pochissimo negli anni. I suoi tratti caratteristici li mantiene sin dalla nascita, ma oggi sono diventati un fardello ingombrante, benché si eviti di parlarne. Quella scuola lì ha prodotto frutti pregiati, ma oggi è esausta e boccheggiante. È strapiena di «cose». Il tentativo di rispondere a mille interessi particolari, prostrandosi ai piedi di un mondo del lavoro crudele, amorale e cangiante, è un errore dai costi altissimi. La scuola ben fatta è un’altra cosa, e implica scelte importanti: se si vuol mantenere a ogni costo la vetusta struttura odierna bisogna avere il coraggio di togliere dalle giornate di allievi e insegnanti tutto ciò che non è essenziale per educare i Cittadini di domani. I paraocchi corporativi, sindacali e un po’ nostalgici non valgono una cicca. Servono visioni.

I nuovi piani di studio tra competenze e contraddizioni

Come sanno tutti quelli che, per un verso o per l’altro, hanno a che fare con la scuola dell’obbligo, il famoso accordo intercantonale che armonizza i percorsi formativi nei diversi cantoni porta con sé il nuovo piano di studio, che ha tra le novità più inquietanti e vistose l’insegnamento per competenze. Enigmatico? Sì e no. È già un pregio l’idea di far strame del vecchio nozionismo, che ha resistito ai venti impetuosi del ’68, con l’ubriacatura dei «saper essere» e «saper fare». Diciamo che è difficile definire cosa sia una competenza, al di là delle dotte esegesi pedagogiche di chi ha redatto il corposo volume. D’altra parte diversi sistemi scolastici del mondo occidentale sono stati sedotti dall’insegnamento per competenze, soprattutto da quando tanti organismi internazionali ne hanno fatto un cavallo di battaglia. Mi intriga la possibilità di organizzare l’insegnamento attraverso tematiche pedagogiche e didattiche marcatamente interdisciplinari. A pensarci bene, già Rousseau dispensava al suo Emilio un insegnamento che mirava alle competenze, così come Pestalozzi, che era notoriamente sensibile alle diverse dimensioni educative (la testa, il cuore, le mani). Anche la cosiddetta Scuola attiva aspirava a superare il nozionismo, utile più a chi dà le note che a chi le riceve, per affrontare percorsi pedagogico-didattici fortemente interdisciplinari, con tutte le loro ricchezze umane e umanistiche, efficaci anche sul piano delle conoscenze fondamentali.

In approcci di questo tipo, nondimeno, c’è un rovesciamento delle prospettive che guidano gli anni scolastici e le diverse programmazioni, a partire proprio dal tema della valutazione. Insegnare per competenze pone problemi di valutazione di non poco conto. In un’impostazione pedagogica di tal fatta non c’è posto per la tradizionale tiritera di prove di varia foggia, che scandiscono le settimane e i mesi, diventando in definitiva più importanti di ciò che si vuol valutare e inducendo negli allievi l’attitudine meschina che li obbliga a studiare per i test e non per gli apprendimenti sontuosi che la scuola saprebbe regalare. Insegnare per competenze significa in primo luogo privilegiare l’educazione e la costruzione di conoscenze e di cultura, nell’accezione più ampia del termine, rispetto alla misurazione insulsa di qualche nozione.

Cité des sciences et de l’industrie (Paris)

C’è poco da fare: la valutazione classica, coi continui esami e le inevitabili medie, fa a pugni con un insegnamento per competenze. «Non si fa matematica da soli», ho letto di recente su un pannello, in un’esposizione divulgativa sulla matematica. E poco più in là: «Se un problema è veramente affascinante, ce lo rigiriamo in testa senza sosta». Come sarebbe bello poter insegnare così la matematica – e non solo – attraverso problemi avvincenti e intrattabili, da affrontare in gruppo come sfida intellettuale, col solo gusto di venirne a capo e la fierezza della vittoria. Un approccio pedagogico del genere sarebbe coerente con la dichiarazione d’intenti del nuovo piano di studio e favorirebbe nel contempo la crescita rigogliosa di competenze disciplinari, che sono complesse per definizione, e di tangibili empatie civiche. Si può dissentire? Certo che sì. Ma esprimere una valutazione scolastica, a queste condizioni, diventa un bel problema. Sarebbe una catastrofe non saper rinunciare alla necessità di dover dare una nota scolastica a ogni costo, magari frazionando la competenza in tante nozioni misurabili, per poi ricavarne una stupida media.

Ecco perché non si deve banalizzare l’educazione civica

Da tanti anni trepido e, spesso, strepito per la piega che sta prendendo la scuola pubblica – la nostra, ma non solo.

