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Le difficoltà di imparare tra ricerca e azione didattica

Una premessa doverosa

Da almeno un paio di decenni, se non di più, la nostra scuola dell’obbligo si china con attenzione su alcuni disturbi dell’apprendimento allo scopo di saperli riconoscere e proporre delle soluzione didattiche per tentare di affrontarli positivamente: penso, in particolare, a disturbi di origine neurobiologica, quali la dislessia o la discalculia.

I Disturbi Specifici dell’Apprendimento – noti in italiano con l’acronimo DSA – sono naturalmente molti e, per certi versi, le loro definizioni dipendono anche da tradizioni culturali e accademiche dei contesti scolastici nazionali e/o dalle aeree linguistiche; in tal senso la definizione generica di DSA può variare più o meno sostanzialmente da un paese all’altro. A questo proposito è curioso dare un’occhiata alle definizioni che ne dà Wikipedia nelle molteplici versioni: Disturbi specifici di apprendimento (DSA), Learning disability, Trouble d’apprentissage, Lernbehinderung, …

Al di là, tuttavia, delle definizioni, delle cause, delle ricerche, degli studi e dei riconoscimenti giuridici, è fondamentale il fatto che si tratta assai spesso di problemi di apprendimento che possono manifestarsi sin dall’età più tenera: così la scuola si accorgerà della difficoltà, senza necessariamente saperla riconoscere e, di conseguenza, trovandosi nell’imbarazzante situazione di non sapere quali strategie adottare per aiutare l’allievo a superarla – considerando pure che molti DSA si svelano proprio nell’ambito della lettura, della scrittura o dell’aritmetica, ciò che fa scattare, in un gran numero di casi, i malefici meccanismi dell’insuccesso scolastico.

Fatta questa premessa molto generica, segnalo un articolo molto interessante apparso sull’ultimo numero della rivista Scuola Ticinese, periodico della Divisione della scuola del Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport: Le difficoltà di lettura: limiti o soglie calpestabili?, di cui sono autori Sara Giulivi, docente-ricercatore presso il Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI (DFA), Claudia Cappa, ricercatrice presso l’Istituto di Fisiologia Clinica (CNR) di Pisa, e Marcello Ferro, ricercatore presso l’Istituto di Linguistica Computazionale (CNR) di Pisa.

Un dato allarmante

Gli autori partono da una constatazione: I risultati dell’ultima indagine internazionale OCSE-PISA sulle abilità di lettura e comprensione del testo restituiscono un quadro complessivamente allarmante, da cui la Svizzera, di fatto, non si discosta. Le prestazioni degli allievi ticinesi si collocano al di sopra della media nazionale; tuttavia il 17% dei ragazzi di 15 anni si colloca al di sotto del cosiddetto Livello 2 della scala OCSE-PISA, che corrisponde alle competenze di base considerate indispensabili per affrontare la vita di tutti i giorni e conseguentemente per garantire una partecipazione attiva nella società e future opportunità accademiche e professionali. Evidentemente è necessario agire in fretta, e a partire dalle fasi precedenti della scolarizzazione.

Per poi chiedersi: Da dove derivano le difficoltà che gli adolescenti incontrano quando si avvicinano a un testo scritto? Cosa si frappone, in maniera così significativa, al loro accesso al testo, alle loro possibilità di coglierne gli scopi, interpretarne i significati, metterne i contenuti in relazione con le conoscenze che già possiedono sul mondo?

Un protocollo formativo

I ricercatori hanno così messo a punto uno strumento per una valutazione ‘ecologica’ delle abilità di lettura e comprensione del testo che ha un triplice obiettivo:

  • attuare una valutazione accurata delle abilità di lettura del bambino;
  • comprendere se può contare oppure no su una lettura efficiente;
  • in caso di difficoltà, progettare un sostegno mirato.

