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Intelligenza artificiale e scuola, per una scuola che sia intelligente

Dai primi rudimentali computer apparsi negli anni ’80 a ChatGPT: informatica e IA sono strumenti importanti e utili, basta sapere per che cosa

L’arrivo di ChatGPT, che si autodefinisce «assistente virtuale in grado di comprendere il linguaggio naturale dell’utente e di generare risposte appropriate», mi offre lo spunto per alcune considerazioni attorno al rapporto tra la scuola e il vasto mondo delle TIC, le Tecnologie dell’informazione e della comunicazione: computer, reti, telefonini, robot…

Confesso che la prima volta in cui sentii la parola informatica fu verso la metà degli anni ’70, fin lì non avevo la minima idea di cosa fosse. Quella sera c’era il primo incontro di un gruppo di lavoro del PLRT, che avrebbe dovuto occuparsi di mass media, cioè di giornali, riviste, cinema, radio, televisione; e pure di informatica, ma io non lo sapevo ancora.

Presiedeva il gruppo Giancarlo Olgiati, avvocato, all’epoca deputato al Gran Consiglio. Durante quel primo incontro parlò a lungo di informatica, raccontò, con numerosi esempi, che entro pochi anni in tutte le nostre case avremmo avuto un computer, un “coso” che avrebbe rivoluzionato il nostro modo di vivere, lavorare e comunicare. Con un po’ di fantasia si può immaginare lo scetticismo che serpeggiava e che i presenti mascheravano.

Come molti della mia età ho avuto i primi contatti con l’informatica negli anni ’80, attraverso gli home computer Commodore. Ma la vera rivoluzione arrivò col fantastico Macintosh 128K, data di nascita il 24 gennaio 1984, una sorta di computer di Neanderthal, che costava un sacco di soldi, epperò rendeva l’uso del PC facile e intuitivo: What you see is what you get, ciò che vedi è ciò che ottieni. Per dirla tutta: costava oltre 10 mila franchi e funzionava con 128 KB di memoria RAM e un floppy da 400 KB, una magra figura in confronto agli smartphone che ci portiamo in giro oggi, macchine di potenza e velocità inimmaginabili rispetto a quei primi strumenti “sovversivi” di neanche quarant’anni fa.

E la scuola, in tutto ciò?

Da tempo c’è chi invoca un maggiore coinvolgimento della scuola nell’ambito delle TIC, che sono dappertutto, anche quando nessuno se ne accorge. Così, di pari passo con la loro vertiginosa evoluzione, si chiede da sempre che la scuola si metta al passo coi tempi, ciò che, in pratica, è un ossimoro. Credo che quando si parla di potenziare la dotazione scolastica TIC, prima del Cosa bisognerebbe chiedersi Per fare cosa, perché la mercanzia tecnologica non risolve di per sé problemi educativi e formativi che non per forza sono nel DNA di quest’epoca orwelliana: le priorità sono altre.

Diciamo che qualche ritardo lo si è accumulato, e che troppe volte, nelle aule, si è giocato in difesa, confondendo il fine coi mezzi, tipo fare cose vecchie con strumenti nuovi. Non so se la nostra scuola si sia mai chiesta come usare le nuove tecnologie per fare una scuola migliore. Il dubbio è che ci si limiti all’immediata spendibilità dei nuovi media. Non so, in altre parole, se la scuola sia stata in grado di capire in che misura le TIC avrebbero potuto migliorare e potenziare i piani di studio.

Nell’immagine: un’inquietante rappresentazione dell’intelligenza artificiale a scuola prodotta… dall’intelligenza artificiale

Mentre i parlamenti comunali e cantonali si occupavano di comprare computer e lavagne interattive, le famiglie acquistavano a vanvera la tecnologia proposta dalla pubblicità, sempre più potente e rapida: per farne cosa? Lo si è visto nelle settimane del blackout del 2020, quando la pandemia aveva sconvolto un terzo dell’anno scolastico, due mesi chiusi in casa con la scuola a distanza, tra insegnanti male in arnese (a volte non solo tecnologico) e famiglie chiuse in casa, alle quali si chiedeva di aiutare i figli a svolgere i compiti somministrati a distanza – una sorta di delega didattica.

