Una missione sempre più donchisciottesca

Sul Corriere del 1° febbraio, il garbato lettore Franco Cavallero di Lugano ha fatto le pulci al mio ultimo intervento su questo giornale, quando me l’ero presa con un gruppo di parlamentari che, attraverso una mozione, sollecita la creazione di strutture adeguate per occuparsi degli allievi superdotati. “Secondo me – scrive il signor Cavallero, che ringrazio per l’opportunità che mi offre di aggiungere qualche spunto al ragionamento – la scuola fa male a snobbare i migliori”. E sottolinea che “…esistono tanti altri allievi (quanti?), di oro meno fino, che a scuola si annoiano di noia mortale”.
Per quanto mi concerne, ho da tempo il dubbio che a scuola siano in molti a tediarsi – allievi, sì, ma anche insegnanti e dirigenti. A differenza però del mio civile interlocutore, non me la sento di addossare la colpa ai pedagogisti, rei di aver imposto un modello basato sull’appiattimento dei comportamenti e dei saperi, che tenderebbe a farsene un baffo di tutte le punte per creare una siepe bassa e ben livellata. D’altra parte è pur vero che per molti anni la scuola è andata avanti a occuparsi solo dei diseredati – socialmente e per dotazione naturale – scordandosi dei migliori e dei normalmente dotati, col bel risultato che l’appiattimento su una specie di pensiero misero e uniforme si sta sedimentando, se già non è una realtà.
Ma versare lacrime su sbagli commessi in tempi nemmeno troppo lontani non serve a migliorare una scuola che, a tutt’oggi, è comunque confrontata con problemi d’identità e di ruolo che fino a vent’anni fa neppure si potevano immaginare. Per la prima volta nella storia, la scuola non è più specchio della società, ma la insegue ansimando, con incedere sgangherato. Di certo non è con la restaurazione di metodologie d’antan che si possono risolvere i tormenti di un’istituzione che per davvero dovrebbe essere in grado di offrire il massimo a tutti i suoi allievi, siano essi debolucci o superdorati, figli di medici o di lavapiatti, indigeni o stranieri. La scuola di un tempo, quella dove i migliori (i più fortunati?) erano additati come esempio per gli altri – che in qualche caso riuscivano pure a imitarli e a trarne qualche vantaggio – si fondava su alcuni punti fissi condivisi da tutti, ma proprio tutti. I programmi scolastici e l’immagine di “buona educazione” si tramandavano di generazione in generazione, con variazioni minute, e la scuola – soprattutto quella dell’obbligo – fungeva da cinghia di trasmissione e da catalizzatore dell’immutabilità dell’appartenenza socio-culturale.
Oggi, per cause che vanno certo al di là delle responsabilità o dei meriti del sistema scolastico, il divario culturale tra due generazioni consecutive è sempre più alto, tanto che i dirigenti scolastici di tutto l’occidente non sanno più con precisione che pesci pigliare, particolarmente dopo l’ubriacatura di sapere scientifico e tecnologico che ha seriamente inquinato le nostre culture. Quale valore hanno ancora la letteratura e la filosofia, l’arte e l’etica della convivenza civile, lo studio della storia e il piacere della poesia? Avessi la bacchetta magica, saprei come (ri)fondare una scuola dell’obbligo che sappia educare cittadini critici, consapevoli e istruiti. Ma occorrono scelte precise, non cerotti per tamponare oggi una lacerazione e domani quell’altra, lasciando tutto il resto alla mercé del mondo economico e dei mass media.
Così sarebbe conveniente avere finalmente il coraggio di metter mano a quelle importanti riforme strutturali evocate da almeno un decennio e continuamente insabbiate sotto una montagna di pretesti: di certo una scuola che funziona a compartimenti stagni, ancorata alla certificazione annuale, a griglie orarie assurde e desuete, alla pedagogia del test, non può in nessun modo rispondere a esigenze sempre più differenziate: malgrado tutta la buona volontà di chi, dentro l’aula, cerca davvero di dare il massimo ad ogni suo allievo, nel rispetto della classe e del Paese. Ma sta diventando una missione sempre più donchisciottesca.

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