Il protocollo di valutazione, che è stato messo a punto e testato anche grazie alla partecipazione di alcune scuole elementari e medie nella Svizzera italiana e in Italia, permette di raccogliere abbastanza facilmente una grande quantità di dati da parte degli stessi insegnanti, attraverso una piattaforma informatica, offerta per la prima volta in italiano. I test che compongono il protocollo – sottolineano i ricercatori – sono da svolgere su tablet e valutano la decodifica, la comprensione del testo in lettura silente, la comprensione del testo tramite ascolto.

Siamo, a pieno titolo, dentro una delle scelte pedagogiche fondamentali per una scuola dell’obbligo coerente con le proprie finalità: dapprima una valutazione delle abilità (in questo caso di lettura), poi la differenziazione dell’insegnamento, per poter aiutare ogni alunno ad affrontare il percorso che porta ad essere un lettore adeguato.

Scrivono i ricercatori nella conclusione che Oltre alle difficoltà, lo strumento consente di mettere in evidenza anche le prestazioni eccellenti, grazie alla struttura dei test e alle caratteristiche dei testi e delle domande che li accompagnano. Capire a fondo come ‘funzionano’ gli allievi è indispensabile per poterli sostenere al meglio negli apprendimenti. Gli insegnanti hanno in questo senso una grande responsabilità. Uno strumento come quello che è stato elaborato può aiutarli in quella che forse è la loro principale sfida quotidiana: fare in modo che le difficoltà scolastiche non siano vissute come ‘limiti’ (all’apprendimento, al successo scolastico, alle opportunità professionali, alla realizzazione personale), ma come soglie da spostare sempre in avanti o da trasformare in trampolini di lancio.

Nondimeno, una conclusione importante della ricerca appare già nella parte introduttiva dell’articolo. Scrivono gli autori che i docenti sono sempre più sensibili, informati e aggiornati sul tema delle difficoltà e dei disturbi della lettura. Ciò che ancora sfugge – proseguono – è l’estrema eterogeneità dei profili dei “piccoli lettori”, e la reale natura delle difficoltà che possono manifestarsi in età scolare. Consideriamo, per esempio, una delle cause di tali difficoltà: la dislessia, il disturbo specifico dell’apprendimento (DSA) che impedisce l’automatizzazione della decodifica del testo scritto. Si tratta di un disturbo di origine neurobiologica; ciò non significa, tuttavia, che si manifesti in modi sempre uguali o costanti nel tempo.

Dalla ricerca alla pratica

È soprattutto con l’istituzione dell’Alta Scuola Pedagogica (ASP, 2002) e il successivo passaggio dell’ASP alla Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana (SUPSI), con l’acronimo DFA (Dipartimento Formazione e Apprendimento, 2009), che il ruolo della ricerca in educazione si è imposto come ambito di formazione degli insegnanti della scuola dell’infanzia, elementare e media: difficile dire con quali risultati concreti, anche solo tenendo conto della grande e mutevole complessità di ogni sistema scolastico.

Nel caso specifico della ricerca, riassunta nell’articolo di Scuola Ticinese, siamo di fronte a uno strumento che è serve ai ricercatori per rilevare e mettere in relazione le tante variabili che differenziano le cinque grandi tipologie di lettori:

Nel contempo il medesimo strumento può diventare un utile strumento per gli insegnanti, perché fornisce un quadro complessivo che dovrebbe guidare l’organizzazione dell’insegnamento, affinché ogni allievo prosegua il suo percorso di apprendimento mirando al traguardo più alto, quello caratterizzato dall’ottima comprensione del testo e dall’ottima velocità di lettura.

In mezzo c’è tutto il resto, vale a dire, per prima cosa, la determinazione degli elementi che intralciano l’apprendimento. Del resto gli stessi ricercatori ci mettono in guardia.

