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L’etica in classe

A proposito delle nuove “Direttive sui comportamenti inadeguati in ambito scolastico” recentemente emanate dal DECS

Ho sempre inteso che le finalità della nostra scuola, impresse nell’art. 2 della Legge, contengono ed enunciano gli obiettivi più rilevanti. Richiamata la collaborazione con la famiglia e l’intero contesto in cui la scuola è inserita, i legislatori del 1990 puntarono alle istanze di giustizia e di libertà, attraverso la realizzazione, crescente con gli anni, del senso di responsabilità, dell’educazione alla pace, al rispetto dell’ambiente e agli ideali democratici. È una missione etica ed estetica, tesa a trasmettere – per dirla con l’antropologo britannico Edward Tylor (1832-1917) – quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società: cioè la cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico.

Il percorso è lungo, inizia con l’entrata nella scuola dell’obbligo e non dovrebbe mai terminare. Nel Piano di studio quelle finalità sono più sfumate, disseminate nei diversi capitoli che lo compongono. Non vi si leggono richiami specifici alle esperienze di pedagogia istituzionale, evocate dal filosofo e pedagogista americano John Dewey, secondo cui l’etica e la democrazia dovrebbero essere insegnate attraverso l’esperienza pratica e la partecipazione attiva degli allievi – teorie poi riprese da molti altri in Europa e nel mondo.

Gli spazi scolastici da dedicare allo sviluppo dell’etica e ai valori della democrazia non sono propriamente istituzionali, cosicché gran parte del compito poggia sulle spalle degli insegnanti e sulla loro capacità di stare a scuola con l’atteggiamento migliore per coniugare i contenuti dell’insegnamento coi fondamenti dell’educazione. Le occasioni sono giornaliere, basta saperle cogliere: quando si discute coi propri allievi, quando si aiuta chi è in difficoltà e si sprona chi ne ha bisogno, quando si valuta, quando si consiglia o si reagisce a ciò che gli allievi portano in classe, quando si elogia o si rimbrotta. E quando si parla coi loro genitori, alla ricerca delle necessità e delle urgenze educative, che devono trovare dei punti d’incontro, senza ricatti né prevaricazioni, da una parte come dall’altra.

«In nessun altro sistema sociale – avevo scritto in un articolo del 2000 (pp. 11-21) – la realtà è tanto frammentata e diversificata come nella scuola; le norme variano a seconda della personalità dell’insegnante, del suo umore, della sua storia, della sua visione dell’esistenza, del suo credo pedagogico. Ogni insegnante, di conseguenza, ha una sua maniera di approvare e disapprovare, di rimproverare ed elogiare, di punire e gratificare. In altre parole, ognuno ha un suo personale codice per regolare i comportamenti dei suoi allievi»: a condizione, naturalmente, che non ci si spinga mai oltre i rigorosi confini del Diritto.

D’accordo, sono passati cinque lustri, molti dei docenti di quegli anni sono usciti dalla scuola, il cambio generazionale è lì da vedere; così – si spera – anche i “codici penali” usati da ognuno. Sono convinto che l’autorevolezza sia più diffusa dell’autoritarismo, anche se gli autoritari, vestigia di una scuola che in troppi rimpiangono ancora, non si sono del tutto estinti.

Il DECS, un mese fa, ha emanato delle Direttive sui comportamenti inadeguati in ambito scolastico, che mi hanno francamente scombussolato. «Con “comportamento inadeguato” – si legge – si intende qualunque condotta impropria di adulti di riferimento che operano nella scuola. Un comportamento inadeguato si manifesta in particolare attraverso condotte, parole, atti, gesti, scritti capaci di arrecare offesa alla personalità, alla dignità o all’integrità fisica, psichica o sessuale di allieve e allievi, rispettivamente di metterne in pericolo l’apprendimento, oppure di degradare il clima di istituto».

A me pare una direttiva più autoritaria che autorevole. Mi ha scandalizzato il furore enciclopedico con cui si specificano le forme diverse dei comportamenti poco consoni a un insegnante, come se i vertici del DECS avessero improvvisamente percepito larghe fasce di insegnanti in qualche modo violenti, e, dunque, inadatti.

