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Serve una rivoluzione contro l’analfabetismo del pensiero

La nostra scuola si appresta a vivere molti cambiamenti in quest’anno appena iniziato. Per restare alle trasformazioni più appariscenti, sarà l’anno di HarmoS, che entrerà nel vivo a partire da settembre. Poi vi sarà il passaggio al Cantone dei docenti di sostegno pedagogico delle scuole comunali, ciò che dovrebbe pure comportare un potenziamento del servizio. Sul breve termine scadrà il concorso per l’assunzione del nuovo direttore del DFA, al quale spetterà il non facile compito di rasserenare l’ambiente e, soprattutto e finalmente, di dar vita a curricoli di formazione e di abilitazione degli insegnanti coerenti con gli obiettivi della casa madre – la SUPSI – e rispettosi delle attese del Paese. Restano poi nell’aria le tante proposte di riforma nella scuola dell’obbligo, contenute in due distinte iniziative popolari che hanno ottenuto migliaia di consensi: classi meno affollate, più sostegno pedagogico, più mense e doposcuola. L’enorme cantiere, a sentire i progettisti, dovrebbe servire a una migliore formazione dei nostri ragazzi e dei nostri giovani. La prova del nove seguirà tra un paio di decenni. Però non si è ancora entrati nel vivo del significato della «migliore formazione», che continua a essere un coacervo di inespresse visioni tanto o poco soggettive.
Oltre quarant’anni fa, in quell’epoca di confine tra un prima e un dopo, circolava uno slogan, che alcuni attribuivano a Ernesto Guevara: «El niño que no estudia no es buen revolucionario». Oddio, per dirla tutta questo motto non era tra i più gettonati, a favore di altri meno impegnativi. A me, che non sono comunista né lo sono mai stato, quella frase piace sempre più. Innanzitutto credo davvero che una rivoluzione, dentro tante aule scolastiche, sia auspicabile. Urge fornire i cittadini di domani e dopodomani degli strumenti per leggere il mondo: sono strumenti complicati, formati da tante competenze e nozioni che bisogna essere in grado di mettere in relazione tra loro. Si tratta di attitudini difficili da valutare nel loro complesso, ma sicuramente più vantaggiose per gli individui e per la società intera. Perché le famose «teste ben fatte» rappresentano l’ineludibile piedistallo sul quale erigere la libertà individuale, l’unico autentico cane da guardia della democrazia. Dovremmo riuscire al più presto a lasciarci alle spalle quella scuola che si vorrebbe immediatamente spendibile, a favore di un luogo di educazione a tutto campo, in cui la lingua italiana, la riflessione e la cultura tornino a essere al centro dell’azione della scuola, dei suoi istituti e dei suoi insegnanti. Una testa ben fatta, ad esempio, permette di difendersi dall’incretinimento televisivo, aiuta a intuire che non vale la pena indebitarsi per acquistare il SUV in leasing, scoraggia l’abituale sbornia del sabato sera, agevola il progetto della propria vita e consente di educare i figli consapevolmente. Con una testa così si prendono addirittura meno rischi quando si va a votare: perché è più difficile turlupinare il cittadino che, avendo imparato a riflettere sin dal suo accesso a scuola, continuerà a studiare perché c’ha preso gusto. Ho letto in questi giorni un bel libro di Valerio Varesi, «La sentenza». Ne cito un passaggio esemplare: «Dopo Ilio prese la parola Vampa, (…) e già dalle prime frasi apparve chiaro che avrebbe perso il confronto agli occhi della giuria partigiana. Il commissario politico aveva parlato con linguaggio semplice, ma efficace, mentre Vampa s’inceppava, stentava, bisticciava con le frasi e si vedeva che pensava in dialetto tentando di tradurre in italiano. Jim capì che si trattava di un processo squilibrato e che anche lì, tra i comunisti, c’erano le differenze di classe che Ilio a parole avrebbe voluto annullare. Sui venti partigiani quasi analfabeti l’eloquenza del commissario politico l’avrebbe avuta vinta comunque». L’analfabetismo di oggi non è più solo una questione di ignoranza del leggere e dello scrivere: c’è un analfabetismo del pensiero da affrontare in fretta.