Ogni dislessia […] è diversa da ogni altra e ogni dislessia evolve nel tempo insieme all’allievo. […] I DSA possono cambiare per una molteplicità di fattori, che spaziano dalle caratteristiche cognitive ed emotive del singolo, a quelle dei contesti in cui vive, agisce, apprende: la scuola, la famiglia, gli spazi di svago e socializzazione. Riuscire a gestire a scuola questo genere di complessità significa creare le condizioni per trasformare potenziali barriere in trampolini di lancio; significa permettere a tutti gli allievi, anche a coloro che devono fare i conti con un disturbo o una difficoltà di lettura, di trarre il massimo dal luogo primariamente preposto agli apprendimenti e all’educazione. [Il grassetto è mio].

Siamo quindi confrontati con una prima necessità per colmare il divario tra la teoria e la pratica: l’insegnante dovrà essere in grado di leggere i risultati per declinarli dal punto di vista dell’insegnamento e dell’eventuale efficacia che si riscontra nell’apprendimento, affinché il protocollo, che è stato messo a punto e fornito su una piattaforma “tecnicamente” facile da usare (cioè il tablet), serva a stabilire quali siano le competenze didattiche a disposizione e/o a indicare la necessità di coinvolgere altri specialisti (lo psicologo, il logopedista, il pediatra, il docente di sostegno pedagogico…). C’è quindi una prima necessità, che tocca in particolare la didattica, per affrontare adeguatamente una difficoltà o per ampliare una capacità.

Non si può dare per scontato che lo strumento per la valutazione ‘ecologica’ delle abilità di lettura e comprensione del testo messo a punto dai tre ricercatori passi dal livello scientifico a quello didattico e pedagogico come un semplice automatismo. Un conto, per fare un esempio, è registrare l’incapacità dell’allievo di rintracciare il significato generale del testo o di individuare relazioni temporali (ho pescato un po’ a caso due capacità/incapacità tra la decina elencata nell’articolo); un altro conto è sapere come intervenire con gli strumenti della didattica di fronte al risultato dell’applicazione de protocollo. Se non si agisce puntualmente per annullare il divario tra l’impianto teorico (che precede per forza di cose la messa a punta del protocollo) e l’uso pratico dei suoi risultati, si rischia che quest’ultimi si trasformino da informazioni per programmare la migliore azione educativa in sterile lista delle incapacità: ciò di cui, sul piano della selezione scolastica, non si sente proprio il bisogno.

Ma c’è un secondo elemento fondamentale, di natura più pedagogica, che si potrebbe definire come la capacità concreta di organizzare il lavoro in classe attraverso la differenziazione dell’insegnamento.

È in questo contesto che si colloca la formazione di base e continua degli insegnanti della scuola dell’obbligo. Il maestro della scuola primaria e il professore della scuola media non possono diventare degli specialisti di ogni singolo Disturbo Specifico dell’Apprendimento – e in questa accezione gli apprendimenti coinvolgono tutte le discipline. Come ha affermato Jean Piaget l’insegnamento è arte altrettanto quanto scienza; gli insegnanti sono dunque i professionisti dell’insegnamento, un po’ artisti e un po’ artigiani, che conoscono bene ciò che insegnano, ma che sono soprattutto capaci – per citare nuovamente i nostri ricercatori – di fare in modo che le difficoltà scolastiche non siano vissute come ‘limiti’ (all’apprendimento, al successo scolastico, alle opportunità professionali, alla realizzazione personale), ma come soglie da spostare sempre in avanti o da trasformare in trampolini di lancio.

Il nodo gordiano della formazione degli insegnanti è proprio nella capacità di trasformare i limiti in soglie da spostare sempre più in là; in altre parole si tratta di capire perché, eticamente e istituzionalmente, sia importante differenziare l’insegnamento, come e con quali strumenti.

Un’immagine, da un’ottica inconsueta, della sede del Dipartimento Formazione e Apprendimento (DFA) della SUPSI. È dal 1878 che questo luogo è il principale istituto di formazione dei docenti in Ticino. Nei secoli – se ne hanno tracce già nel 1316 – l’ex convento di San Francesco ha ospitato il governo cantonale, il ginnasio, la scuola magistrale seminariale e la post-liceale, l’Alta Scuola Pedagogica e, appunto, il DFA.

