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Ecco perché non si deve banalizzare l’educazione civica

Da tanti anni trepido e, spesso, strepito per la piega che sta prendendo la scuola pubblica – la nostra, ma non solo.

Non sempre mi piacciono quelli che, un giorno sì e l’altro pure, firmano a mitraglia editti e petizioni, e cercano visibilità nei comitati di sostegno a questa o quell’altra causa: un fenomeno che, con l’avvento dei social, è cresciuto in quantità esponenziali. Tuttavia la votazione sull’Educazione civica, alla cittadinanza e alla democrazia mi preoccupa molto e così, stavolta, ho aderito con entusiasmo al comitato promotore per il NO a uno studio puramente nozionistico della civica.

Mi occupo da tanti anni di educazione civica e ne scrivo sin da tempi non sospetti. Aderire con entusiasmo al Comitato promotore per il NO a uno studio puramente nozionistico della civica è stato un atto quasi dovuto.

Clic sull’immagine per ingrandire.

In calce a questo scritto ho steso un elenco dei principali articoli che ho pubblicato sul tema dell’educazione civica nella mia rubrica sul Corriere del Ticino, il primo dei quali è dell’ottobre 2001. Si trovano tutti nel mio sito, Cose di scuola, assieme ad altri articoli.

In questi primi giorni di campagna in vista della votazione abbiamo già letto tante fandonie. Nessuno è contrario all’educazione civica. Ma bisogna opporsi all’istituzione di una nuova materia scolastica, che sarebbe “insegnata” (le virgolette non sono casuali) per due ore al mese, con tanto di immancabile nota sul libretto: dobbiamo opporci alla malacivica, che è un’educazione posticcia, improvvisata e illusoria.

Per non cadere anch’io nel trabocchetto della banalizzazione, evito il riassunto dei tanti argomenti di cui ho scritto in questi anni. Una solida educazione civica cresce vigorosa solo attraverso l’apporto di tanti attori educativi: dentro la scuola, certo; ma anche in famiglia, nei media, nella Società.

Ha scritto qualche giorno fa Aldo Bertagni che «A poco serve insegnare nozioni di civica, se poi manca quotidianamente l’esempio di chi dovrebbe avere intelligenza e coraggio per dare valore, lungimiranza e peso alla democrazia. Non è la civica che fa acqua in Ticino, ma la buona politica» [La cittadinanza è consapevolezza, laRegione del 29 agosto].

www.cittadinanza.ch


In questo sito vi sono innumerevoli scritti che riportano, più o meno direttamente, al tema dell’educazione civica (tag Educazione civica). Di seguito ecco invece una scelta di articoli più direttamente legati al tema.

Nella rubrica Fuori dall’aula
Altri articoli solo nel sito

Sono passati cent’anni, ma la scuola vecchia resiste, in barba ai suoi acciacchi

Quando, il 1° agosto scorso, ho pubblicato qui la mia inchiesta sul IV congresso della Ligue Internationale pour l’Éducation Nouvelle (LIEN), che si era tenuto a Locarno dal 3 al 15 agosto 1927, non mi aspettavo certo immediate reazioni, soprattutto locali.Dal Ticino, che di questi tempi è al contempo elettrizzato – ehi raga!, c’è Locarno Festival – e sonnacchioso, non mi attendevo chissà quali sussulti. Se nessuno se n’è accorto per novant’anni, non sarà certo uno starnuto nel mio sito a far sussultare gli animi dei più (che sono in vacanza, mica al Festival del film).

Tuttavia ho ricevuto alcuni messaggi autorevoli, che mi hanno fatto piacere.

Per cominciare Marco Balerna, ex sindaco di Locarno, ha commentato così: Grazie Adolfo per averci ricordato che Locarno non è stata solo la «Città della Pace», ma anche «Città della Scuola». Se solo si fosse continuato e perseverato su certi principi e certe realtà… Ma così va il mondo: bisogna sempre ricominciare e ricominciare. Che fatica. Ma questo è il nostro destino di uomini.

