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Educare in un mondo a portata di clic

Da più parti ci si chiede cosa stia succedendo nel mondo dell’educazione, con l’avvertenza che questo variegato universo non è popolato solo dagli insegnanti nelle loro scuole. Al contrario, e più correttamente, gli insegnanti sono solo uno dei tanti agenti che contribuiscono all’educazione degli individui. Intendiamoci, è sempre stato così. Uomini e donne son sempre cresciuti, nel corpo e nella mente, soggiacendo all’educazione di qualcun altro: genitori, parenti e insegnanti in prima linea, ovvio. Ma poi bisogna metterci la storia, le tradizioni, la politica e i politici, i mezzi di comunicazione e tutta una trafila di situazioni che non influenzano solo il bambino, individuo in crescita, bensì anche i suoi tanti, e a volte inconsapevoli, educatori.

Per intenderci: ognuno di noi è il prodotto in parte della biologia e in parte dell’educazione. La biologia fornisce l’hardware, per usare un termine tecnologicamente attuale. Nasciamo con una parte “tecnica” più o meno predefinita, quel corpo che è la nostra scatola, con tutti i suoi apparati e i suoi sistemi. Saremo belli o brutti, bianchi o neri, alti o bassi, I oppure O, con tanto o poco cervello (acceso e, forse, pure funzionante). L’ambiente in cui cresceremo si occuperà del resto, in barba all’astrologia. Non si sa se Mozart avrebbe scritto il Flauto magico se fosse nato – poniamo – nel Minnesota, così come è difficile credere che il nome e l’opera di Euclide avrebbero potuto superare indenni quasi tremila anni di storia se il grande matematico fosse cresciuto in qualche sperduta valle delle alpi Lepontine.

Insomma: da che mondo è mondo homo sapiens è sempre stato il prodotto di tre elementi fondamentali che continueranno a interagire durante tutto il corso della vita, un cammino che, fino a non molti anni fa, procedeva con una certa sopportabile lentezza. Homo sapiens, in altre parole, dipende dalla sua biologia, che non è uguale a quella delle ghiandaie o delle pantere nere dell’isola di Giava, così come non è la stessa cosa nascere uomo o donna. È poi un primate che, per molti motivi piuttosto evidenti, ha una vita sociale molto intensa. A parte qualche eremita che tenta di isolarsi dal mondo che lo circonda, normalmente siamo confrontati con una società piccola o grande, con le sue regole, le sue abitudini, i suoi modi di intendere la vita: con chi comanda e chi ubbidisce, chi serve e chi è servito, chi collabora e chi mette i bastoni tra le ruote, chi ama e chi è amato. L’uomo, infine, produce cultura, che non è solo la cultura dei libri e della scuola, ma – per citare un noto antropologo britannico, Edward B. Tylor (1832-1917) – «La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società».

Negli ultimi anni, tuttavia, sembrerebbe che qualcosa si sia rotto nei processi di educazione, coinvolgendo in questa rivoluzione la nostra biologia, il nostro senso del sociale e, naturalmente, anche la nostra cultura. Ricordo con particolare emozione l’epoca più rinomata della conquista dello spazio. Avevo otto anni quando Jurij Gagarin, a bordo della navicella Vostok 1, portò a termine la sua orbita attorno alla Terra, e ne avevo sedici quando Neil Armstrong e “Buzz” Aldrin allunarono nel Mare della Tranquillità. Sembra preistoria, soprattutto se si pensa che i ventenni e i trentenni di oggi hanno al massimo sentito parlare di quegli anni – e in qualche caso sorrideranno di fronte a queste vicende di archeologia informatica e tecnologica, magari mescolando la Luna e Woodstock, Michael e Phil Collins.

Ma sono soprattutto l’informatica e la telematica ad aver scompaginato un fracco di piani: finanziari, economici, culturali, … E, senz’altro, anche educativi. A scanso di equivoci e di moralismi gratuiti: sto scrivendo questo articolo al computer, perché è comodo e mi permette molte più libertà rispetto ai “bei tempi” della macchina per scrivere (e anche in tipografia saranno contenti di non dover ricopiare queste righe, interpretando in qualche modo le aggiunte autografe a zampa di gallina e le correzioni sovente misteriose). Il computer e le sue derivazioni sono strumenti che pratico con tanta o poca regolarità. Ho anch’io il telefonino, ma non ho bisogno di trascorrere il tempo in auto chiamando amici e parenti per raccontare chissà quali vicende mirabolanti e, soprattutto, improrogabili. Uso la posta elettronica, perché è un mezzo straordinario di comunicazione, sia professionale che privata. Invece che lettere e cartoline, ogni tanto mando e-mail agli amici sparsi in giro per il mondo: non è un mezzo invasivo, chi riceve le mie lettere – sì, sono ancora lettere: perché ho la buona abitudine di rileggere quel che scrivo e di correggere gli errori – le leggerà se e quando ne avrà voglia. E magari mi risponderà pure. Uso pure Skype, quella specie di telefono che mi permette di chiacchierare mezz’oretta con l’amico lontano, addirittura guardandolo negli occhi. E scatto fotografie, ascolto musica, recupero bibliografie e informazioni diverse. Evitando, pur con tutti gli scongiuri del caso, di farmi sopraffare dalla tecnologia e dalle macchine: perché voglio mantenere il controllo di me stesso.