SARA GIULIVI, CLAUDIA CAPPA, MARCELLO FERRO, «Le difficoltà di lettura: limiti o soglie calpestabili?», in Scuola Ticinese, Periodico della Divisione della scuola Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport, N° 339: Anno L, Serie IV, 1/2021, pp. 31-37

Leggere libri non può essere solo un noioso compito a casa

Com’è un lettore efficace e competente? E, soprattutto, come lo si diventa? A scuola capita di sentirsi dire che bisogna leggere – tanto, anzi di più – per migliorare le proprie capacità di scrittura.  Il bravo lettore non si confronta solo con la letteratura e coi suoi classici – quei libri che, secondo Italo Calvino, continuano a parlare anche alle nuove generazioni, perché non hanno finito di dire ciò che hanno da dire. Ma il lettore è efficace quando ha automatizzato la comprensione dei codici linguistici e competente quando padroneggia la lingua, sa distinguere un romanzo da un saggio, un articolo di cronaca da un commento editoriale, un testo di divulgazione da un libercolo pubblicitario. Così quel lettore sarà facilitato sull’arco della scolarità e della vita, perché capace di studiare, di risolvere nuovi problemi e imparare altre lingue. Significherà pure poter leggere per il puro piacere di farlo.

Lo ha detto di recente anche il ministro francese dell’economia e delle finanze, Bruno Le Maire, che si è rivolto ai liceali della République con un messaggio sul web, ripreso subito da diverse testate: «Leggete, staccatevi dagli schermi. Gli schermi vi divorano, la lettura vi nutre. Gli schermi vi svuotano, i libri vi riempiono. Fa tutta la differenza. La letteratura e i libri vi permetteranno di scoprire quanto siete unici e fino a che punto non assomigliate a nessun altro. È quello che fa l’umanità. Ogni persona è unica. Ed è la letteratura che ce lo insegna».

Bisogna capire se la scuola è in grado di puntare a simili traguardi, sapendo che la crescita rigogliosa della nostra lingua non dipende solamente da ciò che si riesce a fare nelle aule scolastiche, in cui confluiscono allievi abituati sin da piccoli a maneggiare, guardare e leggere libri, e allievi che crescono a stento su terreni del tutto aridi. Per prima cosa occorre creare gli spazi e i tempi per favorire lo sviluppo linguistico di ognuno. Come ha annotato su queste pagine Renato Martinoni giusto una settimana fa, «complice la mancanza di letture, l’abuso dei “sòscial”, e soprattutto la pigrizia e un peso troppo limitato dato, nelle scuole, alla lingua madre, stiamo formando generazioni di gente che si illude di possedere una lingua senza purtroppo averla per davvero. Regaliamo pertanto all’italiano più ore a scuola. Non solo in quelle di italiano, ma anche in tutte le materie. Perché abbiamo urgente bisogno di una lingua. Di una lingua davvero solida».

Quando leggere diventa un noioso compito a casa o un riempitivo tra due cose reputate più importanti, si sparge l’idea di qualcosa di scarso valore. La lettura, in primo luogo, deve ritrovare il suo peso specifico dentro la scuola, nelle ore in cui l’allievo è lì. Toccherà poi all’insegnante accompagnare, guidare e sostenere le scelte di lettura,  in modo congruo alle capacità di ognuno. Anche il lavoro sui libri dovrà essere rilevante e sensato: ad esempio favorendo la condivisione, la creazione di schede critiche, la presentazione ai compagni, la discussione e il commento critico.