Nei giorni seguenti, da Ginevra, dove ho studiato, mi sono arrivati altri messaggi che mi hanno fatto un poco arrossire: non cito gli autori, perché non ne ho chiesto il permesso, e non riporto cosa mi hanno scritto, perché va bene un po’ di vanità, ma vediamo di non esagerare.

Detto questo voglio segnalare due cose.

1. Il 14 e 15 settembre gli Archives Institut Jean-Jacques Rousseau organizzano un colloquio internazionale sul tema Genève, une plateforme de l’internationalisme éducatif au 20è siècle. Va da sé che l’utopia della Lega Internazionale per l’Educazione Nuova ha molto a che fare con l’esprit éducatif genevois. Chi è interessato (io lo sono, ma in quei giorni dovrò essere a Locarno, perché c’è «Piazzaparola», di cui scriverò da qui a là) trova all’indirizzo indicato tutto quel che serve.

2. Inoltre: il mio fascicolo 1927: Locarno accoglie l’Educazione Nuova è ora disponibile anche nel sito di Lien International d’Éducation Nouvelle. Ne sono contento, perché anche così si offre una maggiore diffusione alle idee di cui sono portatori i due LIEN, quello di oggi e quello di un secolo fa, che continuano a sognare un cambiamento del contratto scolastico, per andare verso una scuola che non etichetti più nessuno e che non selezioni più la gioventù, ma la istruisca e la educhi, seriamente e con gioia.

Il Manifesto di LIEN, nato durante il simposio di un anno fa a Villeurbanne, nei pressi di Lione (lo si può scaricare qui) è di grande interesse, meglio ancora se si riesce a leggerlo tenendo in filigrana le (H)armo(S)nizzazioni odierne – in bilico tra editti dai toni suadenti e piani di studio di non esemplare chiarezza – la Scuola che verrà e i tanti dibattiti un po’ scontati, che si susseguono negli ambienti politici e si riflettono specularmente sui media.

Mi limito a citare due o tre argomenti, tratti dal Manifesto, che fanno spesso capolino nei discorsi dei politici e che, naturalmente, rispecchiano e rinvigoriscono i pareri dell’opinione pubblica.

  • La fratellanza confusa con la compassione, che valorizza l’aiuto e il sostegno ai più sfavoriti, rafforzando e legittimando in tal modo le disuguaglianze.
  • «Le pari opportunità», falsamente garantite dalla Scuola, che sono una frottola sociale, perché consolidano un sistema ingiusto, insinuando in ognuno il convincimento di «meritare» la propria sorte. Attraverso le cosiddette pari opportunità si impedisce che si protesti o che si esiga chissà che, dal momento che si è fatto di tutto per offrire a ognuno la possibilità di riuscire. Si tratta di una mistificazione che scaturisce dal presupposto che il successo degli uni e l’insuccesso degli altri si spiegano attraverso i “doni” ricevuti alla nascita o i meriti personali.
  • La certezza che la competizione accresce la motivazione, incoraggia l’apprendimento e giustifica sforzi e sacrifici, dissociando il piacere e il lavoro.
  • Transeat, invece, sul tema della differenziazione, un’araba fenice dalle millanta interpretazioni (di comodo).

Insomma: secondo un modo di dire comune la scuola, parlo di quella dell’obbligo, è un cantiere sempre in movimento, per dire che si è pronti ad affrontare, giorno dopo giorno, ogni novità.

Eppure, ogni tanto, viene il dubbio che anche la scuola, a immagine del capolavoro di Tomasi di Lampedusa, auspichi che sotto sotto «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».

