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Una bella storia di settant’anni fa

Mi piace proporre un articolo apparso su La Regione Ticino di oggi, lunedì 15 settembre 2014. L’intervista di Eminio Ferrari racconta la storia di Enrico Loewenthal, un ragazzo ebreo di famiglia benestante nell’Italia fascista, andato a resistere nel 1943 tra i partigiani in Valle d’Aosta. Come Primo Levi.


Enrico Loewenthal non parlava più tedesco da quando dovette lasciare la scuola in quanto ebreo, ma fu in quella lingua che intimò il ‘mani in alto’ a due soldati della Wehrmacht: ‘Hände hoch, bitte’. La sua militanza nella Resistenza italiana sfata l’immagine della vittima designata e riscrive un capitolo della storia tragica del secolo scorso. A colloquio con il partigiano Ico.

Rivoli – «Hände hoch, bitte». D’improvviso, inaspettatamente, il tedesco riaffiorò alle labbra di Ico. Con il mitra spianato ordinò a due stupefatti soldati della Wehrmacht di alzare le mani. «Per favore». In casa sua quella lingua era vietata da quando, ragazzino, era stato allontanato dalla scuola tedesca che frequentava a Torino. Da quando, cioè, aveva appreso che cosa comportasse essere ebreo negli anni Trenta del secolo scorso. «Ero ancora alle Elementari e dopo la convocazione del preside per comunicarci che non ero più ammesso alla sua scuola mio padre mi aveva proibito di parlare ancora la lingua di chi ci considerava una peste della Storia. Il mio tedesco era rimasto quello di un bambino». Ma quando, un freddo giorno del 1944, fermò i due militari tedeschi nel corso di un’operazione di guerriglia in Valle d’Aosta, a Enrico Loewenthal, divenuto ormai il partigiano Ico, venne spontaneo apostrofarli nella loro stessa lingua. Il che li stupì non poco, ma non quanto quel “Bitte”, che mai si sarebbero immaginati di sentirsi indirizzare da un “bandito”. Loro che, come disse poi uno dei due a Ico, erano stati istruiti ad ammazzare prima di intimare mani in alto. Né avrebbero immaginato che quel ragazzo non solo fosse in grado di usare una tale forma di cortesia col dito sul grilletto, ma che li avrebbe poi fatti accompagnare al confine svizzero, risparmiando loro la vita. È una storia del Novecento quella che Enrico Loewenthal, classe 1926, racconta ancora oggi nella sua casa di Rivoli, esemplare nelle sue illuminazioni così come nelle sue contraddizioni. Nelle sue tragedie e nell’ironia che affiora nel ricordo di uno dei non molti partigiani ebrei della Resistenza italiana. E senza retorica: «Guardi, io sono soltanto un ebreo frusto come tutti gli altri, che a un certo punto si è opposto a una persecuzione. Lo devo a mio padre soprattutto». Guarda il caso: Enrico Loewenthal era concittadino di Primo Levi, anche lui torinese, anche lui partigiano in Valle d’Aosta, ma poi arrestato e condotto ad Auschwitz. Una scelta non del tutto isolata, dunque, ma di quelle che la più consolidata narrazione della Resistenza ha molto spesso ignorato o marginalizzato. Associata alla storia del secondo conflitto mondiale, la figura dell’ebreo – quantomeno in Italia – è quella della vittima piuttosto che del combattente. «In effetti – conviene Enrico Loewenthal – di ebrei che abbiano fatto la Resistenza ce ne furono pochi. Quanto a me, devo dire che la mia lotta è cominciata ben prima del 1943. Ho vissuto la vita del ragazzo ebreo di famiglia benestante nell’Italia fascista: dapprima sono stato cacciato dalla scuola tedesca, e dopo il varo delle leggi razziali anche dalla scuola pubblica italiana. Covavo una rabbia che cresceva con l’età, e quando, quindicenne, sono andato a far pratica in una piccola officina di un armaiuolo ho cominciato ad acquistare alcune vecchie armi lasciatevi dagli ufficiali italiani che volevano spuntare qualche soldo. Devo pur dire di essere stato uno stupido a non prenderle con me quando, dopo l’8 settembre, sono fuggito da Torino con la mia famiglia».