Il ventaglio dei comportamenti sconvenienti è molto ampio, ma non necessariamente definito in termini concreti, come richiederebbe ogni codice serio, che andrà applicato di fronte a contegni indegni della professione. Lo spettro delle interpretazioni soggettive e legate alla propria idea di etica (comportamenti adeguati vs comportamenti inadeguati) è dunque arbitraria. Ma quando il DECS promulga una direttiva del genere al termine di un anno scolastico, è come se stesse dicendo che un numero significativo di docenti ha palesato comportamenti inadeguati, che attentano alla dignità o all’integrità fisica, psichica o sessuale di allieve e allievi, per cui bisogna correre ai ripari.

Ora, quand’anche questa fosse la realtà percepita, potrebbe voler dire che a qualcuno le cose siano colpevolmente scappate di mano. In tal caso non è mai troppo tardi per intervenire, avviando le inchieste ritenute opportune e procedendo con le misure più consone, senza insabbiamenti né sconti: come si fa con le persone normali.

Così, invece, si dà al paese un pessimo messaggio, che rischia di gettare ombre sui tanti insegnanti che fanno degnamente il loro lavoro, sovente in solitudine, accollandosi quella missione etica della scuola che non ha bisogno di nuove e minacciose direttive: bastano le norme della scuola, i codici dello Stato e la Costituzione.

 

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Quando la scuola pensa al minimo

Nel messaggio per una nuova Legge delle scuole dell’obbligo, fissate le dimensioni minime perché un istituto scolastico possa dirsi tale

Quattro giorni prima della votazione per eleggere il Consiglio di Stato e il Gran Consiglio, il governo ancora in carica aveva inoltrato al parlamento il messaggio per sottoporre «l’adozione di una nuova legge, la Legge delle scuole dell’obbligo, in sostituzione di due leggi vigenti che dovranno contestualmente essere abrogate». La data, un po’ sospetta, non ha mancato di sorprendere la commissione parlamentare ‘Formazione e cultura’, cui spetta il compito di esaminarla e di proporre il suo parere al plenum.

La tempistica inopportuna e, secondo la commissione, il «mancato coinvolgimento effettivo a 360 gradi degli attori interessati» sono le prime criticità sollevate dalla commissione. Ne ha riferito laRegione, che ne ha parlato con il presidente Aron Piezzi.

Di per sé la nuova legge potrebbe anche essere ritenuta poco importante, una questione formale per riordinare le basi giuridiche sulla scuola dell’obbligo. Tuttavia nella nuova versione compare almeno un argomento – il concetto di Istituto scolastico minimo – che l’Esecutivo ritiene molto importante per garantire un’effettiva comunità d’apprendimento. In buona sostanze ciò significa che un istituto scolastico comunale – che si occupa dei primi sette anni della scuola obbligatoria – per essere riconosciuto come tale deve avere una dimensione adeguata: «due su tre dei criteri seguenti: sette sezioni al minimo, 150 allievi al minimo, popolazione di riferimento di almeno 2’500 abitanti». Ne consegue che le piccole scuole di paese saranno definitivamente condannate a sparire, non a causa dello spopolamento – com’era stato in altri anni – ma perché la politica e la scienza ritengono che scuole più piccole non sono delle vere e proprie comunità capaci di trasmettere cose importanti da imparare. Sarà interessante sentire come si comporteranno i firmatari di un’iniziativa parlamentare PLR del 2018, che chiedeva elasticità nell’applicazione della regola secondo cui per istituire una classe, che in qualche caso può configurarsi come un intero istituto, occorrono almeno 13 allievi.

Ne avevo scritto in un articolo di quell’anno, presentando dapprima i termini dell’atto parlamentare (in corsivo le citazioni del documento): «Tenuto conto che le scuole comunali rappresentano un elemento di vitalità senza il quale una regione sembra davvero destinata a morte certa dal profilo culturale e comunitario propongono che si tenga conto delle caratteristiche socioculturali degli allievi, del contesto socioeconomico e della morfologia territoriale della regione, per eludere la regola pignola del 13/25. Auspicano dunque che la sensibilità verso questo aspetto possa essere largamente condivisa, in modo da offrire un elemento di sbarramento alla tendenza allo spopolamento delle periferie e di speranza verso un futuro in cui si possa finalmente intravedere un’inversione di tendenza favorevole a uno sviluppo di tutto il Cantone».