Un codice etico per la scuola, tra princìpi e scelte concrete

Quello che ha chiuso da poco i battenti, in vista delle vacanze estive, è stato un anno scolastico un po’ strano, a tratti convulso. Accanto ad alcune novità che stanno pian piano facendo capolino, questo è stato l’anno dove si è parlato tanto del progetto «La scuola che verrà», accanto a piccoli e grandi cambiamenti, che hanno toccato un po’ tutti i settori scolastici. Siamo nel campo di tanti tecnicismi, che non sempre hanno lo stesso significato per chiunque – e certamente non suscitano chissà quali dibattiti, soprattutto quando gironzolano temi sui quali tutti diventano esperti: penso ai livelli della scuola media o alle soglie d’accesso al liceo, che assorbiscono tutta l’attenzione di politici, sindacati, mass media, insegnanti, genitori, imprenditori e perdigiorno. Così una significativa scelta del più grande istituto scolastico del cantone è assurta agli onori della cronaca al momento della conferenza stampa promossa dal municipio, verso fine febbraio, per poi essere travolta da tutta l’ingegneria di politica scolastica, tanto di moda in questi tempi globalizzati. Sto parlando del Codice etico di cui si sono dotate le scuole comunali di Lugano, presentato dopo un lungo lavoro di riflessione, di osservazione, di studio e di confronto. Il documento di riferimento è costituito da due paginette scarse, che illustrano pochi ma fondamentali principi attorno a professionalità, rispetto e sicurezza, che sono i valori ai quali le scuole comunali luganesi vogliono ispirarsi.

Va da sé che la definizione e l’adozione di un codice etico non risolvono da sole le incertezze e le grane. Sarà necessario tener desta l’attenzione, affinché procedure e abitudini molto alla moda non diventino tentazioni per declinare i principi fondatori del codice in dettagliati regolamenti, che in un battibaleno potrebbero trasformarsi nella lista minuziosa dei delitti e delle pene. L’altro rischio, più subdolo, è che, col passare del tempo, il Codice finisca nell’oblio. Certo, non sarà facile tenerlo in vita, alimentarlo, aggiornarlo, piegarlo con coerenza ai nuovi eventi e alle nuove emergenze. Sarebbe bello se alla riunione d’inizio anno, quando le maestre e i maestri incontrano i genitori dei loro allievi, e poi gli allievi stessi, ci si prendesse il tempo per condividere insieme qualche principio che soggiace al codice etico, delle discussioni attorno a problemi pratici e comuni: i compiti a casa; i doveri dei maestri e quelli dei genitori, che in parte si sovrappongono, ma in parte no; il ruolo del tempo libero e il diritto all’ozio; l’obbligo, per tutti, di ricordarsi che gli allievi delle scuole comunali sono ragazzini tra i quattro e i dieci anni; internet, facebook, twitter e affini. E che è ancora un po’ presto per impostare carriere imprenditoriali, accademiche o da podio olimpico. L’etica della scuola, a volte, passa prima di lì, poi dai grandi enunciati.

La scuola, col passare degli anni, si è arricchita, impoverendosi, di una miriade di leggi, regolamenti, norme, decreti e raccomandazioni. È quindi fondamentale avere il coraggio civico di manifestare un tale senso etico e culturale, per condividere le relazioni e lo svolgimento dei compiti di ognuno, nel rispetto dei diversi ruoli educativi, attraverso la professionalità e la garanzia della sicurezza totale: che non è solo quella fisica e morale, perché la scuola è un luogo dove si deve poter sbagliare senza rischiare chissà quali sanzioni, ciò che vale per tutte le sue componenti.

L’aula «Stefano Franscini», allestita nella sede delle Gerre delle scuole comunali di Lugano.

Qui è possibile scaricare il comunicato stampa del Municipio della città di Lugano, la cronistoria che ha portato all’adozione del Codice e il Codice etico.

Un atto di fede, tra scienza, religione e stregoneria

Si sa che sulla statistica circolano tante battute. Mark Twain affermava che Ci sono tre tipi di bugie: le piccole, le grandi e le statistiche. Poi c’è quella di Winston Churchill: Le sole statistiche di cui ci possiamo fidare sono quelle che noi abbiamo falsificato. E ancora: Le statistiche – secondo una definizione attribuita almeno a tre autori – sono come i bikini: si crede che mostrino tutto, ma nei fatti nascondono l’essenziale.

Queste sfuggenti e beffarde “definizioni” mi sono venute in mente mentre scorrevo avanti e indietro due quaderni di ricerca pubblicati qualche mese fa dal CIRSE, che si occupa di innovazione e ricerca sui sistemi educativi, un importante centro di competenze del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI.

Il quotidiano laRegione ha pubblicato il 14 giugno un articolo che ha attirato la mia attenzione, non fosse che si stagliava al centro della prima pagina: Prove cantonali, gli allievi più bravi sono socioeconomicamente avvantaggiati – L’origine conta.