Diciassette anni, partigiano

Una fuga, come racconta nel suo “Mani in alto, bitte” (recentemente tradotto in tedesco), che durò poco. Non perché Enrico venne preso, ma perché ben presto, diciassettenne, si arruolò nelle formazioni garibaldine che si erano già costituite nelle valli del Torinese. La rigidità ideologica e le pretese egemoniche dei “comunisti”, come li chiama lui («è da allora che non li sopporto»), gli fecero poi preferire le formazioni di Giustizia e Libertà di Ferruccio Parri e infine, sino alla Liberazione, aderì a quelle autonome in Valle d’Aosta. Non senza aver conosciuto prima i pericoli e l’ebbrezza di lunghe traversate delle Alpi per procurarsi armi e materiale americano in Francia. «Avevo convinto il mio comandante a lasciarmi partire con due guide. Gli dissi che avrei camminato finché avrei trovato gli americani. E ce la feci. Così tornammo carichi di armi e con indosso divise americane. Può immaginare i sospetti e l’invidia delle altre formazioni». E possiamo oggi immaginare quanto poco sospetti e invidia potessero fiaccare il coraggio di quel ragazzo che nel dopoguerra sarebbe diventato uno stretto collaboratore di Simon Wiesenthal nella caccia ai criminali nazisti fuggiti dall’Europa. Perché, vi ritorniamo, se la storia del partigiano Ico è analoga a quella di molti resistenti, a distinguerla c’è la sua discendenza ebraica. E quanto a questo la sua esperienza e le sue parole sono nette. «In famiglia sapevamo che cosa si stava preparando nella Germania nazista attraverso le lettere dello zio Alfred: le violenze, la propaganda, i bandi dal lavoro, dalle scuole, dalle attività commerciali. Finché la sua ultima lettera ci avvertiva: ‘Ci hanno chiesto di tenerci pronti per essere trasferiti a est dove potremo reinsediarci e lavorare’». Trasferiti: su che tipo di vagoni e per quale destinazione oggi lo sappiamo. Oggi, appunto. La cognizione di che cosa si stava preparando, allora poteva non essere ancora chiara. Nell’Italia fascista i segni potevano essere contraddittori. Non dopo le leggi razziali del 1938. «Ci furono due fascismi – dice Ico –. Il primo è quello che molti italiani sostennero con un sentimento nazionalista più che per adesione ideologica. Ci furono ebrei profondamente fascisti e monarchici. Mio fratello – la sua storia è emblematica – partecipava da giovane alle riunioni dello Shabbat, nel corso delle quali si discuteva di bibbia ed ebraismo, ma fu denunciato per attività contro lo Stato da una spia, un ebreo. Finì in prigione e ne uscì traumatizzato. Si è trascinato dietro questa macchia, divenne un fascista convinto e fortunatamente mio padre riuscì a farlo emigrare in America con l’ultimo viaggio del Rex».

Una storia di persecuzioni

Ico no. Non volle allora né oggi essere vittima condiscendente o corrispondere all’icona dell’ebreo “inviato al macello”, che tanto ha fatto scrivere, dire e contraddire. «Sono sì stato un bravo ragazzo ebreo che seguì tutto il percorso di formazione e integrazione nella comunità (ma non sono credente, semmai sono parte di una tradizione), ma la mia esperienza successiva è stata in effetti un’eccezione. Tenga conto che per i duemila anni che hanno seguito la nascita di Gesù Cristo, dopo la loro cacciata dalla terra di Israele, gli ebrei non hanno mai fatto l’esperienza delle armi. Furono un popolo pacifico e sottomesso. La mia scelta (e della ventina di ebrei sui millecinquecento che contava la comunità torinese) contraddì dunque una consuetudine millenaria. Non sapevamo quasi di poterci difendere. Ma ricordo bene la mia gioia del giorno in cui sono riuscito ad avere un fucile in mano…». E la vita gli fornì presto motivo di usarlo: una guerra è una guerra. O di non usarlo: la guerra non è tutto.