In questo senso ChatGPT, forma avanzata di intelligenza artificiale, ha già fatto nascere qualche timore, tipo che sostituisca presto i giornalisti e che gli studenti si facciano scrivere le tesine e molto altro ancora… Oddio, copiare è un’arte tutta scolastica, con una lunga tradizione di “bigini” e di arrampicate sui vetri.

Eppure è ancor oggi assai saggio accostarsi alle enciclopedie, digitali o no, con una sana diffidenza. Qualche giorno fa, per dire, stavo giochicchiando con ChatGPT. Ho inserito un titolo, «E le stelle stanno a guardare». Responso dell’oracolo: «È una citazione tratta dal poema “L’Infinito” di Giacomo Leopardi. Questa frase, in particolare, è presente nella seconda strofa del poema». Se fossi stato uno studente e l’avessi presa per oro colato, mi sarei ficcato in un bel guaio.

Avevo replicato seccamente, dopo di che, “intelligentemente”, erano arrivate le scuse, la risposta esatta e un breve svolgimento del tema. Il bello, però, è che nei giorni seguenti io e altri abbiamo provato a sollecitare nuovamente ChatGPT col medesimo titolo, magari con qualche variazione, ottenendo risposte completamente diverse, a volte corrette, altre sconnessamente fantasiose.

Assolutamente no! Nell’Infinito non c’è traccia di “E le stelle stanno a guardare” – tutt’al più è il titolo di un romanzo di Cronin.

Ha scritto Wikimedia: «I grandi modelli linguistici come ChatGPT stanno rivoluzionando il modo in cui interagiamo con la tecnologia e con cui utilizziamo i dati. Questo ha serie implicazioni sulla conoscenza. Mai prima d’ora è stato così facile creare, utilizzare e condividere informazioni – veritiere e non. Ecco perché le fonti di informazione neutrali e attendibili sono più importanti che mai».

È un discorso che vale anche per la scuola, sempre più costretta a rivalorizzare tutto quel lato umanistico sacrificato negli anni sull’altare di un utilitarismo fuorviante. Non si tratta di negare l’avvento dell’intelligenza artificiale o di demonizzarla, si sa che sono battaglie perse in partenza. L’interazione con le TIC – ChatGPT e simili comprese – dovrà essere sempre più consapevole, solida, rigorosa e soprattutto critica, per non prendere fischi per fiaschi senza accorgersene.

Scritto per Naufraghi/e

La scuola come cantiere davvero sperimentale

Un luogo dove si eserciti la cooperazione, la comunicazione, la creatività, l’autonomia dell’allievo, con maestri normali: né eroi né missionari

Si dice che la scuola sia un cantiere perennemente aperto – semper reformanda, ha scritto qui Saverio Snider qualche giorno fa. È una visione che tiene duro almeno da mezzo secolo. Parrebbe, insomma, una sorta di Sagrada Família, ma senza data di scadenza.

È però difficile capire quando fu aperto il cantiere della scuola contemporanea, mentre si sa che l’obbligo di frequentarla rimanda a inizio ’800. Oggi non le sfugge praticamente nessuno: tra i quattro e i quindici anni un allievo che non ripete neanche una classe trascorre a scuola ben più di diecimila ore, senza contare i compiti a casa. Ha scritto Philippe Perrenoud, sociologo ginevrino, che se la medicina potesse occuparsi della popolazione anche solo per una porzione infinitesimale del tempo della scuola, non le si perdonerebbe nemmeno un raffreddore.