Non sempre mi piacciono quelli che, un giorno sì e l’altro pure, firmano a mitraglia editti e petizioni, e cercano visibilità nei comitati di sostegno a questa o quell’altra causa: un fenomeno che, con l’avvento dei social, è cresciuto in quantità esponenziali. Tuttavia la votazione sull’Educazione civica, alla cittadinanza e alla democrazia mi preoccupa molto e così, stavolta, ho aderito con entusiasmo al comitato promotore per il NO a uno studio puramente nozionistico della civica.

Mi occupo da tanti anni di educazione civica e ne scrivo sin da tempi non sospetti. Aderire con entusiasmo al Comitato promotore per il NO a uno studio puramente nozionistico della civica è stato un atto quasi dovuto.

Clic sull’immagine per ingrandire.

In calce a questo scritto ho steso un elenco dei principali articoli che ho pubblicato sul tema dell’educazione civica nella mia rubrica sul Corriere del Ticino, il primo dei quali è dell’ottobre 2001. Si trovano tutti nel mio sito, Cose di scuola, assieme ad altri articoli.

In questi primi giorni di campagna in vista della votazione abbiamo già letto tante fandonie. Nessuno è contrario all’educazione civica. Ma bisogna opporsi all’istituzione di una nuova materia scolastica, che sarebbe “insegnata” (le virgolette non sono casuali) per due ore al mese, con tanto di immancabile nota sul libretto: dobbiamo opporci alla malacivica, che è un’educazione posticcia, improvvisata e illusoria.

Per non cadere anch’io nel trabocchetto della banalizzazione, evito il riassunto dei tanti argomenti di cui ho scritto in questi anni. Una solida educazione civica cresce vigorosa solo attraverso l’apporto di tanti attori educativi: dentro la scuola, certo; ma anche in famiglia, nei media, nella Società.

Ha scritto qualche giorno fa Aldo Bertagni che «A poco serve insegnare nozioni di civica, se poi manca quotidianamente l’esempio di chi dovrebbe avere intelligenza e coraggio per dare valore, lungimiranza e peso alla democrazia. Non è la civica che fa acqua in Ticino, ma la buona politica» [La cittadinanza è consapevolezza, laRegione del 29 agosto].

www.cittadinanza.ch


In questo sito vi sono innumerevoli scritti che riportano, più o meno direttamente, al tema dell’educazione civica (tag Educazione civica). Di seguito ecco invece una scelta di articoli più direttamente legati al tema.

Nella rubrica Fuori dall’aula
Altri articoli solo nel sito

I pionieri utopisti della scuola che non fu

Il Corriere del Ticino del 31 agosto 2017 ha pubblicato un mio contributo, che rimanda alla ricerca storico-giornalistica sul IV Congresso della Lega Internazionale per l’Educazione Nuova, che si tenne a Locarno nel 1927 (v. 90 anni fa a Locarno il Congresso della “Ligue Internationale pour l’Éducation Nouvelle”, dove è possibile scaricare l’intero rapporto, e Sono passati cent’anni, ma la scuola vecchia resiste, in barba ai suoi acciacchi). Copia dell’articolo del Corriere nella fua forma grafica originale può essere scaricata qui.


Pochi sanno che, due anni dopo la Conferenza della Pace, Locarno accolse un altro importante congresso. Nell’agosto del 1927 ospitò il IV congresso della Lega Internazionale per l’Educazione Nuova (LIEN), un movimento fondato in Francia nel 1921, in occasione di un congresso che riunì «tutti i pionieri dell’educazione, così come tutti quelli che si interessavano all’infanzia e al miglioramento della loro condizione». La maggior parte dei nomi più importanti dell’Educazione nuova era tra i fondatori: da Ferrière a Piaget, dalla Montessori a Neill e tanti altri.

La rivista della Lega, nel suo numero del novembre 1926, così presentava l’appuntamento locarnese: «Il vero internazionalismo deve poggiare ovunque sulla comprensione reciproca, che è l’unico fondamento sicuro per la pace nel mondo. È dunque una scelta eccellente, per il nostro prossimo congresso, quella di Locarno, poiché è là che è nata recentemente una grande speranza, quella di un’epoca nuova di fratellanza e di pace.  Il congresso registrò la presenza di più di mille partecipanti provenienti dai cinque continenti (al congresso di Heidelberg del 1925 ve ne furono 450).


Dal punto di vista internazionale, questo simposio non offrì spunti molto significativi per la breve storia di LIEN. Nata come progetto per instaurare la pace attraverso l’educazione, negli anni successivi organizzò ancora tre soli congressi: nel ’29 in Danimarca, nel ’32 a Nizza e nel ’36 in Inghilterra.

La Lega difendeva coi denti il suo statuto apolitico e laico. Célestin Freinet ne approfittò per cavalcare una polemica che sarebbe stata profetica: «La menzogna su cui è costruita la Lega viene dalla neutralità politica e religiosa. Se un giorno malauguratamente prossimo scoppierà una guerra prima che l’educazione nuova sia riuscita a realizzare il rinnovamento interiore degli individui, cosa farà, allora, la Lega?»