To’, mi sono detto, questa scoperta proprio non me l’aspettavo. E a pagina 4 ecco l’articolo.

Bisogna convenire che l’articolo, in sé, non aggiunge nulla a ciò che sanno più o meno anche i paracarri protagonisti di un popolare modo di dire. Volendo si può leggere l’articolo scaricandone qui il testo completo: senza aspettarsi chissà quale rivelazione.

Dato che si tratta di uno studio basato sui risultati di un numero molto significativo di allievi – 3’000 di III per la prova di italiano, altrettanti di V per la prova di matematica – mi sono procurato i due rapporti:

Più che le variabili che influenzano il successo o l’insuccesso, mi ponevo qualche domanda più prosaica, cose semplici del tipo Qual è il grado di competenza in italiano in 3ª e in matematica in 5ª? Quali sono gli obiettivi specifici che risultano più ardui di altri? Insomma, cose così, domande semplici, da non addetto ai lavori, che possono semmai tramutarsi in ipotesi da addetto ai lavori.

Invece mi si chiede un atto di fede.

Dovrei dar credito a qualche dichiarazione riportata dal quotidiano bellinzonese. Ad esempio che per aver successo nelle nostre scuole conviene essere «Di nazionalità svizzera, madrelingua italiana e famiglia benestante». Oppure che «I risultati delle prove cantonali ci dicono che non siamo ancora al top». Poco più.

Così uno si dice, un po’ sommessamente: è tutto lì il famoso investimento nella scuola, un mantra che sentiamo come alibi per ogni contenzioso, solitamente più sindacale che di merito?

[Detto pr inciso: queste due ricerchine dicono che il numero di allievi per classe non influenza i risultati e che le pluriclassi, per male che vada, sono migliori delle tanto agognate monoclassi].

Volendo alzarmi un po’ di livello, devo prendere per buona qualche tabella un poco enigmatica. Per dire: a pagina 11 del quaderno sulle prove di italiano leggo che, in generale, l’italiano è misurato con un valore medio di 55.42, su una scala da 0 a 100. Nelle diverse “dimensioni” – la scala è sempre quella lì – abbiamo 58.48 per il lessico, 57.29 per l’ortografia fonologica, 57.36 per l’ortografia morfologica e 45.09 per la punteggiatura ortografica. Allora mi dico: se la scala mi dà l’imbeccata verso una lettura per percentuali, c’è poco da stare allegri, se neanche una “dimensione” arriva almeno al 60%, anche se le cifre dopo la virgola fanno molto “scienza”.

Ma i ricercatori del CIRSE mi bacchettano subito: Tutti i punteggi sono stati normalizzati in modo da assumere valori compresi tra 0 e 100. I punteggi non equivalgono però a percentuali corrispondenti al numero di esercizi svolti correttamente: ottenere 50 in un certo settore non significa infatti aver svolto correttamente il 50% degli item di quel settore.

Chiaro? No, questo è certo. Qualcuno è in grado di spiegarmi l’arcano? Cioè: che significa, anche solo all’incirca, che gli allievi di 3ª hanno raggiunto gli obiettivi dei programmi per un valore di 55.42?

55.42 cosa? È tanto, è poco o prendiamola così e accontentiamoci, senza far domande cretine?

Se poi mi do la pena di leggere, interpretare (a modo mio, ovvio) e capire le correlazioni con alcune variabili indipendenti del campione di popolazione – quali il sesso di allievi e insegnanti (loro lo chiamano gender, per chiarezza e politically correctness), la nota di condotta, il colletto blu o bianco dei genitori (tutt’e due?), tanto per citare qualche “novità” originale – allora me ne vengono in mente altre, che secondo me potrebbero rivelare qualche esclusione in più, da considerare nei dovuti modi.