Il cantiere è sempre aperto, ma a me pare che dietro le narrazioni, gli studi e i rapporti, questa scuola continua ad assomigliare maledettamente a quella che avevo frequentato negli anni ’60. Ci sono un sacco di riforme più amministrative che pedagogiche, tant’è che il modello pedagogico ancor oggi egemonico è anche quello più conosciuto: lezione ex cathedra (la lezione resta ex cathedra anche laddove l’insegnante passeggia tra i banchi) + esercizi applicativi (sovente da svolgere a casa propria) ⇾ valutazione.

A parte questo piccolo appunto, l’articolo di Snider è interessante, benché finirà probabilmente anch’esso, come tanti altri, nel cassetto delle buone riflessioni. Naturalmente ne è consapevole, tanto che, scrive: “ricette non ne ho, se non quella di riuscire a cambiare la testa della maggioranza delle persone, impresa che, pensando alla scuola, nemmeno a quella eccezionale ed esemplare personalità che fu don Milani riuscì ai suoi tempi”.

Don Lorenzo è stato un personaggio importante. La sua «Lettera a una professoressa» fu oggetto di citazioni e censure. Si citava ciò che faceva comodo, confidando che tra citarla e leggerla poteva esserci un mare. Si parlava volentieri della sua scuola, nata da alcuni contrasti con la Curia di Firenze, che lo allontanò mandandolo a Barbiana, paesello sperduto della Toscana.

Così don Milani diventa un modello da imitare, benché il contesto stesso in cui si svolse l’esperienza pedagogica del priore toscano sia unico e forse irripetibile. La sua visione di scuola prevede esplicitamente che il maestro è e deve essere un missionario, una sorta di eroe e di martire: «La scuola a pieno tempo presume una famiglia che non intralcia. Per esempio quella di due insegnanti, marito e moglie, che avessero dentro la scuola una casa aperta a tutti e senza orario. L’altra soluzione è il celibato».

Ma c’è anche un’altra storia affascinante, iniziata nel 1920 e che dura tutt’ora. È la storia di Célestin Freinet (1896-1966), che sceglie di fare il maestro e vuole riformare la scuola partendo dai suoi pessimi ricordi di alunno. Nella scuola del suo villaggio, nelle Alpi marittime francesi, c’era un solo libro di lettura per tutta la classe, si ricevevano tutti le stesse lezioni frontali, a cui si doveva rispondere con la capacità mnemonica, per imparare quelle nozioni e saperle ripetere.

A partire da quel suo primo anno di scuola, Freinet diede vita a una pedagogia basata sulla costruzione del sapere attraverso la sperimentazione, la cooperazione, la comunicazione, la creatività, l’autonomia. Siamo nel campo della scuola attiva, in cui l’insegnante ha un ruolo centrale e nel contempo discosto. È lui che provoca i processi di apprendimento, che favorisce la cooperazione e la collaborazione, anche per rafforzare la forza e le opportunità offerte dal gruppo, in un contesto che fa a pugni con la competizione per essere il primo della classe. Secondo Freinet si impara a parlare parlando e a camminare camminando, così come si acquisisce la conoscenza sperimentando, in un modo che lui chiama «naturale». Nella sua classe ci sono diversi laboratori: per il lavoro manuale di base (allevamento, lavoro dei campi, falegnameria, costruzioni…) e per le attività più evolute, socializzate e intellettualizzate (ricerca, conoscenza, documentazione; sperimentazione; creazione, espressione e comunicazione grafica e artistica).

Assai nota è la sua invenzione della tipografia scolastica, che compare nella scuola dove insegnava già nei primi anni ’20, una moderna tecnologia per imparare a scrivere e a comunicare. Porta a scuola i caratteri mobili coi quali ogni allievo scrive le sue frasi. I testi venivano poi stampati con una pressa e diventavano il giornalino. Molte, come si può intuire, sono le competenze messe in gioco e, nel contempo, si sviluppa il senso di collaborazione reciproca.