Ho l’impressione che non per tutti sia così. La ricerca della SUPSI (v. riquadro) dice ad esempio che il 92% degli allievi di scuola elementare e il 98% degli allievi di scuola media naviga regolarmente in internet, spesso con ritmi di almeno una o due ore al giorno. Dicono di giocare, cercare e scaricare musica e filmati, chattare, partecipare ai social network, cercare informazioni, girovagare per YouTube. Faccio fatica a capire come sia possibile che un gran numero di genitori apra il web ai loro pargoli già in tenera età, magari con qualche sacrificio per acquistare computer, stampante, scanner, schermo, modem, smartphone, coi relativi abbonamenti mensili tutt’altro che a buon mercato, mentre nuovi gadget ci stan facendo l’occhiolino. Forse sono convinti di fare il loro bene, di investire nel loro futuro, laddove la scuola, così conservatrice e ottusa, tende a rimirarsi e autocompatirsi, guardando ossessivamente nello specchietto retrovisore. Eppure l’educazione e la crescita intellettuale richiedono dedizione e fatiche. Non ci sono scorciatoie e trucchetti per costruire menti ben fatte, per usare l’azzeccata definizione del sociologo e filosofo Edgar Morin. Quando riusciranno a recuperare, i nostri bambini e ragazzi, il tempo per leggere un libro (o ascoltarne la lettura da genitori accorti), per godersi un brano musicale, per fare un disegno, per giocare con gli amici? O, molto più semplicemente, per oziare, attività di grande impatto educativo? E ancora: dove sarà la loro mente tra un viaggio nel cyberspazio e l’altro?

Ma c’è un’altra domanda: chi è riuscito a compiere il miracolo di convincere tante persone adulte e dotate di normale intelletto che non è possibile fare a meno di Facebook, di Twitter, di YouTube, dello smartphone e via elencando? Quand’ero in magistrale – preistoria, ormai – al primo anno di psicologia avevo scoperto i “persuasori occulti”, quei professionisti dell’esortazione al consumo che, attraverso pubblicità a volte al limite della legalità, ti convincevano che Omo lava più bianco, che Ava come lava e che contro la caduta dei capelli era indispensabile la brillantina Linetti. Ovviamente spray. Col tempo le strategie si sono affinate. Oggi si dice che anche per riuscire in politica contano sempre più le tecniche di comunicazione, i modi di vendere la propria immagine; le capacità tangibili pesano meno. E, purtroppo, l’esito è fin troppo evidente, qui come altrove. Internet è il vero “Grande Fratello”. È attraverso internet che si può addirittura diventare amici e dare del tu ai nostri idoli, siano essi politici di caratura mondiale (in Facebook si possono incontrare Vladimir Vladimirovič Putin e Barack Obama), cantanti, sportivi o attori. Nel nostro cantone ci sono politici noti per essere dei prodi smanettatori della tastiera del computer, con tanto di pagine sul più famoso social network, si chiamino poi Paolo Beltraminelli, Manuele Bertoli o Norman Gobbi (ma c’è anche quasi tutto il Consiglio federale).

Woody Allen girò un film – «Il dormiglione», del 1973 – ambientato duecento anni dopo, in un mondo dominato dai computer e da tante «agevolazioni». Si pensi che uomini e donne, in quegli anni dorati e moderni, non facevano più l’amore, ma entravano in una specie di boiler con tante lucine, l’Orgasmatic, e dopo qualche attimo ne uscivano felici e appagati. Stanley Kubrick, nel 1968, presentò 2001: Odissea nello spazio, un cult del genere fantascientifico. Resta memorabile la scena in cui uno degli astronauti, a bordo della Discovery One diretta verso Giove, tenta di disconnettere (uccidere!) il supercalcolatore HAL 9000. Quest’ultimo si comporta come un normale umano e, per salvarsi la “vita”, tenta la via del piagnucolio più subdolo, nel tentativo di intenerire l’astronauta.

Ha scritto Jean-Jacques Rousseau, l’autore di Émile ou De l’éducation, libro del 1762: «Rendete il vostro allievo attento ai fenomeni della natura, e lo renderete ben presto curioso; ma, per alimentare la sua curiosità, non vi affrettate mai a sodisfarla. […] Ch’egli non sappia nulla perché glielo avete detto voi, ma perché l’ha compreso da sé […]. Se mai sostituirete nel suo spirito l’autorità alla ragione, egli non ragionerà più; non sarà più che il giocattolo dell’opinione degli altri».

È questo, soprattutto, che temo: che adulti e bambini siano ormai vittime dei pensieri altrui, di quei poteri forti che, attraverso la comunicazione sempre più supersonica e fallace, brigano per accrescere i loro guadagni, siano essi finanziari o di egemonia politica, economica o semplicemente narcisistica. In siffatto contesto gli educatori – genitori e insegnanti in primis – si ritrovano al fronte in braghe corte e retino per farfalle, a combattere contro eserciti tremendi, armati di tecnologie inimmaginabili.

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Questo articolo è stato pubblicato sul n° 1 del gennaio 2013 del mensile illustrato del Locarnese e valli “La Rivista”.