Questo candore pose qualche problema inatteso anche nel Ticino di quel tempo. Nelle settimane che precedettero l’apertura del congresso la stampa locale scatenò discussioni animose.

Mentre il Corriere del Ticino del 23 luglio elogiava LIEN, parlando di un congresso che «contribuirà ancora ad aumentare la sua fama ed a rafforzare la sua influenza, ciò che non potrà che essere di buon giovamento ad ognuno», il Giornale del Popolo, nato l’anno prima per volere del vescovo Bacciarini, intervenne a più riprese contro il convegno. Il 24 luglio il quotidiano della Curia si chiedeva: congresso mondiale di danza o di educazione? «Il Programma prevede che ogni Conferenza sarà preceduta da un concerto eseguito dall’Orchestra del congresso e quasi ogni giornata terminerà con un grande ballo»: era nota l’opinione del vescovo sulla licenziosità del ballo. A completare il quadro, lo stesso foglio riportò il parere di Padre Gemelli: «Nel mondo degli studiosi è noto quali origini abbia quel movimento pedagogico che ha promosso questo congresso; non esito a dire chiaramente che la ispirazione del movimento stesso e del congresso è così nettamente anticattolica che io ritengo sia bene che i maestri cattolici ticinesi abbiano ad astenersi dall’intervenire» – malgrado il fatto che il Dipartimento dell’Educazione, guidato dal conservatore Giuseppe Cattori, avesse facilitato e spronato la partecipazione dei maestri ticinesi. Ferrière, dopo il congresso, se ne lamentò senza giri di parole: «Il clero ha ostacolato la partecipazione dei Ticinesi al nostro congresso. Abbiamo così scritto al vescovo di Lugano che la nostra neutralità completa in materia confessionale non giustificava questo ostracismo».

Altro campo, altro litigio. Tra i relatori figurava Giuseppe Lombardo Radice, membro di LIEN sin dalla prima ora. Già in febbraio Libera stampa aveva aperto le danze: «Da una comunicazione del Bureau International d’Éducation apprendiamo che al Congresso dell’Educazione Nuova Gentile e Lombardo Radice interverranno. Si tratta di due laidi spioni che a Locarno sorveglieranno per conto del Governo di Mussolini la condotta politica degli studiosi italiani. È sulle denunce degli spioni che si potranno fare quelle che i fascisti chiamano epurazione. Il Comitato del Congresso, tenga conto di questo nostro avviso. Ben vengano i due mariuoli a Locarno: in questa libera terra troveranno dei liberi uomini che sapranno gittar loro in faccia la rampogna e il disprezzo degli educatori italiani, umiliati e oppressi». Lo stile fa un po’ sorridere, per un certo squadrismo non troppo velato. Ma la cosa interessante è che il filosofo siciliano si era dimesso dagli incarichi ministeriali per protesta contro il fascismo nel ’24. A ciò si aggiunga che già nell’anno del congresso era sottoposto alla sorveglianza della polizia politica.

Rinunciò a venire a Locarno: «Ho accettato di essere uno dei relatori – scrisse – perché l’attività delle persone che lo hanno promosso e la tradizione dei precedenti congressi mi persuadeva che si trattasse di un dibattito di questioni tecniche, assolutamente all’infuori delle questioni politiche dei varii paesi. Vedo ora, invece, che nell’agosto a Locarno la cosa prenderà una piega assai diversa».

Princìpi sempre attuali

Nella scuola ticinese l’interesse fu pacato e prudente. Il tema, in quegli anni, era ben presente nell’agenda politica del Cantone. Erano in atto riforme interessanti, ma lo spirito di LIEN andava oltre. L’educatore della Svizzera italiana archiviò il congresso nel suo numero di settembre, prendendo le distanze da “certi esperimenti”: «Come è facile comprendere, non molte applicazioni pratiche è possibile ricavare per le nostre scuole: le quali scuole sono pervase di sano spirito di modernità, e tengono il “giusto mezzo” tra le riforme più audaci e i sistemi tradizionali. Anche nel nostro Cantone, si va tentando di fare la scuola “libera”, con le composizioni non più obbligate, il diario e il disegno spontanei: ebbene, in alcuni casi, i risultati sono così lacrimevoli, che i maestri si riaggrappano, più tenacemente, ai metodi che magari sdegnavano». Per certi versi verrebbe da dire che, da allora, il dibattito politico non sia granché cambiato: in certi momenti sembra di leggere le stesse tiritere delle discussioni attorno alla Scuola che verrà.

Oggi LIEN è rinato, ne ha ripreso l’acronimo e ne condivide i principi fondatori, con l’obiettivo di mantenere vive le idee di quel grande progetto, al di là delle utopie e delle ingenuità: i due LIEN, quello di oggi e quello di un secolo fa, continuano a sognare un cambiamento del contratto scolastico, per andare verso una scuola che non etichetti più nessuno e che non selezioni la gioventù, ma la istruisca e la educhi.