Nel corso degli anni le sue tecniche si svilupperanno e, attraverso il giornalino e la corrispondenza scolastica, coinvolgeranno altri maestri incuriositi e affascinati da questa pedagogia così diversa. A partire dagli anni ’50 la corrispondenza tra scuole e lo scambio di giornalini riguardò un numero crescente di maestri, tanto che nel 1957 fu istituita la Federazione Internazionale dei Movimenti di Scuola Moderna, alla quale seguirono negli anni altre importanti associazione sparse nel mondo – da noi, ad esempio, CEMEA Ticino.

L’approccio di Freinet alla scuola è naturale, popolare, attivo, umanista nel senso più esteso e liberale del termine. Converrebbe conoscere bene i lavori di Célestin Freinet e dei suoi epigoni, che hanno disegnato una scuola idealista ma non utopica, fatta da professionisti preparati, laici e intellettualmente liberi.

Maestri normali, né eroi né missionari.

Scritto per Naufraghi/e

La citazione di don Milani è tratta da Lettera a una professoressa, 1967, Libreria editrice fiorentina, p. 86

Altri riferimenti:

CÉLESTIN FREINET, La scuola moderna – Guida pratica per l’organizzazione materiale, tecnica e pedagogica della scuola popolare, trad. it. di Enrico Bottero, 2022, Trieste: Asterios Editore

PHILIPPE PERRENOUD, La pédagogie à l’école des différences – Fragments d’une sociologie de l’échec, 1995, Paris: ESF éditeur

Convergence(s) pour l’Education Nouvelle

 

La scuola delle pari opportunità e della differenziazione

Nell’era di un piano di studio, autoritario e complesso, che finisce per trasformare la vita a scuola in un cimitero dell’entusiasmo e della passione

Quando si parla si scuola, soprattutto di scuola dell’obbligo, piace a molti sciacquarsi la bocca con le pari opportunità e la differenziazione. Quasi mai si riesce a capire cosa si intenda per differenziazione. Le pari opportunità che si vorrebbero a scuola, invece, sono più esplicite. Di solito chi le evoca intende dire che a ogni allievo vengono garantite identiche condizioni di partenza: gli stessi programmi, gli stessi supporti didattici, gli stessi insegnanti (il prof. Zambelloni, una volta, osservò ironicamente che nella scuola coesistono insegnanti straordinariamente bravi e insegnanti normalmente bravi).

Ad esempio, Sergio Morisoli, oggi parlamentare UDC, scrisse che «Occorre garantire le stesse condizioni di partenza per tutti, ma non la parità di risultati. La scuola va differenziata, non siamo tutti uguali (CdT 12.08.2012)». Circola una vignetta che, col dovuto cinismo, illustra questa diffusa versione delle pari opportunità. Vi si vede un maestro, seduto alla cattedra, davanti a una classe un po’ speciale: un corvo, uno scimpanzé, un marabù, un elefante, un pesce rosso nella sua boccia di vetro, una foca e un cane, e sullo sfondo un albero. Bene – dice il maestro – adesso facciamo un esercizio. Il compito è uguale per tutti: arrampicatevi sull’albero». È quel che succede a scuola. Un mese dopo l’inizio dell’anno scolastico c’è già chi arranca, non capisce, resta indietro. Poi arriveranno gli specialisti, i genitori saranno convocati e sentiranno dirsi che il pargolo ha tante difficoltà. Magari a fine anno sarà bocciato (oggi si dice «rallentato»), e l’anno dopo dovrà rifare anche quel che aveva già imparato.

Su un numero speciale della rivista romanda Éducateur (febbraio 2012), dedicato ai cento anni di vita dell’Institut Jean-Jacques Rousseau di Ginevra, il sociologo Walo Hutmacher pubblicò un articolo dal titolo intrigante: Réclamer l’égalité des chances, c’est s’empêcher de viser l’égalité des résultats a un niveau élevé. «Le pari opportunità – scriveva – fanno parte della scuola pubblica. Ma è un’uguaglianza astratta, di maniera, perché presume, senza dirlo, che la scuola di base sia una gara, così che ha un senso solo in una scuola selettiva».