Una richiesta di perdono

Il suo incontro diretto con il nemico, nelle vesti dei soldati tedeschi, fu singolare: l’arresto, l’accompagnamento oltre il confine. Una specie di amicizia durata nel dopoguerra. Ico, gli chiedo, prevalse allora la clemenza, o a risparmiare la vita ai due militari tedeschi fu la sua non conoscenza dei loro atti precedenti né di quanto si andava compiendo nei campi di sterminio? «Li ho ancor davanti agli occhi, quei due, e quando mi chiedo come mi sarei comportato se avessi saputo di loro e di Auschwitz non so ancora darmi una risposta. Le posso dire che la mia indole non è mai stata sanguinaria, non ho mai provato piacere ad uccidere. Non so, forse avrei fatto lo stesso, mi sarei comportato con la stessa educazione, ma non ne sono certo. Quando poi, molti anni più tardi, ho ritrovato uno dei due militari, Ludwig Seiwald, diventandone in qualche modo amico, ricevetti da lui il suo diario di guerra. Vi lessi della sua partecipazione alla prima campagna in Polonia, delle violenze a cui prese consapevolmente parte. Raccontava di quando, per rappresaglia nei confronti di una piccola forma di resistenza incontrata in un villaggio, il suo plotone inchiodò gli uomini alle porte delle stalle. E raccontava dei rastrellamenti a cui aveva preso parte nelle valli del Cuneese: baite incendiate, partigiani fucilati. Quando si trovò davanti quel giovanissimo partigiano che ero io col mitra spianato, si aspettava probabilmente un simile trattamento. Di qui il terrore, la sorpresa per quel “bitte”, e lo stupore confuso quando lui e il suo commilitone vennero accompagnati in Svizzera. Così, immagino che consegnandomi quelle pagine, nel 1956, volesse rivelarsi per ciò che era stato e forse anche per chiedermi perdono». Ico non dice se quel perdono è mai stato accordato. E non mi sembra il caso di chiederglielo. Solo un’altra cosa: avete mai parlato della Shoah? «No. Mai».

La Grande Guerra e il recupero della Storia

Il bello di certi anniversari è che permettono di recuperare delle conoscenze che, se va bene, erano state acquisite negli anni di scuola, mentre ora sono immerse nelle nebbie più fitte. È stato il caso nel 1991, con le celebrazioni del 700° della Confederazione, o, in anni più recenti, con il bicentenario del Canton Ticino membro della Confederazione svizzera, nel 2003, quando si era parlato dell’Atto di mediazione. Per capirci: ricordo un servizio della TSI durante il quale il cronista aveva posto a bruciapelo la domanda ad alcuni politici d’alto bordo, attesi all’uscita da uno degli innumerevoli momenti ufficiali di quell’anno: «Cos’è l’Atto di mediazione?», aveva chiesto il giornalista. Arrampicate sui vetri e giustificazioni un po’ comiche.

Il 2014 sarà l’anno del centenario dello scoppio della Grande Guerra. È dunque lecito aspettarsi pubblicazioni, servizi giornalistici, esposizioni e opere divulgative che mireranno a offrire almeno i contorni essenziali di cosa fu la prima guerra mondiale. In un simpatico articolo apparso sul Corriere, Michele Fazioli ha osservato: «Una volta ho scritto che i nostri studenti non imparano bene la Storia. Alcuni docenti di storia mi hanno rimproverato, dicendomi che non è vero. Sarà. Comunque io più volte e ancora recentemente ho effettuato dei piccoli test. Ho interrogato alcuni studenti al termine del ciclo di studi sulla nascita del Canton Ticino e sulle lotte fra liberali e conservatori. Ho chiesto loro se sapessero come mai cento anni fa fosse scoppiata la Prima Guerra mondiale. Boh!, mi hanno risposto».

Capisco la reazione dei docenti di storia, che immagino stizzita e un po’ piccata. Conosco qualche docente di storia che va in aula a combattere contro i mulini a vento con grande passione e competenza, credendo profondamente in quel che fa. Ma lo studio della storia, in questi tempi globalizzati e tecnocratici, sembra inutile ai più. Fa ancora parte dei nostri programmi, almeno a partire dalla scuola media, ma non si sa se per inerzia, perché s’è sempre fatto così, oppure se per la convinzione che la storia sia maestra di vita – o, almeno, uno strumento inevitabile per leggere il presente.