Se il concetto di Istituto scolastico minimo dovesse essere accolto così com’è oggi proposto, continuerà la soppressione delle piccole scuole di paese sopravvissute, iniziata già anni fa, con la creazione di consorzi scolastici come ne è pieno il cantone, senza contare le aggregazioni tra comuni, che naturalmente hanno giocato al risparmio. Nell’articolo citato avevo così concluso: «Molte scuole, ormai, hanno chiuso baracca. I villaggi che hanno aderito ai consorzi ben difficilmente inseriranno la retromarcia. Ma forse è ancora possibile, in alcune zone, invertire la rotta», senza parlare delle numerose aggregazioni tra comuni, che hanno “ottimizzato” gli spazi per la scuola. «Nei panni di una giovane famiglia che vuole allontanarsi dalle città e da certe periferie adibite a dormitori – avevo aggiunto – vorrei che i miei figli frequentassero la scuola elementare in paese e che vi si recassero a piedi, percorrendo e imparando a conoscere le sue vie e viuzze, gli edifici, i campi e le piazzette: anche perché la pluriclasse è cool».

Dans les classes à plusieurs niveaux, les élèves sont incités à s’entraider (Immagine tratta dal sito dell’Università di Montpellier – V. nota in calce)

Sono da sempre un estimatore della ricchezza educativa della massima eterogeneità all’interno di quella che il nostro governo definisce, un po’ pomposamente, “comunità d’apprendimento”. Ma è dall’eterogeneità che si impara e si cresce, spesso addirittura più e meglio dei raggruppamenti che vorrebbero limitare gli scarti. Oggi il fattore età è l’unica variabile per definire che classe devo frequentare, salvo rallentamenti o geniali salti di classe.

Invece continua la corsa a raggruppare, aggiungere specialisti e dirigenti, perfezionare le didattiche, densificare i piani di studio, misurare, valutare, selezionare. La scuola dovrebbe promuovere l’eterogeneità e la collaborazione tra allievi. Invece continua imperterrita a lottare contro le pluriclassi, che sono viste per lo più come un male minore, se proprio non se ne può fare a meno: meglio, di solito, scarrozzare qua e là i propri ragazzi col bussino, alla ricerca spasmodica di un’efficienza che è poco più di una comoda convenienza per indifferenziare il più possibile l’insegnamento. Io incoraggerei le pluriclassi anche laddove i numeri dicono che se ne può fare a meno.

Ebbene, la legge che sancirà la nascita dell’Istituto scolastico minimo omologherà definitivamente la sacralità di quelle almeno sette monoclassi per almeno 150 allievi con una popolazione di riferimento di almeno 2’500 abitanti per poter entrare nell’empireo delle vere comunità d’apprendimento. Tutto il resto, parrebbe, sono bazzecole.

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L’immagine correda un interessante contributo di Sylvie Jouan, professoressa alla Facoltà dell’educazione dell’Università di Montpellier: Primaire : près d’un élève sur deux est scolarisé dans une classe “multi-âge”.

L’articolo citato era apparso nella mia rubrica sul Corriere de Ticino (Un villaggio senza la sua scuola è un villaggio senz’anima, 08.06.2018). Su temi analoghi avevo pubblicato, nel 2014, W l’eterogeneità, W le pluriclassi!

La scuola come istituzione, non come servizio

Docenti e allievi, fra piani di studio e pressioni delle famiglie

Su La Regione del 17 giugno, Giuseppe Cotti, vicesindaco di Locarno, ha pubblicato un’interessante opinione col titolo «Non esiste scuola senza rispetto». Tocca in particolare due temi d’attualità. «Gli insegnanti – scrive – si sentono confrontati, con frequenza crescente, con un clima ostile da parte delle famiglie».