Rivolgendosi alla politica per contraddire quella sorta di mainstream che si è appropriato di due parole – pari opportunità – per farne un comodo alibi, continuava così: «Contrariamente a ciò che dicono tutti i partiti, la politica non deve mirare alle pari opportunità, ma puntare all’equità dei risultati a livello elevato, allo scopo di creare buone capacità per affrontare le esigenze della vita sociale, civica ed economica. L’equità dei risultati è meno astratta delle pari opportunità. In senso assoluto è inarrivabile, ma si può tentare con tenacia di avvicinarvisi. Bisogna però farne un’ambiziosa meta politica. La logica della selezione estremizza le regole del gioco: per allievi e genitori che sono, loro malgrado, protagonisti di un processo di selezione, lo scopo principale non è quello di imparare, bensì di “riuscire”, di “essere promosso”. In questa logica i più bravi si accontentano di “gestire la loro media” col minimo sforzo, mentre i più deboli si scoraggiano davanti a ostacoli che ritengono di non poter superare».

L’attuale Piano di studio della scuola dell’obbligo richiama una dichiarazione d’intenti della Conferenza intercantonale dell’istruzione pubblica della Svizzera romanda e del Ticino, che, tra tante enunciazioni, afferma che «La Scuola pubblica assume compiti di educazione e di trasmissione di valori sociali, tra i quali la promozione delle pari opportunità a livello di riuscita scolastica». Un dichiarazione per lo meno ambigua, soprattutto alla luce delle quasi 300 pagine che dovrebbero contestualizzare gli obiettivi della scuola obbligatoria attraverso i «piani disciplinari», le sue «aree» e le sue materie.

I programmi delle scuole obbligatorie del 1959 – Scuola elementare e maggiore, scuola di economia domestica e di avviamento professionale – di pagine ne avevano 74. E così introducevano il discorso: «Un programma non può essere che uno schema offerto all’insegnante perché lo trasformi in cosa compiuta e viva». Diciamo che c’era una diversa stima degli insegnanti e dei loro allievi.

Ora invece siamo confrontati con un piano di studi velleitario e illusorio, che ha bisogno, per funzionare in qualche modo, di tante figure professionali che si accalcano nelle aule, frammentano le competenze, diluiscono le responsabilità. Nella scuola obbligatoria si possono incontrare i docenti di appoggio, di sostegno pedagogico, di lingua e integrazione degli alloglotti, oltre a logopedisti, psicomotricisti, psicologi, specialisti per la gestione dei casi difficili e operatrici pedagogiche per l’integrazione.

Permane, sullo sfondo, la solitudine del docente, che dovrebbe essere il vero regista di ciò che succede nella sua aula. Invece quel Piano di studio, autoritario e complesso, finisce per trasformare la vita a scuola in un cimitero dell’entusiasmo e della passione, per chi deve insegnare e per chi deve apprendere. Vedremo presto se ci saranno la volontà politica e la capacità e di ricreare una scuola serena, in cui insegnare e imparare tornino a essere momenti da ricordare per tutta la vita con almeno un po’ di piacere.

Scritto per Naufraghi/e

Nel mio blog si trovano numerosi articoli sul tema delle pari opportunità nella scuola. Alcuni sono stai pubblicati su giornali o riviste (soprattutto nella rubrica «Fuori dal’aula», che ho firmato sul Corriere del Ticino per quasi vent’anni). Altri sono apparsi solo nel blog. Tra questi mi piace richiamare Cos’hanno ancora di così rivoluzionario, oggi, le pari opportunità? (16.05.2016).