«Pestalozzi! Chi era costui?», ruminava tra sé il giovane maestro

Johann_Heinrich_PestalozziCon una certa sorpresa, negli scorsi giorni ho ricevuto diversi messaggi di apprezzamento in seguito all’ultimo articolo comparso in questa rubrica, in cui sostenevo che se la scuola è una cosa seria non può espellere i suoi allievi problematici. Mi riferivo, naturalmente e in primo luogo, alla scuola dell’obbligo, per dire che se un allievo assume comportamenti strafottenti e aggressivi, attraverso l’espulsione gli si suggerisce implicitamente che, in fondo, andare a scuola non è poi così importante. Non mi sembra una proposta di chissà quale originalità, anche se è pur vero che la gestione dei cosiddetti casi difficili tende sempre più all’esclusione piuttosto che all’integrazione. Eppure la storia della pedagogia e della scuola ci dice proprio il contrario. Johann Heinrich Pestalozzi, nel 1799, accoglieva a Stans gli orfani della rivoluzione francese, bambini e ragazzi allo sbando: «Questi ragazzi erano nella condizione alla quale conduce in generale necessariamente l’estrema degenerazione della natura umana. Molti di essi arrivavano affetti da scabbia così inveterata da poter appena camminare, molti con le teste piagate, molti con stracci carichi di insetti, molti magri come scheletri, gialli, ghignanti, con occhi pieni d’angoscia e con fronti cariche di rughe della diffidenza e della preoccupazione, alcuni pieni di audace sfrontatezza, abituati alla mendicità, all’ipocrisia e ad ogni falsità, altri oppressi dalla miseria, pazienti ma sospettosi, incapaci di amore e timorosi. […] Dovunque pigra inazione, insufficiente esercizio delle loro facoltà spirituali e delle loro attitudini fisiche essenziali. Appena uno su dieci conosceva l’abc. Di altre conoscenze scolastiche e di altri mezzi essenziali di educazione non era neppure il caso di parlare». Questa la situazione, da far tremare i polsi a ogni educatore: ma Pestalozzi conduce la sua battaglia per educarli, perché l’educazione è per lui un obiettivo morale.
E così altri personaggi chiave della storia della pedagogia: Jean-Marc Gaspard Itard, medico ed educatore, studiò il caso del ragazzo selvaggio dell’Aveyron, quello del bel film di François Truffaut, studio sul quale baserà gran parte della sua opera; Janusz Korczak, che nel 1942 rifiutò di abbandonare i “suoi” ragazzi nell’orfanotrofio del ghetto di Varsavia e svanì con loro a Treblinka, lasciò fondamentali insegnamenti sui diritti dei bambini e ideò dei formidabili approcci per insegnare a dominare le proprie pulsioni; e ancora, Don Lorenzo Milani, a Barbiana, cercava di istruire ed educare i figli delle classi più popolari in un’epoca in cui erano per lo più destinati all’analfabetismo. Si tratta, assieme a tanti altri, di uomini e donne che costituiscono uno straordinario patrimonio di idee, proposte ed esperienze che ogni insegnante della scuola dell’obbligo dovrebbe conoscere a menadito e conservare in uno speciale scomparto della sua «cassetta degli attrezzi».
Da almeno trent’anni, pur tuttavia, la formazione degli insegnanti ha preso altre vie. Messe in soffitta la pedagogia, la sua storia e la vecchia didattica generale, oggi van di moda le didattiche disciplinari e super specializzate, con quel loro sinistro profilo tecnologico che, in classe, si trasformano in tecnocrazia, anche per l’assenza di un fondamento etico che, semmai, le sappia concertare in un solido progetto educativo. Pestalozzi era molto sensibile alle varie dimensioni dell’educazione, ch’egli divideva in tre gruppi fondamentali: la testa, il cuore e le mani. Per le moderne scienze dell’educazione sembrerebbe che tutto ciò sia un inutile ciarpame, anche se i ragazzi difficili di oggi non sono neanche l’ombra sbiadita degli orfani di Stans. Insomma: studiare da maestro senza conoscere Pestalozzi è come per un fisico ignorare Einstein. Ma pare che nella scuola di oggi ciò sia possibile: con quali risultati, ottimisticamente, staremo a vedere.