Cotti coglie bene uno degli aspetti scatenanti di questo grave malessere che attraversa la scuola, assieme alla sua società di riferimento: «La scuola non è un buffet à la carte né una Landsgemeinde. Non possiamo consentire che venga trattata come un’entità negoziabile in cui selezionare solo gli aspetti che ci soddisfano personalmente».

Concordo. Quasi trent’anni fa il pedagogista francese Philippe Meirieu aveva già lanciato questo monito in un autorevole libro – L’école ou la guerre civile (pp. 64-5), titolo quant’altri mai premonitore. «La scuola – si legge – deve rinunciare alla gestione giustapposta e conflittuale di milioni di interessi privati; deve tornare a essere un affare pubblico. In altre parole, la scuola non è un servizio, è un’istituzione».

Poi chiariva: «Cos’è un servizio? È un’organizzazione che “fornisce servizi” a un gruppo di persone. La Posta è un servizio, come la rete stradale. La qualità di un servizio si misura dalla soddisfazione dei suoi utenti. Tuttavia, in una repubblica, devono esistere almeno tre organizzazioni che sfuggono alla logica del servizio: la giustizia, l’esercito e l’educazione. Queste sono istituzioni. Non si giudicano dalla soddisfazione dei loro utenti. L’educazione, durante il periodo dell’obbligo scolastico, deve obbedire a specifici valori. Non può diventare l’arena della competizione sociale. Chiedere alla scuola di soddisfare l’ambizione individuale di ognuno è condannarsi alla scuola-supermercato».

Purtroppo, è quel che è successo e continua a succedere dentro quel mondo complicato che è la scuola dell’obbligo, schiacciata tra pressioni delle famiglie, piani di studio stipati di competenze trasversali, dimensioni curricolari e una sovrabbondanza di aree e discipline, col loro corollario di traguardi di competenza illusori: un piano di studio che porta dritti al menu à la carte. Tuttavia, è proprio da questo piano di studio che, spesso, le famiglie prendono spunto per accusare maestri delle scuole comunali e professori della scuola media del fatto che i loro figli non imparano le conoscenze e le competenze così copiosamente illustrate e commentate in quelle 200 pagine di buoni propositi – si fa ovviamente per dire.

Nel citato articolo, Cotti osserva pure che «“Penuria” oggi è la parola più sentita, nella politica svizzera. L’abbiamo sentita nei dibattiti sull’energia, sulla situazione idrologica, sui farmaci essenziali e, ovviamente, sulla manodopera. A quest’ultimo proposito, molti Dipartimenti cantonali dell’educazione si sono trovati in gravi difficoltà. La scarsità di docenti ha obbligato, per esempio a Zurigo, ad assumere anche persone che non possedevano le qualifiche necessarie per gestire una classe». Oddio, nulla di scandaloso nell’assumere insegnanti senza le qualifiche richieste – fatto questo che non mette al riparo da competenze professionali carenti: perché un conto sono i diplomi, un altro ciò che i docenti sono in grado di fare.

Tra l’altro è già successo, negli anni ’70, nel Vallese francofono. Anche in Ticino, una decina di anni fa, per far fronte a una carenza di insegnanti nella scuola elementare, si era “snellito” il curricolo formativo previsto dal Dipartimento formazione e apprendimento (DFA) della SUPSI, mandando gli studenti dell’ultimo anno a “impratichirsi” a metà tempo come insegnanti contitolari nella scuola reale, come se fosse stato così difficile sapere che negli anni ’10 di questo secolo sarebbe iniziato un sostanzioso cambio generazionale, che chiamava a gran voce nuovi insegnanti, giovani e ben preparati.

Purtroppo, invece, siamo daccapo, con l’aggravante che, accanto a una riduzione del numero medio di allievi per classe, con proporzionale aumento delle classi di scuola, sono state inventate diverse figure professionali che, come formazione di base, esigono la patente di maestro: docenti d’appoggio, risorse casi difficili, operatrici per l’integrazione, docenti di lingua e integrazione…

Con tutto ciò, questa sorta di riforma della scuola, che è nata e cresciuta nel breve volgere di un decennio, ha coinciso con un importante ricambio generazionale, che ha messo sotto pressione il DFA, che è l’istituto chiamato a formare i docenti delle scuole comunali e abilitare all’insegnamento quelli del settore medio, una scuola che è più o meno coetanea di questa scuola dell’obbligo delle competenze.