In attesa delle elezioni nel paese della civica

Sulle vicende di vent’anni di dibattito sulla formazione alla cittadinanza nelle scuole e di quanto si stia palesando fra i candidati e gli elettori

La mia educazione alla cittadinanza si è avviata quando ho cominciato ad ascoltare gli adulti. Poi ho continuato con la formazione continua, che è pressoché quotidiana, come dovrebbe essere sempre. Quand’ero un ragazzino c’erano il notiziario di Radio Monteceneri, una sfilza di quotidiani e le discussioni dei grandi. Non ricordo d’aver mai incontrato l’educazione civica negli anni della mia scolarità, anche perché si tratta di un complesso di competenze che va al di là delle nozioni specifiche.

D’accordo, oggi i tempi sono cambiati, il mondo è magari più complesso, le nostre società sono sempre più multietniche, variegate, secolarizzate, consumiste; e stare al passo degli eventi è un’impresa ciclopica. Cosicché diventa sempre più difficile imparare a pensare con la propria testa, e ancora più difficile insegnarlo a chi, crescendo, si sta formando.

Una trentina di anni fa si è ricominciato a parlare di educazione alla cittadinanza, forse di fronte alla costante diminuzione della percentuale di votanti, alla trasformazione dei partiti – che un tempo si descrivevano come «cinghia di trasmissione della democrazia» –, alla svalorizzazione delle discipline umanistiche nella scuola. I Giovani liberali lanciarono un’iniziativa per l’introduzione dell’ora di civica a scuola e nel 2001 il Parlamento risolse di fare spazio a un nuovo articolo nella Legge della scuola, il 23a, che inaugurava l’insegnamento della civica e dell’educazione alla cittadinanza nelle scuole medie, medie superiori e professionali, per fortuna senza diventare materia autonoma.

Nel 2012 uno studio della SUPSI (Cittadini a scuola per esserlo nella società) mise in luce pregi e difetti della riforma. Ci fu subito chi se ne fece un baffo dei pregi e puntò sui difetti, mettendo sul tavolo una nuova iniziativa, «Educhiamo i giovani alla cittadinanza», che promuoveva in sostanza la civica a nuova disciplina, con relativa nota sul libretto. Promotore della nuova iniziativa popolare fu l’imprenditore Siccardi, forse preoccupato della nostra salute politica. La nuova raccolta di firme riuscì in tempi brevi e il Gran Consiglio accolse la proposta, ma si tornò lo stesso alle urne, verso un esito scontato [fu accolta, ndr].

Tra la prima e la seconda didattica della civica sono ormai passati una ventina di anni. Tenuto conto che si comincia nella scuola media, molti allievi di quegli anni sono oggi cittadini attivi: alcuni che, tra qualche giorno, voteranno per la prima volta, altri ormai degli habitué. In questi giorni la RSI ha pubblicato il suo consueto sondaggio preelettorale, con alcune proiezioni in vista delle elezioni ticinesi del 2 aprile. Sta bene, si tratta solo di ipotesi, ma sappiamo quanto, negli anni, gli strumenti per effettuare questo tipo di sondaggi si siano affinati. Così i numeri di cui disponiamo ci raccontano diverse cose interessanti.

Per cominciare, anche se lo sapevamo già, che per l’elezione di 90 parlamentari sono state presentate ben 14 liste, tra partiti, movimenti e gruppi ad hoc, per un totale di 916 candidati, per lo più sconosciuti: alla faccia di quella “cinghia di trasmissione” di cui parlavo. Si dice che c’è un candidato per ogni 250 potenziali elettori. Ma si ipotizza anche che la percentuale di chi non voterà un partito o un simil-partito aumenterà nuovamente, raggiungendo quasi un quarto dei votanti, in un contesto in cui oltre il 40% degli elettori potrebbe disertare le urne, e che circa un quinto andrà probabilmente a votare, ma senza che sappia ancora bene per chi.