Penso che di storia sia possibile parlare sin dalla scuola elementare. I programmi attuali, però, sono sufficientemente vaghi, così che è solitamente difficile chinarsi in maniera articolata su qualche tema dal sapore storico. Lo scorso anno il DECS ha pubblicato il primo volume di un bellissimo manuale di storia per la scuola media, «La Svizzera nella storia». Si percorre la strada che va dal paleolitico al XVI secolo, mentre il secondo volume ci porterà fino ai nostri giorni. Solo che già il primo tomo occupa il programma dei primi due anni, penetrando pure nel terzo, mentre la dotazione oraria è mediamente di due ore settimanali. Come faranno i nostri ragazzi a far propri questi contenuti e a ricordarne almeno gli aspetti essenziali è un mistero. Non mi risulta che la didattica abbia messo a punto negli ultimi anni nuove procedure incredibilmente efficaci, tanto più che la storia non fa certo parte delle materie più temute da allievi e studenti, perché per la selezione, si sa, si impiegano ben altre armi. E ora, ma non è una novità, c’è chi vorrebbe introdurre una nuova disciplina, l’educazione alla cittadinanza, con tanto di note e di inevitabili test, togliendo ore proprio alla storia: così che, oltre al danno, rimedieremo anche le beffe.

L’educazione civica, il Salmo svizzero e le due gocce d’acqua

C’è nell’aria, da un po’ di tempo in qua, una gran voglia di svizzeritudine e di ritorno alla bella politica. I giovani però, si dice, sono tiepidi al riguardo, non si interessano alle vicende del paese, non si recano alle urne, sono restii a partecipare ai riti della democrazia diretta. Politicamente parlando, sono ignoranti come buoi. Così bisogna istruirli e anche educarli: alla civica e alla cittadinanza. La recente decisione del Gran Consiglio di imporre l’insegnamento del Salmo svizzero a tutti i futuri cittadini durante la scuola dell’obbligo si iscrive in questa smania di patriottismo di ritorno. Insegnare l’inno ai giovani, è stato detto durante il lungo dibattito parlamentare, è un ulteriore stimolo per l’educazione civica dei giovani, un modo per trasmettere loro i valori elvetici. Me li immagino tanti adolescenti, già a disagio con gli endecasillabi de «L’infinito», quando s’imbatteranno in «di mia patria deh! Pietà / brilla, sol di verità». Si potrebbe immaginare di ancorare alla legge della scuola qualche altro simbolo, come lo stendardo rossocrociato in tutte le aule, la lettura della leggenda di Guglielmo Tell o un bell’alzabandiera, se non tutti i giorni almeno all’apertura dell’anno scolastico, osannato dalle quattro strofe del Salmo, ormai perfettamente imparate a memoria, e sostenute dal saluto benaugurante del sindaco.
In analogo ordine di idee, anche se con obiettivi più articolati, si colloca l’iniziativa «Educhiamo i giovani alla cittadinanza», che nel giro di una settimana ha raccolto ottomila firme e che, ne sono convinto, diverrà testo di legge in meno tempo di quel che si pensi. Così una nuova materia diverrà obbligatoria nelle scuole, dalla media in su, e dovrà essere insegnata per almeno due ore al mese, sottraendo il tempo necessario alle ore di storia (sic). Va da sé che anche questa disciplina sarà valutata con delle note, poiché, a mente dei promotori, senza nota non c’è studio: tanto per gonfiare ancor più la fallimentare pedagogia del bastone e della carota. L’intento è lodevole, sia chiaro, ma mi sa tanto che, oltre i buoni propositi, la maleducazione civica sopravvivrà, anche perché «sacco vuoto non sta in piedi».
Su Ticino Management dello scorso dicembre Pier Felice Barchi ha espresso un’interessante opinione sul concetto di svizzeritudine, «uno stato d’animo più che una dottrina politica». Scrive Barchi che «Coltivare la svizzeritudine significa chinarci su quei valori che vanno preservati a scanso di un inquinamento dei non valori (che possono essere riassunti nella mancanza di senso dello Stato e del rispetto della comunità e della solidarietà)», anche perché «La vita dello spirito in tutto il mondo si esprime grazie a una élite, mentre la politica non necessariamente si ispira alla cultura e all’etica»: che è poi quel che capita quando si scavalcano con disinvoltura le competenze e la cultura, elementi irrinunciabili per una democrazia sana, per sprofondare difilato nelle comode poltrone della politica. Una volta Norberto Bobbio ragionando, ben prima dell’invenzione del “porcellum”, sul possibile divario tra governanti e governati, ha osservato: «Se gli italiani siano migliori o peggiori della classe politica che li rappresenta, e li rappresenta perché essi stessi la scelgono, è una domanda cui è difficile dare una risposta. Ma non vedo come si possa scartare del tutto l’ipotesi che gli uni e l’altra si assomiglino come due gocce d’acqua». Non solo in Italia, ovvio.