Tuttavia è difficile capire se i docenti attualmente in carica sanno destreggiarsi dentro la ragnatela del piano di studio e, nel contempo, gestire le relazioni e la comunicazione con le famiglie dei loro allievi: perché organizzare la vita della classe, cioè un gruppo basato sul diritto e non sugli affetti, richiede la necessaria serenità e un congruo entusiasmo.

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I tempi della scuola

A ridosso dei giorni di fine anno scolastico, qualche considerazione sul calendario

Esiste un tempo giusto per andare a scuola? C’è qualche dato più o meno scientifico che determini quante ore alla settimana è necessario stare a scuola? E, parallelamente, qualcuno è in grado di dire con sicurezza qual è la miglior durata dell’anno scolastico e come si devono alternare i momenti scolastici e quelli dedicati al riposo? È una questione in parte astronomica, quasi cosmologica, e in altra parte antropologico-religiosa. Forse.

È sotto gli occhi di tutti che anche al centro dell’organizzazione dell’anno scolastico ci sia il Sole. Quando la terra avrà compiuto quattro rivoluzioni intorno al Sole, il bimbo nato poco dopo il solstizio d’estate dovrà andare a scuola. Ma l’economia preme, così che molti cuccioli di homo sapiens vanno già a scuola dopo tre giri, mentre altri sono affidati ai nidi per l’infanzia anche prima di concludere il primo giro: sennò non si sopravvive.

Questo circuito planetario scandisce tutto il resto. Dopo quei primi due giri obbligatori si entrerà nella scuola elementare, dove si permarrà per cinque giri. Poi nuovo cambio, per altri quattro giri. Da lì in avanti ognuno potrà continuare a inventarsi qualcosa al termine di ogni giro. Se lo desidera e glielo concedono.

Correttezza vuole che non si taccia sulle penitenze: come un grande gioco dell’oca, capita che qualche poveretto sia costretto a fare dei giri di penalità, oggi chiamati “rallentamenti” (una volta si chiamavano “bocciature”, ma la sostanza è la stessa): perché durante il giro bisogna superare tante prove, così da poter accedere direttamente al giro successivo.

C’è poi un secondo aspetto, antropologico-religioso, che determina i tempi. Come è noto, nel Canton Ticino l’anno scolastico apre i battenti a inizio settembre e chiude a metà giugno, dopo aver totalizzato 36 settimane e mezza (sic) di frequenza effettiva. Tra la partenza e l’arrivo si prevedono – ci mancherebbe – alcune soste per prendere fiato. Una pausa ogni tot settimane, come imporrebbe la logica? Neanche per sogno.

C’è una decina di giorni di vacanza attorno a Pasqua. Ma chi determina la data della Pasqua? Le necessità di riposo di docenti e allievi? No! La Pasqua è il deus ex machina delle feste mobili (e del calendario scolastico). La Pasqua cade nella domenica seguente il primo plenilunio che viene dopo l’equinozio di primavera. Chiaro? No? Amen.

Va da sé che la Pasqua, nel suo alone luminoso, genera innumerevoli altre pause. È il Cielo che prescrive le vacanze di Carnevale, così come il seguito di feste ammucchiate entro metà giugno (Ascensione, Pentecoste e, a volte, Corpus Domini). E le altre vacanze? Ci sono le vacanze autunnali, più note come «vacanze dei morti», che cascano in corrispondenza con Ognissanti. Seguono le mitiche vacanze di Natale. Restano le date d’inizio e fine dell’anno scolastico, nonché gli orari settimanali, che variano – e aumentano – in base all’età e alla tradizione. In Ticino le vacanze estive durano quasi due mesi e mezzo. In molti altri cantoni, soprattutto della svizzera tedesca, non è così, ma non è il caso di farne un dramma.

Nell’ultimo mezzo secolo sono cambiate tante cose. Sta cambiando il clima, e molti edifici scolastici sono stati ideati per riscaldare d’inverno, ma non per rinfrescare già in marzo. E tra i cambiamenti ai quali la scuola dovrebbe essere sensibile c’è tutto il mondo del lavoro, la qualità e l’entità dei salari, gli orari e la pianificazione delle vacanze.