Museo Plantin-Moretus, Anversa (2019)

Capita invece che, avanzando nella scolarità, il tempo per la lettura e per i libri anneghi nei troppi impegni extrascolastici, che sono dominati dallo studio supplementare per far fronte alle reiterate valutazioni di materie ritenute più utili o spendibili, soprattutto in termini di valutazioni scolastiche: le lingue due e tre, la matematica, le scienze. Mentre la lettura di un libro può attendere.


Citazioni

Le parole del ministro francese dell’Economia, delle Finanze e della Ripresa Bruno Le Mair sono tratte dal sito di Repubblica del 7 febbraio 2021. Il messaggio del ministro è in YouTube: Arrachez-vous de vos écrans ! Lisez !

L’articolo di Renato Martinoni è invece apparso sul Caffè del 14 marzo 2021, nella sua rubrica settimanale «Fogli in libertà»: Più ore di italiano per imparare l’italiano.

Come dare parola al pensiero

La scuola insegna fin dall’età più tenera a strutturare un testo. Ancor prima di cominciare a scriverlo – più o meno in seconda elementare – il testo richiede un senso e un’organizzazione. Quando l’insegnante della scuola dell’infanzia chiede ai suoi piccoli allievi di reagire dopo aver ascoltato una fiaba, li aiuta, con stimoli mirati e opportuni, a organizzare ciò che vogliono esprimere, passando da qualche parola-chiave a frasi semplici di senso compiuto. Bisogna cioè imparare a dare delle parole a un pensiero, a un’idea.

Negli anni successivi proseguirà un cammino di formazione lungo, difficile e appassionante. Per insegnare a raccontare un’idea, un parere o una storia non ci si può limitare a dire o scrivere le prime cose che vengono in mente, in maniera disordinata e sconclusionata. La scrittura, in proporzione col proprio grado di sviluppo cognitivo e culturale, deve mirare a un senso. Ma per avvicinarsi sempre più a questo traguardo – un traguardo che potrebbe durare per tutta la vita – è necessario che la scuola affronti il percorso col massimo degli sforzi, perché la strutturazione del pensiero ha bisogno di competenze linguistiche – l’ortografia, la grammatica, la sintassi, il lessico – e di competenze culturali, vale a dire di conoscenze e di relazioni interdisciplinari. È quindi un impegno che coinvolge tutta la scuola, non solo i docenti di italiano.

Il compito della scuola non è quello di formare scrittori, giornalisti o poeti. Ma è possibile e doveroso adoperarsi affinché a quindici anni ognuno sia in grado di esprimersi con chiarezza e rispetto delle regole linguistiche. Tutti devono raggiungere la capacità di dare valore e profondità a ciò che si vuole raccontare, descrivere, esporre, argomentare o riassumere. L’obiettivo è alto e nobile. Nondimeno, per parlare di qualcosa, occorre conoscere l’argomento. Sarà, da adulti, una responsabilità individuale. Ma la scuola deve educare alla responsabilità e all’impegno, affinché nessuno si esprima a vanvera, in modo sciatto, camuffando le proprie inettitudini o millantando conoscenze inesistenti. C’è un galateo della comunicazione, orale o scritta che sia, e ci deve essere un bon ton pedagogico.

Ad esempio, non si può accettare che gli allievi debbano svolgere dei temi a freddo, raccattando le prime idee che vengono in mente. Prima di affrontare il foglio bianco, per contro, bisogna chinarsi insieme sul tema dato o scelto: con la lettura, la discussione, il dialogo; e occorre recuperare i saperi appresi in altre discipline – la storia, le geografia, le scienze, la matematica, le arti.

Pian piano, dunque, si dovrà passare da frasi semplici a testi più complessi e strutturati, imparando a padroneggiare con la giusta misura gli strumenti espressivi e gli artifici della lingua, e a scegliere il registro linguistico più adeguato al contesto.