La storia nella scuola e la Svizzera nella storia

Se c’è una disciplina che è uscita con le ossa particolarmente rotte dalle riforme scolastiche del dopo ’68 questa è la storia. Ricordate il vecchio nozionismo da mettere alla gogna, quello con l’anno della rivoluzione francese e del patto del Grütli (troppo facile, dai!) o i nomi, in ordine di apparizione, dei sette re di Roma? Era una scuola-quiz, che attraverso l’insegnamento della storia contribuiva a plasmare l’appartenenza alla Patria e la sudditanza all’establishment – basti pensare all’eroe nazionale, quel Guglielmo Tell esibito come protagonista reale della nostra storia primitiva e rimesso sulla mensola delle leggende dallo svizzerissimo Max Frisch, guarda caso nel 1971. La contromossa fu l’importanza dell’imparare a imparare, a volte sul vuoto assoluto, che però non ha resistito a lungo, col risultato che la storia è pressoché sparita dalla scuola elementare, mentre nella scuola media è ricomparsa più o meno intatta, un po’ meno quiz, ma decisamente più complicata. Insegnare la storia è naturalmente molto difficile, e ancor più arduo è far nascere il necessario entusiasmo verso una disciplina che l’economia, grande ispiratrice della scuola di oggi, non cita mai quando detta le condizioni per formare i cittadini di domani. Così, assai spesso, ci si arrabatta in qualche modo per cercare di costruire competenze, che però sono insensate senza le tanto oltraggiate nozioni: ma va quasi sempre a finire che i test chiedano proprio solo quelle, così che, una volta superato l’esame, si può resettare il cervello.
È dunque con una certa trepidazione che, nei giorni scorsi, ho cominciato a sfogliare il primo volume del nuovo manuale di storia per le nostre scuole – «La Svizzera nella storia» – edito dal DECS e curato da un apposito gruppo di lavoro composto da esperti e insegnanti di storia, che è stato consegnato a tutti gli allievi di I e II media (il secondo volume, destinato agli allievi di III e IV, sarà distribuito l’anno prossimo). Il volume è molto interessante per diverse ragioni. Come si legge nell’introduzione, si è voluto «inserire pienamente la storia nazionale nel processo politico, economico, sociale e culturale dell’Europa e del mondo», così che «il manuale si orienta verso un altro tipo di impostazione: la Svizzera non come risultato di un caso isolato, ma punto di arrivo di una rete di relazioni che hanno condizionato e favorito determinate scelte al posto di altre». I contenuti sono coerenti con la dichiarazione di partenza e chiari nell’esposizione, con un ottimo equilibrio tra descrizioni, documenti, illustrazioni, fotografie, carte, voci di glossario, proposte di approfondimento, esercizi e corposi riferimenti alla nostra storia, che esce quindi dal Sonderfall per entrare nella storia dell’Europa.
Resta inteso che il manuale, da solo, non potrà fare miracoli. Esso è un po’ come uno spartito, che da solo non dice nulla. Toccherà alla scuola e ai suoi insegnanti dar vita a quelle note, a quei ritmi, ai piani e ai forti, ai lenti, agli andanti e agli allegro con fuoco: affinché la storia risuoni nelle menti e non resti impantanata nell’inutile prassi dei voti e delle medie. Imparare a storicizzare il presente non è sterile manierismo scolastico, ma conquista di libertà, soprattutto verso le tante lusinghe che generano a ritmi esasperati nuove generazioni di consumatori e di elettori sempre più sprovvisti di senso critico, siano essi autoctoni DOC o immigrati dell’ultima ora.