La scuola ticinese sospesa in una bolla temporale (l’Aula storica Franscini di Lugano in una fotografia di Marco Beltrametti).

Così il cosiddetto doposcuola è diventato per molti una necessità sociale ed economica, e le ore del doposcuola possono essere più di quelle della scuola, anche se non si è capito come mai tocchi alla scuola, almeno quella obbligatoria, occuparsi anche dei suoi tempi morti – la refezione, il doposcuola, le colonie estive. Eppure, era cominciato col doposcuola ricreativo e artistico-sportivo, quello dei corsi di ceramica, pittura, teatro…

Poi arrivò il cosiddetto doposcuola sociale, per custodire i figli di tanti immigrati, di mamme sole che il sole non lo vedono mai, di poveri cristi che spesso non conoscono la lingua italiana, di famiglie che non hanno parenti nel territorio in cui vivono, lavorano e mandano i figli a scuola. Così sono nati gli asili-nido, le mense, le colonie diurne e quelle stanziali. Eravamo nella seconda metà degli anni ’70 del secolo passato.

Che ci siano i tempi della scuola e quelli della custodia e della sorveglianza è ormai un dato oggettivo, con percentuali di diffusione che variano naturalmente da un posto all’altro. Tuttavia, una maggiore articolazione tra i due potrebbe generare risultati vantaggiosi non solo, come ora, per l’economia privata, ma anche per gli allievi. Non si scordi che bambini, ragazzi e adolescenti che devono far capo ai servizi di custodia nei tempi morti della scuola portano sul groppone un carico supplementare di vita “sociale” – un po’ come fare gli straordinari: magari, al rientro, con qualche compito a casa, tanto per rallegrare quel breve tempo in famiglia, quando tutti sono stanchi morti.

 

Scritto per Naufraghi/e

La prima parte di questo articolo è stata tratta, con alcune modifiche, da un altro post presente in Cose di scuola: La scuola, la tradizione cattolica e il culto del sole (18.06.2014).

La foto di Marco Beltrametti (l’Aula storica Franscini di Lugano) è tratta dal progetto fotografico Aule.

Scuola e oneri burocratici

Se la gestione della scuola diventa sempre più complessa, non è il caso di aggiungere mansioni di segreteria a chi è in classe

Nel 2019 il deputato Aron Piezzi inoltrò al Consiglio di Stato un’interrogazione sul tema dell’onere burocratico nel cahier des charges degli insegnanti: «Molti attori della scuola dell’obbligo – aveva scritto – sono confrontati con un aumento non indifferente di oneri burocratici. Se da un lato essi possono considerarsi una necessità per lo svolgimento ottimale e professionale del proprio lavoro e per uniformare le pratiche sul territorio, dall’altro, un loro eccesso sottrae tempo prezioso ad altri compiti ritenuti fondamentali, come ad esempio la riflessione e la preparazione didattica e pedagogica».

Il governo aveva risposto in tempi piuttosto brevi: «Per fare un esempio, l’utilizzazione della banca dati GAGI (applicativo per la gestione informatizzata degli allievi e degli istituti) aiuta il docente a gestire le molteplici informazioni riguardanti i propri allievi, induce gli operatori di sostegno pedagogico a inserire i dati che permettono di stilare delle statistiche che orienteranno le scelte future, permette ai quadri scolastici di ottenere importanti informazioni. Si tratta di uno strumento impegnativo nella sua gestione, ma che non può essere considerato come un sintomo di eccessiva burocratizzazione del lavoro del docente, proprio perché esso è indispensabile per il buon funzionamento e per la gestione della scuola che diventa sempre più complessa».

Una sorta di sì ma: sì, c’è un obbligo nuovo; ma vuoi mettere la complessità del sistema?

