«Da grande mi piacerebbe davvero fare l’insegnante»

Ai primi di dicembre i mass-media hanno riferito diffusamente di una ricerca commissionata dal DECS al Centro di ricerca sui sistemi educativi del DFA: «Lavorare a scuola. Condizioni di benessere per gli insegnanti». Ha riassunto il committente: «L’8% dei docenti presenta sintomi di gravità media o elevata da esaurimento legato alla professione (burnout)». I dati dicono che l’80% dei docenti non sta rischiando lo sfinimento, mentre quell’altro 20%, mica un’inezia, è a livello di guardia. «Solo pochi docenti – continua il comunicato – presentano sintomi di gravità media, e una minima parte di gravità elevata». Sui motivi che innescano il burnout, la ricerca menziona «l’accresciuta diversificazione dei compiti, l’aumento della responsabilità educativa e il peggioramento dell’immagine della professione diffusa a livello sociale». Cosa fare coi dati emersi non è naturalmente un problema dei ricercatori, anche se Luciana Castelli, responsabile del progetto, ha tenuto a gettare acqua sul fuoco attizzato da qualche catastrofista. Ad esempio il portale tio.ch titolava: «550 docenti sono ‘sfiniti’ e temono per il loro futuro nelle scuole». Giustamente la ricercatrice ha precisato che si tratta di una quota contenuta, che non deve inquietare, benché non sia da trascurare.

Come ogni ricerca ben fatta, anche questa dà qualche risposta e stimola nuove domande. Si sa che la storia personale di ognuno ha a che fare con la decisione di scegliere cosa si vuol fare da grande. È vero che il caso gioca le sue carte, ma a volte sarebbe interessante conoscere quali erano i motivi della scelta e le attese. Per restare ai docenti, ci sarà chi, magari per belle esperienze di volontariato con bambini e ragazzi, ha voluto trasformare l’episodio in professione. Ci sarà chi è stato incitato da motivi etico-politici, per contribuire all’educazione dei cittadini di domani. E ancora, qualche insegnante di scuola media avrà voluto trasmettere alle nuove generazioni il suo amore per la matematica, la letteratura, il tedesco o l’inglese, le scienze o la geografia – senza naturalmente escludere ragioni più prosaiche: ha scritto Don Milani – ma parlava degli anni ’60 – che «quel posto ha fatto gola a tanti cui di fare il maestro non importa nulla. Se aumentate l’orario spariranno tutti». Dissento, perché fare il maestro può essere un lavoro difficile e faticoso. Ma non si può escludere che ci sia chi imbocchi la carriera magistrale per le vacanze o per il sogno di una vita in cattedra, al di là delle severe selezioni per l’entrata al DFA e dei controlli impietosi esercitati da ispettori, direttori ed esperti di materia.

Allora, ci si può chiedere, chissà se queste moderne rarità pedagogiche saranno capaci di salvarsi dal burnout? Sarebbe interessante incrociare i dati di questa ricerca con le storie di ciascuno, con le sue realtà esistenziali, le scelte di fronte alla professione e al futuro. Forse da un esame di tal fatta uscirebbero elementi di rilievo per orientare la selezione dei futuri insegnanti e, soprattutto, per munirli, sin dalla formazione di base, delle armi più adatte per blindare le proprie sensibilità, rafforzare le fragilità e forgiare insegnanti credibili per la scuola della Repubblica, donne e uomini che sappiano insegnare con grande rigore anche ai più recalcitranti, e che siano in grado di formare, con lungimiranza, futuri cittadini nel caos sociale, politico e culturale odierno – ciò che non è scontato: perché nessuno sa come sarà il mondo vent’anni dopo.


Nel sito del DFA è possibile scaricare il rapporto e la rassegna stampa.