Nelle ultime settimane i media hanno rimarcato come la campagna elettorale sia piuttosto piatta. Non ho seguito troppo attentamente le mosse dei candidati, ma ho notato, distrattamente, alcune peculiarità, che di politico non hanno molto. Si prevede un governo fotocopia – toh!? –, con la sostituzione del Consigliere di Stato socialista. Analogamente si racconta dell’UDC che vuol defenestrare il secondo leghista in governo per metterne uno dei suoi. Poi, a vanvera: quanti deputati eleggeranno i Liberali, quanti ne perderà la Lega, quanti partitini riusciranno a eleggere un deputato e quanti, invece, spegneranno la luce definitivamente. Si mangia polenta o risotto, ci sono i palloncini e tanti volti sconosciuti che si affacciano dai giornali, dagli striscioni, dai cartelloni e dai santini, con slogan e sintetiche intenzioni politiche assai simili tra loro.

All’inizio di tutto il discorso, dato che l’andare a votare per eleggere governanti e deputati è strettamente correlato con l’essere un buon cittadino, c’è la definizione stessa di cittadinanza – e in mancanza di una definizione diventa difficile inventare una materia scolastica: perché il mondo della scuola è separato dal mondo reale. Lo studio del 2012 della SUPSI ci aveva provato, riassumendone alcune peculiarità in un questionario. Dicendo, ad esempio, che un buon cittadino rispetta le leggi, conosce la storia del suo paese, segue temi politici nei giornali, alla radio o alla tv, partecipa a attività a beneficio della comunità, e numerose altre: tutti atteggiamenti complessi, che raramente si manifestano in questa campagna elettorale – e sarebbe interessante conoscere quanti parlamentari in pectore fanno tutte queste cose, oltre a mettere in pratica una decina di altre capacità del seppur breve, e contestabile!, elenco.

Forse andrà aggiornato il concetto di cittadinanza, o il programma dei corsi di civica. O entrambi.

 

Scritto per Naufraghi/e

Menti bilingui da offrire al mercato del lavoro

Scontro ai voti, in Gran Consiglio, sul tedesco in Prima Media: ha prevalso, una volta di più, un’idea “strumentale” di formazione scolastica, tutta orientata verso gli sbocchi professionali

Da almeno un paio di decenni la scuola pubblica sta subendo una strisciante trasformazione di senso, senza che qualcuno si alzi e dica cip. Da Istituzione dello Stato che intende promuovere lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà sta diventando sempre più un servizio genuflesso in favore dell’economia e del mondo del lavoro. Scriveva un gruppo di parlamentari in una mozione intitolata Anticipiamo l’insegnamento del tedesco (2017): Anticipare lo studio del tedesco permette ai ragazzi di crescere con una “mente bilingue”. Ciò presenta numerosi vantaggi e in primis sul mercato del lavoro.

In primis, come dicono loro, conviene precisare che la regola della “mente bilingue” è il bilinguismo precoce, vale a dire l’esposizione a due (o più) lingue in tenerissima età, di regola entro i tre anni, e non certo in un ambiente così formale e giudicante come la scuola.

Invece il rimando al mondo del lavoro ha radici più lontane. Tanto per citarne uno che mi ero segnato, nel 2002 il presidente (PLR) della commissione scolastica del Gran Consiglio aveva dichiarato a un domenicale che, secondo lui, a decidere quali lingue si devono studiare a scuola non dovrebbe essere lo Stato né il Dipartimento, bensì la società, il mercato. In quel medesimo ordine di idee si espresse pure il leghista Lorenzo Quadri durante la campagna per le elezioni cantonali del 2011: La scuola non potrà esimersi da un riorientamento nell’ottica di quelle che sono le richieste del mercato del lavoro. È evidente che le professioni “d’ufficio” sono sature. Mancano risorse nell’artigianato, nell’edilizia, nel sociosanitario. Altra misura necessaria: si metta il numero chiuso alle formazioni “letterarie” ed “artistiche” prive di sbocchi professionali.