Si fa in fretta a dire «educazione alla cittadinanza»

Malgrado tutto, ancor oggi c’è chi mette la scuola sul banco degli imputati per le lacune civiche della popolazione. Nel 2002 il Gran Consiglio modificò il regolamento della scuola media, introducendo un intero articolo dedicato all’insegnamento della civica e dell’educazione alla cittadinanza. Con questa innovazione legislativa si statuì che l’insegnamento dovesse avvenire in III e in IV media e fosse compreso, parzialmente, nel programma di storia e civica; poi l’organizzazione di alcune giornate o mezze giornate riservate a queste tematiche avrebbe fatto il resto. Son passati dieci anni, ma non sembra che la riforma abbia dato i frutti sperati. Se le elezioni comunali sono un buon termometro per palpare il polso al senso di appartenenza dei cittadini alla comunità politica, allora vien da dire che il problema non è stato risolto. È infatti noto che i partiti hanno incontrato difficoltà invalicabili a trovare candidati per le loro liste in vista delle vicine votazioni comunali, tanto che in un comune su quattro non si andrà a votare: elezioni tacite, il che non è un buon segnale e, soprattutto, non significa che l’armonia regni sovrana tra i cittadini.
Quattro anni fa andò a votare poco più della metà di chi ne aveva diritto. L’elezione dei nostri amministratori e legislatori, dunque, è un affare di pochi. Eppure gli eletti ci governeranno per quattro anni, e non è detto che non facciano danni che si allungheranno nel tempo – così come non si può mettere la mano sul fuoco che non si faranno gli affari propri. Ma allora, per tornare al nocciolo del discorso, come si educano e si avvicinano i cittadini alla civica e, così, anche alla politica? Esistesse una risposta sicura e oggettiva il problema non esisterebbe e il parlamento non avrebbe dovuto far finta di affrontarlo cambiando il regolamento della scuola media. I nostalgici evocano sovente «Frassineto», il noto libro dell’avvocato, giornalista e politico Brenno Bertoni, «Letture di educazione civica ad uso delle scuole maggiori e della 3ª ginnasiale», pubblicato la prima volta nel 1933. Quello, però, era un testo che descriveva e spiegava il funzionamento delle istituzioni, che era tutto sommato facile e logico verificare coi propri occhi (e, soprattutto, coi propri pensieri). Iniziava con un motto: «Formare il cittadino, facendo astrazione dell’uomo, è impossibile. Ma non è meno impossibile formare l’uomo senza formare il cittadino». Poi, attraverso esempi concreti, dispiegava la tela della Politica reale, col fondamento profondo che ricoprire una carica politica era un onore, ancor prima più che un onere.
Oggi si dice che l’ideologia è morta, che destra e sinistra sono concetti antiquati o, almeno, passati di moda. Sarà. Coerentemente la politica odierna ha inventato le liste senza intestazione e quelle civiche, come se non esistessero partiti e movimenti a sufficienza per fare una scelta assennata, magari turandosi qualche volta il naso. Così i nostri adolescenti coltivano altri interessi e snobbano la politica, col probabile timore che, vada come vada, non sarà possibile far qualcosa affinché mamma possa stare a casa con noi, al posto di sgobbare come un mulo dalle stelle alle stelle a fare un lavoro del cavolo, così da dare una mano a tirare le fine del mese. E contro l’aumento dei premi della cassa malati c’è poco da fare. E il figlio disoccupato non troverà un lavoro decoroso neanche promettendo al partito o all’amico fugace il tanto agognato voto personale. Nel frattempo il nostro adolescente leggerà magari i giornali e seguirà le nostre TV. Così davanti al teatrino quotidiano dei politici si allontanerà ancor più, nella convinzione che la possibilità di cambiare le cose sia affare dei soliti maneggioni, contro cui non val la pena scaldarsi gli animi. Eh sì, si fa in fretta a dire educazione civica.