Quando la scuola non sa più che pesci pigliare

Il Gran Consiglio zurighese ha recentemente modificato la sua legge scolastica: chiamato ad esprimersi sulle sanzioni da adottare nei confronti degli scolari più indisciplinati, il parlamento ha inasprito le norme sull’espulsione, spostando il periodo massimo da quattro settimane a tre mesi. «L’associazione dei docenti zurighesi, categoria alle prese con un numero crescente di casi difficili, ha accolto la riforma favorevolmente». Fin qui la notizia. Stupisce l’amplificazione della sanzione, che suggerisce come il limite precedente di un mesetto scarso aveva manifestato tutta la sua inefficacia. Durante un’interessante serata proposta recentemente a Locarno dall’Istituto Universitario Federale per la Formazione Professionale, sul tema degli insegnanti in difficoltà, l’illustre pedagogista francese Philippe Meirieu ha osservato, con una certa arguzia, che a scuola non è mai mancata l’occasione per annoiarsi. Solo che una volta ci si annoiava educatamente, mentre oggi è facile che il tedio si manifesti con comportamenti aggressivi contro l’insegnante, i compagni e le cose. È però chiaro che una sanzione, come l’allontanamento, perde tutto il suo potere dissuasivo nel momento in cui il colpevole non riconosce più come importante il fatto di frequentare la scuola, e magari di imparare e riuscire nello studio. Vi sono senz’altro delle cause interne alla scuola stessa; ma è anche abbastanza evidente che al giorno d’oggi il sapere, la cultura, la riuscita negli studi non sono più valori socialmente spendibili e riconosciuti. Per affermarsi come cittadino adulto sono altri i valori veicolati dalla società: la furbizia, la disinvoltura, l’aggressività, la faccia tosta, un bel corpo. Ci sono professioni che rendono ricchi senza bisogno di far capo agli inutili orpelli della conoscenza e della cultura. Come se non bastasse, ci si potrebbe chiedere se la scuola di oggi, così utilitaristica e sempre più votata a rispondere alle esigenze del mondo economico, sia ancora in grado di produrre cultura. Eppure è questo che la scuola dovrebbe fare: produrre cultura, che è una combinazione straordinaria di nozioni e competenze.
La tradizionale punizione, che si manifesta con una gamma che va dal rimbrotto all’espulsione, è utile solo se il «colpevole» riconosce il progetto della scuola e vi aderisce. Paradossalmente il fatto di allontanare un allievo dalla scuola perché la prende a calci finisce col rendergli un favore e magari creargli l’aura di eroe di fronte ai suoi pari. Certo, la classe ritroverà un po’ di tranquillità; nel contempo l’espulso dedurrà che la frequenza non è poi così importante e costruirà egli stesso la sua scuola: quella dell’arte di arrangiarsi che, in condizioni estreme di esclusione sociale (e assai spesso, in questi casi, familiare), può facilmente spianare la strada verso la criminalità. E allora? Ci si potrebbe chiedere, ad esempio, se il rimedio non potrebbe risiedere in un intelligente supplemento di scuola, proprio per evidenziarne l’importanza. Rompi le scatole durante la lezione di scienze, ti dai al turpiloquio e fai lo scemo, insulti l’insegnante e, perché no?, lo aggredisci fisicamente? Va bene. Ti condanno a seguire un corso parallelo di filosofia, di letteratura, di storia, di diritto e di storia dell’arte. Non ti farò esami e non ti darò note, non sarà un corso che avrà ricadute dirette sulla pagella. Però, ragazzo mio, ti obbligherò a stare un po’ di ore sui libri, ti farò scrivere e pensare, discuterò con te, cercherò di capire da dove vengono la tua avversione e il tuo odio. Il tutto potrebbe durare anche più dei tre mesi della sospensione; ma, come minimo, non sarai stato in giro a oziare e a delinquere. Insomma: se la scuola è una cosa seria, tanto vale essere conseguenti e credere fermamente che nessuno possa essere condannato prima del tempo a restare una bestia. La scuola pubblica deve educare e integrare, invece di decretare l’emarginazione di chi, solitamente, emarginato lo è già.