C’è una parte amministrativa, o burocratica, che è lo spartito dell’insegnante. Ho fatto il maestro di scuola elementare per una decina d’anni, e ho sempre preparato, in ordine di importanza, il piano annuale, i piani mensili e i diari. Erano i miei spartiti. Il primo tracciava a grandi linee i temi portanti del mio anno scolastico, una sorta di manifesto di come intendevo interpretare il programma da svolgere. I piani mensili riorganizzavano di volta in volta il lavoro fatto, quello da fare, gli errori, le velleità e, sì, anche le scelte azzeccate e i sentieri sicuri. L’ultimo era l’ipotesi di lavoro del giorno dopo, da aggiustare sera dopo sera: perché lo spazio alle improvvisazioni, al caso, alle proposte diversive, agli imprevisti e agli errori di programmazione devono essere aggiustati cammin facendo. È una parte “burocratica” molto importante, che occorre predisporre con una grande attenzione alla pedagogia, che dà coerenza al percorso, e alle diverse didattiche disciplinari.

Ho sempre detestato la burocrazia obbligatoria, dispendiosa e, magari, insensata. Quando ho cominciato a insegnare vigeva ancora l’obbligo del rapporto scritto a fine anno scolastico. Non mi infastidiva questo momento di riflessione finale, con qualche valutazione personale che volevo condividere. Ma mi irritavo se il destinatario non mi dava un riscontro: magari, come temo, perché non l’aveva letto, si era limitato a registrare se il testo era giunto entro il termine stabilito.

Da quel che leggo e sento, intuisco che l’obbligo di rendicontazione – brutta parola, che rimanda alla contabilità e a certa burocrazia – è ben presente nella scuola; e, posso immaginarlo, alcuni resoconti hanno la loro ragion d’essere. È invece la moltiplicazione ossessiva di rapporti e relazioni che, anche grazie alle moderne tecnologie, crea effetti epidemici fuori giri: perché se io devo redigere un testo e lo devo diffondere ad altri, bisogna presumere che questi altri lo dovranno leggere, e io dovrò leggere i loro. È a questo punto che la condivisione di informazioni, spesso intrise di dati sensibili, rischia di sfuggire a ogni controllo e creare la burocrazia eccessiva e imprudente.

Nel marzo scorso, quindi a pochi anni dall’interrogazione del 2019, è apparso lo studio «Scuola a tutto campo», una pubblicazione della SUPSI, che contiene gli Indicatori del sistema educativo ticinese, un lavoro importante, che restituisce a scadenze regolari «una fotografia dei valori, delle finalità e delle qualità che caratterizzano la scuola ticinese, così come delle sfide con le quali è costantemente confrontata: equità, divario educativo, segregazione orizzontale e verticale, performance, transizione, dispersione, benessere, soddisfazione professionale, spesa pubblica per l’educazione…».

Scorrendo le sue 500 e più pagine di dati, tabelle grafici e commenti, non si trova la parola burocrazia, benché nel capitolo dedicato al benessere di allievi e insegnanti, faccia capolino l’aggettivo amministrativo, nelle le sue diverse varianti. Si scopre così che una significativa maggioranza di operatori della scuola dell’obbligo sono soddisfatti del proprio lavoro e ritengono che esso risponda alle proprie aspettative, malgrado alcune fonti di stress generate, secondo gli insegnanti interpellati, dal ritmo e dalla complessità del lavoro.

Occorre sempre garantire all’insegnante di potersi dedicare pienamente al suo lavoro, che è fatto di programmazione, insegnamento, valutazione, soprattutto formativa, differenziazione, bilanci; di relazioni coi suoi allievi e con le loro famiglie; di formazione continua e di aggiornamento professionale e disciplinare (senza bisogno di rapporti quadriennali…); di impegnarsi affinché ogni allievo raggiunga il massimo delle sue conoscenze e competenze nell’ambito delle sue possibilità, in un ambiente in cui sbagliare non sia pericoloso: con una costante attenzione etica e istituzionale.
Se la gestione della scuola diventa incessantemente più complessa, non è il caso di aggiungere mansioni di segreteria a chi è in classe: si cerchino invece altre strategie.

Scritto per Naufraghi/e

Plata, A., & Castelli, L. (a cura di) (2023). Scuola a tutto campo. Indicatori del sistema educativo ticinese. Edizione 2023. SUPSI-DFA.