È successo nuovamente il 13 marzo scorso, quando il Parlamento ha approvato, con 46 voti favorevoli (PLR, Lega e UDC) e 41 contrari, l’anticipo dell’insegnamento del tedesco in prima media entro l’anno scolastico 2025/2026.

Era già successo nei primi anni di questo secolo, quando il francese, fin lì lingua seconda – a decretare la selezione tra livelli A e B assieme alla matematica – fu svalutato e retrocesso per far posto all’inglese, mentre il tedesco fu promosso a partner della matematica, come nota da livelli A e B. Il francese, da par suo, fu potenziato nella scuola elementare e cessò di essere materia obbligatoria a partire dalla III media.

Va da sé che tra le varie dichiarazioni a sostegno di una scelta di questo genere non può mancare il tema della coesione nazionale, che imporrebbe prioritariamente di conoscere la Svizzera al di là del conoscerne la lingua. Ma ciò obbligherebbe a ripristinare il giusto spazio allo studio della storia e della geografia, la conoscenza essenziale delle letterature e delle culture di riferimento. Così la scuola potrebbe pure farsi carico, lungo i quattro anni della scuola media, di predisporre delle impagabili occasioni di incontro, di studio e di scambio con studenti di regioni e cantoni ai quattro angoli del Paese.

Quindi, più che anticipare l’insegnamento delle lingue nazionali e aumentarne le ore – le lingue seconde, quando sono caricate a test e note scolastiche, sono assai spesso armi letali… – converrebbe aumentare sostanzialmente (quantità e qualità) i soggiorni linguistici sin dall’età più tenera. Senza poi scordare che prima del tedesco i confederati imparano e parlano lo Schwyzerdütsch. E continuano anche dopo.

Infine sarà interessante vedere come questo anticipo dell’insegnamento del tedesco, che in realtà è anche un concreto aumento di ore, sarà organizzato dentro una griglia oraria settimanale già molto affollata e stancante. Qualche disciplina ci lascerà le penne, e sappiamo bene come le lobby di materia difendano coi denti la loro dotazione oraria.

Naturalmente la questione delle lingue della scuola non è terminata nella tarda serata del 13 marzo. La “trattanda” comprendeva pure un modifica della Legge della scuola a favore delle scuole private (ma non solo). In buona sostanza si proponeva di permettere lo svolgimento delle lezioni in un’altra lingua nazionale svizzera o in inglese, al posto dell’obbligo previsto attualmente: «Agli allievi in età d’obbligo scolastico l’insegnamento dev’essere impartito in lingua italiana». L’iniziativa parlamentare è stata ritirata «alla luce delle resistenze delle ultime settimane», ha motivato il primo firmatario della proposta.

Tra le “resistenze dell’ultima settimana” se n’erano manifestate due piuttosto pesanti il giorno stesso: una da parte di Diego Erba, coordinatore del Forum per l’italiano in Svizzera (Il veleno sta nella coda, su La Regione); l’altra firmata da Manuele Bertoli, direttore del DECS (La svendita della propria identità, sul Corriere del Ticino). «Da presidente del Forum per l’italiano – ha sottolineato il ministro – in Svizzera ho difeso, con altri, l’italianità in tutto il Paese, ma non credevo di dover arrivare al punto di doverla difendere anche in Ticino. Oltretutto in nome di una commercializzazione della scuola, perché non si vedono all’orizzonte soggetti senza scopo di lucro interessati particolarmente ad offrire questi curricoli».

Pamini ha assicurato: «Nella prossima legislatura faremo una nuova proposta, riservandoci la via dell’iniziativa popolare, perché siamo stufi di questo approccio statalista e monoculturale». O tempora, o mores.

 

Scritto per Naufraghi/e

Qui si trovano le informazioni e i documenti relativi alla “Trattanda n° 11” dell’ordine del giorno della seduta del Gran consiglio di lunedì 13 marzo 2023.