L’ineffabile indifferenza alle differenze

Checché ne dicano i tanti darwinisti dell’educazione, diffusi anche da noi, uno dei problemi principali della scuola dell’obbligo resta quello della lotta all’insuccesso scolastico. Com’è noto ai più, fallire la scuola elementare o media non è solo una questione di materia grigia: lo si sa quasi da sempre che più si scende la scala sociale, più ci si avvicina alla possibile bocciatura, indipendentemente dal quoziente intellettivo. Non tutti nascono con la camicia, e già quella è scalogna. Ma al tracollo possono contribuire cattivi insegnanti, maestri particolarmente selettivi e insensibili alle necessità dei singoli; oppure ancora motivi strutturali, tra i quali si citano, non sempre a proposito, il numero di allievi per classe o la presenza di insegnanti speciali, come il docente d’appoggio o quello di sostegno pedagogico. Onestamente, però, non è lecito individuare un unico aspetto attorno al quale erigere tutta l’impalcatura per sconfiggere l’insuccesso scolastico. Un maestro incapace e/o pelandrone resterà tale con quindici o con venticinque allievi. Eppure la tendenza generale continua a dividersi in due fazioni distinte: di qua vi sono coloro che auspicano un bel salto nel passato, quando il figlio dell’avvocato poteva solo avere successo, mentre quello dello spazzino stava lì a boccheggiare, senza riuscire a colmare il distacco. Di là, invece, c’è la schiera di quelli che, incuranti delle tante variabili in gioco, risolverebbero tutto con misure strutturali: la diminuzione del numero di allievi per classe, il potenziamento del sostegno pedagogico, la lotta alle pluriclassi e via elencando.
A partire dagli anni ’70 il Canton Ginevra si era mosso proprio nella direzione che molti vorrebbero imboccare anche in Ticino. Forte di un consenso diffuso tra operatori scolastici, uomini politici e genitori, Ginevra aveva avviato un’importante riforma delle sue scuole elementari, caratterizzata da una significativa diminuzione del numero di allievi per classe e da un altrettanto notevole potenziamento del servizio di sostegno pedagogico. Vent’anni dopo, tuttavia, il Servizio della ricerca sociologica aveva constatato che l’insuccesso scolastico era diminuito solo in maniera molto parziale e che, inoltre, la percentuale dei bocciati socialmente fragili era addirittura aumentata. La ricerca è del 1993 e il suo direttore, Walo Hutmacher, l’aveva pubblicata con un titolo emblematico: «Quand la réalité résiste à la lutte contre l’échec scolaire». È un problema di indifferenza alle differenze, come aveva già notato il sociologo Pierre Bourdieu nel 1966, che si insinua come un sassolino tra gli ingranaggi delle pari opportunità e li blocca: fingendo che non esistano delle eredità sociali e che, di conseguenza, tutti abbiano diritto al medesimo insegnamento, la scuola fabbrica riuscite e fallimenti scolastici senza la capacità di correggere le disparità preesistenti sin dalla nascita. Già avevo scritto dell’iniqua richiesta di diminuzione generalizzata del numero di allievi per classe, pretesa dall’iniziativa popolare «Aiutiamo le scuole comunali» (CdT del 7.10.09). Lo stesso discorso vale per il potenziamento, essenzialmente quantitativo, del sostegno pedagogico, una riforma su cui sta lavorando il Dipartimento e che, con buona probabilità, sarà una realtà in tempi brevi. Credere che questa ristrutturazione accrescerà in modo sostanziale la qualità della nostra scuola è come minimo un’ingenuità: nelle scuole che non ne hanno bisogno aumenterà la segnalazione di allievi in (presunta) difficoltà, mentre in altre si continuerà a fare quel che si può. Si tratta, ancora una volta, di un mal inteso senso dell’uguaglianza e delle pari opportunità. Insomma, siamo di nuovo all’inveterata indifferenza alle differenze, che porterà oneri finanziari in più, aumenterà le disparità sociali e lascerà immutato il problema originario, quello della lotta all’insuccesso scolastico: che non bastona quasi mai a caso e che continuerà a generare costi di ogni tipo.


L’articolo è stato pubblicato sul Corriere del Ticino col titolo Un mal inteso senso delle pari opportunità.