C’è il tempo per farlo, ma il tempo non bisogna sprecarlo. E, soprattutto in questo campo, bisogna rifiutare la logica della competizione e del posto in classifica. Bisogna aiutare gli allievi a scrivere e a pensare. Si impara con la pratica, con lo studio e con l’aiuto dei docenti. Ha scritto don Lorenzo Milani: Durante i compiti in classe [la professoressa] passava tra i banchi, mi vedeva in difficoltà o sbagliare e non diceva nulla. Io in quelle condizioni sono anche a casa. Ora invece siamo a scuola. E lì, ritta a due passi da me, c’è lei. Sa le cose. È pagata per aiutarmi. E invece perde il tempo a sorvegliarmi come un ladro.


La citazione di Don Milani è tratta da SCUOLA DI BARBIANA, Lettera a una professoressa, 1967, Libreria editrice fiorentina, pp. 127-8

Per scegliere in libertà cosa fare da grande

Fino a cinquant’anni fa, e da più di un secolo, in Ticino esistevano solo tre scuole medie superiori: il liceo a Lugano, la scuola magistrale a Locarno e la scuola di commercio a Bellinzona. È negli anni ’70 che accade la rivoluzione, che renderà concreta la democratizzazione degli studi attraverso l’istituzione della scuola media unica e la creazione dei licei di Bellinzona, Locarno e Mendrisio. È curioso constatare che, nel frattempo, la scuola magistrale è sparita e che la formazione degli insegnanti, diventata post-liceale, è ora affidata alla Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI).

Lo storico palazzo che accoglie ancor oggi il Liceo cantonale di Lugano 1 (immagine tratta da La storia del liceo cantonale).

Ma lo sviluppo più straordinario è avvenuto a livello di formazione professionale, che conta oggi una varietà di specializzazioni altissima, da quelle più tradizionali a tante altre di più recente creazione. Ciò mette in risalto una grande capacità di adattamento alla realtà professionale e di reattività alle sfide di un mondo del lavoro in rapida e continua evoluzione. Il settore della formazione professionale, insomma, è l’assioma di chi ci avverte che fra vent’anni i neonati del 2020 faranno un mestiere che non esiste ancora – senza scordare che lo si diceva già trent’anni fa. A ciò si aggiunga che molte di queste formazioni specializzate possono portare al conseguimento della maturità professionale, che consente l’accesso a un’ulteriore qualifica in istituti formativi di livello universitario. Il settore della formazione professionale è ormai diventato una costellazione scintillante, vivace, curiosa e rigorosa, che non ha proprio nulla da invidiare al più blasonato liceo.

Non è una novità che da diverso tempo c’è chi segnala una percezione fuorviante delle formazioni possibili al termine della scolarità obbligatoria. Il consigliere di stato Gabriele Gendotti, già nel 2003, si chiedeva se non occorresse «sostenere maggiormente la via di una formazione professionale ancora troppo spesso (e a torto!) ritenuta di serie B». E il parlamentare Nicola Pini, nel 2014, rimarcava come «La conoscenza è una virtù fondamentale e una premessa di libertà, un bene che è a prova di furto. Ma i percorsi formativi sono percorribili e di qualità anche in campo professionale».

È il settimanale della RSI «Falò» che, nel 2019, aveva messo qualche puntino sulle i, affermando senza giri di parole che «Chi ha una licenza con i livelli B, dopo la scuola dell’obbligo si trova di fronte molte porte chiuse, fra cui anche quelle dell’apprendistato. A essere colpiti maggiormente – continuava il servizio – sono i giovani con origine sociale bassa» oltre a quelle centinaia «che sono a casa “a far nulla”, che hanno smesso di studiare e di cercare un impiego».

In effetti il nodo centrale è lì, nella scuola media, che funziona come se fosse il vecchio ginnasio, quasi che fossero ancora vive le intenzioni dei suoi fondatori di metà ’800: preparare e selezionare chi avrebbe frequentato il liceo, per diventare avvocato, medico, architetto, ingegnere.