Per dare qualche idea, non troppo a caso:

  • quanti genitori vivono là dove vive e cresce l’allievo, provenienti da dove, che fanno cosa e con quale ruolo gerarchico;
  • quanti fratelli e fratellastri, sorelle e sorellastre, vivono in quel nucleo;
  • quanti parenti e amici intimi vivono nel raggio di dieci chilometri;
  • quali allievi frequentano la mensa, il doposcuola e le colonie durante le chiusure scolastiche (e perché);
  • quali sono gli orari di lavoro di chi, a casa, si occupa dei figli;
  • chi prepara la colazione, il pranzo, la cena, e decide l’ora di andare a letto e di spegnere gli schermi;
  • quanti televisori, computer, tablet, cellulari sono a disposizione, e sotto il controllo di chi;
  • caratteristiche socio-economiche e socio-culturali non solo dei singoli allievi, ma anche delle comunità in cui gli istituti scolastici sono inseriti;
  • età, anzianità di servizio e itinerario formativo degli insegnanti (magistrale seminariale, post-liceale, ASP, DFA, ASP grigionese), e quanti anni di insegnamento hanno alle spalle;
  • numero di settimane di presenza del docente titolare durante l’anno scolastico;

Il mio agnosticismo, per fortuna, non è confinato negli angusti e consueti territori delle religioni.

In questo caso avrei salutato con grande piacere un qualche allegato, magari solo online, per capire, obiettivo dopo obiettivo e dimensione dopo dimensione, come erano costruite e presentate, anche graficamente, le prove somministrate agli allievi, cosa volevano concretamente analizzare, chi e quando le ha somministrate, e quanto era il tempo a disposizione di ogni allievo – compresi stranieri, alloglotti e indigenti.

Mi sarebbe anche piaciuto sapere con precisione come è stata valutata/misurata ogni risposta: cioè cos’era considerato corretto, sbagliato, sfumato…

E, volendo pretendere la luna, quali conoscenze/competenze non erano state misurate e perché.

Insomma: parrebbe obbligatorio attenersi alle sacre scritture e fidarsi delle interpretazioni che ne dànno i sommi sacerdoti.

Non so voi, ma io dissento: perché “ricerche” siffatte non servono a niente, non sono un buon investimento per il futuro dei nostri figli e della nostra società.

Vietare non serve a nulla, ma è un bell’alibi quando l’adulto non sa più che pesci pigliare

Il portale TicinoLibero ha dato notizia che tre parlamentari – il popolare democratico Giorgio Fonio, il socialista Henrik Bang e la liberale Maristella Polli – hanno presentato un’interrogazione per chiedere di proibire i cellulari a scuola, mirando ad arginare il fenomeno bullismo.

Scrivono che «Sui telefonini l’assedio si moltiplica per dieci, per cento, per mille. Chi è finito nel mirino ha l’impressione che non ci sia nulla da fare, che sia impossibile difendersi. Nasce un senso di solitudine e di impotenza. La vergogna spesso conduce al silenzio: non si osa parlarne ai genitori, ai docenti. Il ragazzino, l’adolescente, si deprime. Se la cosa si prolunga nel tempo, possono comparire idee suicidarie e in qualche caso la vicenda finisce in tragedia».

La proposta non è una novità assoluta. Già sul finire del 2006 un altro parlamentare liberale, all’epoca pure insegnante di scuola media, aveva chiesto al Consiglio di Stato se non fosse «finalmente intenzionato a proibire totalmente l’uso del telefonino in tutte le scuole obbligatorie del Cantone». Avevo commentato la notizia sul Corriere de Ticino del 12 gennaio 2007: Telefonini a scuola: educare o reprimere?

La mia opinione, oggi che sono passati dieci anni, non è per nulla cambiata, anche se di miglioramenti concreti non se ne sono visti, malgrado la drammaticità di tanti esiti.

A scuola, come in famiglia, certi divieti sono il chiaro segnale di adulti che non sanno più che pesci pigliare: ma i docenti sono professionisti formati e pagati per fare scelte educative  attendibili, a differenza dei genitori. Oso credere che la sparata dei tre parlamentari sia una sorta di sasso nello stagno, per svegliare chi non dovrebbe proprio dormire.

Insomma: e se la scuola ricominciasse a educare e a far cultura, smettendo di essere al traino dell’economia globalizzata? Se la piantasse di essere schiava di una selezione controproducente, iniqua e costosa, e tentasse invece di puntare alle vere finalità della scuola pubblica e obbligatoria?