Purtroppo i meccanismi di selezione della scuola dell’obbligo continuano imperterriti a tenere in vita un’idea obsoleta. Invece, e più correttamente, oggi servirebbe una scuola capace di dare a tutti la più solida base culturale che chiunque possa ragionevolmente raggiungere a quell’età. Solo così ognuno sarà in grado di scegliere la formazione post-obbligatoria che riterrà più idonea e vicina ai suoi interessi e alle competenza fin lì acquisite. Una scelta che sarebbe vantaggiosa per tutto il paese.

L’équipe contro la solitudine

Ricordiamo bene l’impatto violento che la pandemia, in primavera, aveva avuto anche sulla scuola. L’inattesa calamità aveva messo in luce il valore della presenza di allievi e docenti negli spazi scolastici, ricordandoci la centralità educativa della convivenza e della comunicazione, un’essenza che supera la capacità di raggiungere gli obiettivi dettati dai programmi. A chi vagheggia una selezione sempre più precoce, conviene chiarire che la scuola dell’obbligo non ha tra i suoi tanti e difficili compiti quello di preparare gli allievi alla scuola che «viene dopo», attraverso una gerarchia che dalle scuole di maturità scende fino al certificato di formazione pratica.

Il nostro ministro dell’educazione, intervenuto proprio una settimana fa su queste pagine, a proposito di scuola dell’obbligo ha scritto che servono dei provvedimenti «che migliorino la personalizzazione dell’insegnamento e le possibilità per i docenti di differenziarlo in base alle diverse capacità degli allievi». Non si può fingere che le differenze prodotte dall’origine sociale, economica e culturale, dalla lingua, dalla religione e dalla propria storia siano solo fatalità.

Fin qui i tentativi per mirare a condizioni migliori per differenziare l’insegnamento ruotano attorno alla diminuzione del numero di allievi per classe e alla presenza di figure specializzate. A seconda del bisogno, nelle aule della scuola obbligatoria si possono incontrare i docenti di appoggio, di sostegno pedagogico e di lingua e integrazione degli alloglotti, oltre a logopedisti, psicomotricisti, specialisti per la gestione dei casi difficili e operatrici pedagogiche per l’integrazione.

Permane, sullo sfondo, la solitudine del docente, che è il vero regista di ciò che succede nella sua aula. È piuttosto difficile capire i motivi che conducono la maggior parte dei sistemi scolastici a puntare tutto sul deus ex machina. Oggi non si parla più di vocazione, come s’usava in altri tempi, anche se la figura del maestro di scuola elementare o del professore della media ricordano per tanti versi i preti che, per primi, si occuparono dell’istruzione di bambini e ragazzi.

Forse bisognerebbe cominciare a pensare a una diversa organizzazione dell’insegnamento obbligatorio; per esempio l’insegnamento in équipe, vale a dire un gruppo di insegnanti che gestisce in comune l’equivalente di un numero di allievi che, normalmente, sarebbero ripartiti in due, tre o più classi. Lavorare insieme – come già succede in molti altri ambiti – offre alternative interessanti per gli insegnanti stessi, che potrebbero sviluppare dinamiche generatrici di successo educativo: nella relazione coi loro allievi e con le famiglie, e con originali possibilità di elaborazione e di sperimentazione della didattica e della valutazione.

Insegnare in équipe non è una soluzione magica; laddove è già una realtà segue logiche diverse l’una dall’altra. Ma ha l’indubbio pregio di mettere insieme docenti con bravure diverse, affinché la qualità del gruppo sia maggiore della somma delle capacità individuali. Lavorare con colleghi che hanno capacità, esperienze e passioni eterogenee diversifica i contributi, ma non toglie nulla ai singoli.

Eppure è un’impostazione di cui non parla nessuno. È legittimo sperare che prima o poi l’istituto che forma, abilita e aggiorna i nostri insegnanti cominci a guardare oltre la famosa siepe cantata dal poeta, per tornare a essere un luogo di riflessione e di stimolo anche al di là dei contenuti, delle didattiche e delle tecnologie.